“How to fight the Mafia” è un reportage di SkyNewsUK andato in onda in 125 paesi. Il reportage d’inchiesta racconta l’impegno dell’Italia nella lotta alla mafia ed ha già registrato 200 milioni di spettatori. La troupe di tre persone (la corrispondente Siobhan Robbins, il produttore Simone Baglivo e il cameramen Dean Massey, hanno viaggiato durante l’estate in Calabria. Su “i Calabresi” (MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews), Anna Sergi scrive:
Dal colosso TV arriva l’ennesimo documentario monocorde a botte di stereotipi, spettacolarizzazione della criminalità locale e calabresi mostrati come animali da circo. Un trionfo di luoghi comuni che serve a poco e spiega ancora meno sulla complessità del fenomeno. Un ennesimo documentario, questa volta prodotto da SkyNews, propone 20 minuti di riprese in Calabria per spiegare How To Fight the Mafia, come combattere la mafia (nello specifico, la ‘ndrangheta).
Il fermo immagine del video è immancabilmente la figura del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. L’inizio è una marcia dei carabinieri con scudi protettivi e bastoni minacciosi su cui si inserisce la giornalista. Dice «This is Mafia Land», «questa è la terra della mafia», a braccia aperte verso l’alto.
Con un inizio così terribile ci si auspicherebbe un miglioramento nel contenuto che segue, ma il documentario purtroppo non migliora. Se l’obiettivo era spiegare all’audience come si combatte la mafia, chi guarda non può che uscirne confuso.
La giornalista visita San Luca e Platì. Parla con i carabinieri locali, le fanno vedere qualche bunker e delle foto in caserma con su scritto “catturato”, molto sceniche. Gli stereotipi arrivano subito a «Mafia Land», con commenti sulla gente di San Luca e Platì che guarda curiosa e torva dalla finestra. Seguono i soliti numeri mitologici della ‘ndrangheta: il controllo dell’80% del mercato della cocaina europea e il fatturato annuale di 60 miliardi di euro. Entrambi appaiono periodicamente sui media senza una vera spiegazione su come si ricavino.
Si passa poi ad un volo panoramico coi Cacciatori d’Aspromonte, la squadra speciale dei carabinieri a cui la giornalista chiede «Quanto è difficile il vostro lavoro?».
Poi, senza soluzione di continuità né spiegazione del cambio di passo e luogo, ecco il racconto di una vittima di mafia, a Lamezia Terme. È l’assist all’ultima parte del programma sulla ‘ndrangheta di SkyNews, centrato sul processo Rinascita-Scott e sul procuratore Nicola Gratteri. (…)
Quando si parte per un qualsiasi viaggio in una terra sconosciuta con una telecamera in mano, due sono le possibilità:
1) si ha già una mappa in testa, ovvero una tesi da voler dimostrare, tesi nata da precedenti studi, ricerche, incontri, documentazione, viaggi. Le riprese seguono dunque il percorso della sceneggiatura e col montaggio il prodotto finito avrà il compito di spiegare la tesi “precostituita”. La tesi può essere giusta o sbagliata, non è questo il punto, quel che si vuole sottolineare è che il lavoro documentario nel posto sconosciuto (la Calabria o il Suriname, Londra o la Guinea-Bissau) serve a dimostrare una tesi già studiata a tavolino, attraverso precedenti ricerche fatte con l’ausilio di altri studiosi;
2) oppure si arriva in un luogo senza conoscerlo e senza averlo studiato in precedenza, con occhi ingenui da bambino. Tutto quello che si riprende con una telecamera è frutto del caso, tutto sorprende l’ignaro viaggiatore che dunque, nel tempo limitato della sua visita, ricaverà semplici impressioni, annotazioni ed opinioni fugaci ed estemporanee dettate da quello che la realtà offre al suo sguardo. Il visitatore improvvisa un discorso su quel che gli capita di vedere senza che egli sappia prima cosa vuol vedere e cosa sia interessante. Anzi facendo di necessità virtù, e del tempo limitato una condizione, il visitatore è indotto giocoforza a ritenere interessante solo quel che gli capita di vedere. Se, per esempio, mentre riprende una strada ci sono persone che spiano dalla finestra, quelle persone diventeranno per lui significative della realtà sociologica. Le contrabbanda per “scoperte”.
In entrambi i casi (realtà spiegata “come volevasi dimostrare” oppure realtà vista e colta attraverso visite fugaci) la realtà o viene manipolata per dimostrare qualcosa a tavolino oppure viene subìta senza una bussola che serva da guida. Se vai in un posto, insomma, o hai una guida, un navigatore, un Virgilio, oppure non sai dove andare e vai a zonzo.
Non sono quindi solo i reportage televisivi sulla Calabria a sottostare a queste due scelte pregiudiziali. Qualsiasi inchiesta o documentario (attraverso tv o cinema) nasce dall’occhio dell’autore il quale può essere consapevole o inconsapevole della realtà che intende riprendere e comportarsi di conseguenza. Questo discorso prescinde dalla scrittura audiovisiva, la quale, come la scrittura della parola, ha la sua grammatica con delle regole, strutture e convenzioni che danno senso e significato. Intendo dire che i “contenuti” sono sottoposti alla nostra “visual literacy”, perché il senso passerà attraverso la creazione e l’accostamento delle immagini e dei suoni.
Quel che è davvero ridicolo e talvolta urticante è voler fingere che l’inchiesta sia un’ indagine “oggettiva” senza manomissioni, pregiudizi, tesi precostituite a tavolino. Già la semplice scelta degli intervistati è fatta a monte e non è affatto neutra. Se, per restare alla Calabria, la scelta è quella di mettere Gratteri al centro del villaggio (non c’è nessun giudizio di valore in questa osservazione) o un altro/a, tutto il discorso prenderà una direzione oppure un’altra.