(30/10/23) Il ragazzo che a Roma ha strappato la bandiera di Israele dal muro di cinta della Fao, come se fosse un trofeo di guerra, ci ha dato la perfetta rappresentazione di che cosa voglia una parte cospicua di questo movimento di piazza: annullare lo Stato ebraico. Perché illegittimo fin dalla nascita, nonostante sia stata l’Assemblea generale dell’Onu nel 1947, con una maggioranza di due terzi, ad approvare il piano che ne prevedeva la fondazione.
Chi strappa o brucia la bandiera con la stella di David ci sta infatti dicendo che l’unica speranza per i palestinesi è distruggere Israele, e restituirne così il territorio usurpato a un popolo che uno Stato non l’ha mai avuto. Dà perciò pienamente ragione ad Hamas. Magari, nella migliore delle ipotesi, aggiunge che certo, talvolta i suoi tagliagole esagerano in crudeltà; ma vanno capiti, perché sono esasperati.
In questa posizione c’è un fondo di indiscutibile antisemitismo: perché mai, sennò, gli ebrei non avrebbero diritto a uno Stato? E l’odio contro Israele è così forte che riesce perfino a unire odii di solito contrapposti, portando fianco a fianco i centri sociali e i fascisti dell’assalto alla Cgil. Si può perciò dire che gli antisemiti erano tutti in piazza l’altro giorno. Non si può però certamente dire che tutti coloro che manifestano, da noi come nel resto d’Europa, siano antisemiti. Chi difende il diritto a esistere di Israele deve dunque chiedersi perché in tutti questi cortei oggi si sventoli solo la bandiera palestinese, e mai anche quella dello Stato ebraico. Perché, a differenza di trent’anni fa, chi si batte per la pace oggi non riesca più ad affiancare i due vessilli, e dar voce alla speranza che entrambi i popoli possano avere uno Stato.
Eppure nel 1994, più o meno di questi giorni, il Nobel per la pace veniva assegnato a due governanti israeliani, Rabin e Peres, e al capo dei palestinesi Arafat. L’anno prima avevano siglato gli accordi di Oslo e si erano reciprocamente garantiti il riconoscimento del diritto di Israele a esistere in sicurezza, e l’autogoverno dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza come primo passo verso la nascita del nuovo Stato. La pace era dunque possibile. Forse era a portata di mano. Gli estremisti di entrambe le parti l’hanno fatta fallire, così come hanno fatto fallire tutti i tentativi successivi. Al punto che ora tanti giovani in Occidente non vedono altra possibilità che la vittoria dell’uno o dell’altro dei contendenti. Perfino nei sondaggi ci viene ormai chiesto: «Lei sta con Israele o con i palestinesi?». Una domanda cui personalmente mi rifiuterei di rispondere.
Forse è anche per questa impossibilità di sperare nella pace se la carneficina di Hamas è stata «accettata» da troppi in Occidente come un atto di guerra, quasi che fosse l’ennesimo episodio di una lotta di liberazione nazionale; invece che denunciata per quello che è, e cioè una caccia all’ebreo che cambia la storia di quel conflitto, una strage a metà tra Bucha e il Bataclan, una mattanza di bambini, una persecuzione analoga alle razzie degli Einsatzgruppen, le unità mobili di sterminio dei nazisti. Perché gli stessi manifestanti che giustamente distinguono tra Gaza e Hamas, e chiedono di non far pagare ai palestinesi le colpe di chi uccide in loro nome, non riescono poi a fare lo stesso con Israele, a distinguere cioè il governo israeliano dal popolo israeliano, e anzi vorrebbero far pagare al secondo le colpe del primo?
Ciò che sta accadendo nelle piazze di Europa, questo nuovo manicheismo, questo doppio standard esibito senza più pudore, questa incapacità di leggere la genesi e le cause della tragedia mediorientale, è orribile. Ma proprio perché un tale veleno si è insinuato nel cuore e nella mente di tanti, bisogna al più presto trovare un antidoto. E non può spettare solo a noi, amici di Israele in Occidente. È a Gerusalemme che va preparato.
I futuri governanti dello Stato ebraico, coloro che prima o poi verranno dopo Netanyahu, hanno il compito storico di mettere fine alla «grande illusione» coltivata negli ultimi venticinque anni dalla destra di Bibi, secondo cui la questione palestinese poteva essere buttata in un cestino, messa tra parentesi, scavalcata dalla strategia, ideata da Donald Trump e dal genero Jared Kushner, degli Accordi di Abramo, cioè da una serie di intese dirette con gli stati arabi. L’illusione di poter gestire una sorta di «convivenza armata» con Hamas, la cui intransigenza diventava una buona ragione per l’intransigenza israeliana, e «giustificava» la scelta di Netanyahu di sostenere anche con l’esercito la «colonizzazione» della Cisgiordania.
La carneficina del 7 ottobre mette tragicamente fine a questa illusione. Senza una strategia per la pace lo Stato di Israele può essere solo più debole, esposto, e incompreso. Tanto più dimostrerà la sua superiorità morale rispetto agli assassini di Hamas, a partire dalle vite di palestinesi innocenti che saprà risparmiare in queste ore a Gaza, tanto più sarà forte in Medio Oriente e rispettato in Occidente.
Luca Ricolfi Il mondo non è modellabile (1/11/23) Come racconteranno la questione palestinese gli storici del futuro? Una possibilità è che non la raccontino affatto, perché, ove la miccia accesa da Hamas (e amplificata dalla reazione Israele) dovesse sfociare nella terza guerra mondiale, difficilmente ci saranno ancora degli storici.Ma supponiamo che la terza guerra mondiale non scoppi, che a un certo punto l’incendio si spenga, e che – magari fra 50 o 100 anni – israeliani e palestinesi abbiano trovato un modus vivendi. Come verrebbe raccontata quella storia?
Una possibilità è che accada quel che, a sentire gli psicoterapeuti di orientamento sistemico, accade nella terapia di coppia. I coniugi in conflitto ricostruiscono la propria vicenda in modo diverso, ma la diversità sta essenzialmente nella punteggiatura: per l’uno il fatto decisivo è x, e quel che è seguito a x è solo la (giustificata) reazione a x, per l’altro il fatto decisivo è y, e quel che è seguito a y è solo la (giustificata) reazione a y. Così lui e lei si incolpano a vicenda della rottura della relazione, e il problema del terapeuta diventa rompere il circolo senza fine delle accuse reciproche. È possibile che lo facciano anche gli storici del futuro se, come oggi spesso accade, la preoccupazione principale non sarà di ricostruire i nessi causali fra eventi ma di dare ragione a un contendente e torto all’altro. La storia del conflitto arabo-israeliano si presta perfettamente a questa deriva narrativa, perché in effetti è facilissimo raccontarla come una serie di azioni e reazioni: proclamazione dello Stato di Israele, guerra degli Stati circostanti per distruggere il nuovo Stato, risposta vittoriosa di Israele e annessione di nuovi territori, nuova guerra contro Israele (guerra dei 6 giorni, 1967), nuova espansione di Israele che si annette la penisola del Sinai, nuova aggressione degli Stati arabi (guerra dello Yom Kippur, 1973), nuove annessioni e occupazioni di terra da parte di Israele, proliferazione dei gruppi terroristici, rappresaglie israeliane, prima e seconda Intifada, eccetera eccetera…. Il tutto intervallato da innumerevoli tentativi di arrivare alla pace, per lo più basati sullo scambio fra riconoscimento di Israele e ritiri parziali dell’esercito israeliano dai territori occupati.
C’è anche una seconda possibilità, però. Ed è che gli storici non si dividano fra filo-palestinesi e filo-israeliani, ma provino a guardare alla tragedia israelo-palestinese in un’ottica più ampia. Un’ottica che includa non solo gli Stati coinvolti nei conflitti, ma anche le organizzazioni sovra-nazionali – a partire dall’Onu – che hanno interferito con essi o provato a regolarli. Non si può escludere che, in tal caso, emerga una lettura dei fatti radicalmente diversa da quelle convenzionali. Una lettura al cui centro sta la domanda: non sarà che il peccato originale, la scintilla che ha fatto deragliare il treno della storia, sia proprio la pretesa delle Nazioni Unite – con il piano di suddivisione della Palestina del 1947 – di regolare i conflitti senza avere il monopolio della forza? Non sarà che la incessante proclamazione di diritti in assenza di qualsiasi capacità di farli rispettare sia una fonte perpetua di disordine, risentimento, violenza? Non sarà il “costruttivismo”, ossia l’idea che esista un ordine giusto e razionale calabile dall’altro, il male che ha devastato gli equilibri euro-asiatici nei decenni a cavallo dei due millenni? Che cosa sono gli interventi militari in Kossovo, in Libia, in Afghanistan, in Iraq se non tentativi maldestri di pilotare il corso della storia secondo principi che ci paiono giusti?
Forse dimentichiamo che una pace deve, prima ancora che giusta, essere stabile, ossia non foriera di nuovi e più sanguinosi conflitti. O forse, più semplicemente, dimentichiamo il monito di Guido Ceronetti che, pochi anni prima di morire, proprio a proposito dei conflitti mediorientali, ricordava un detto del libro di Lao Tzu: “Il mondo non è modellabile. Chi lo modella, lo distrugge”.