Qualche giorno fa la Lega ha presentato al Senato un disegno di legge (“Disposizioni in materia di trattamenti economici accessori collegati al costo della vita”, n.930) volto ad allineare maggiormente le retribuzioni al costo della vita. La proposta prevede che la parte accessoria della retribuzione (quella collegata per esempio agli straordinari, etc.) sia parametrata al costo della vita della località dove ha sede l’impresa.
Qualche numero aiuta a inquadrare la questione. In Italia le differenze territoriali nel livello dei prezzi sono ampie. I dati Istat più recenti indicano divari fino al 16 per cento (tra la provincia di Bolzano e la Campania); in media il costo della vita al centro-nord supera del 7 per cento quello nel Mezzogiorno (altre stime suggeriscono differenze più ampie tra le due macroaree del paese). Una variabilità significativa esiste anche, a parità di regione, tra città e aree rurali. Inoltre, è bene tenere presente che a queste differenze nel livello dei prezzi corrispondono differenze simili nella produttività delle diverse economie locali.
Alla luce di queste evidenze è possibile avanzare alcuni commenti sul merito della proposta. Primo, in linea di principio il provvedimento va nella direzione giusta. Dal punto di vista dell’efficienza economica, allineare (attraverso i prezzi) salari e produttività indurrebbe le imprese ad accrescere la domanda di lavoro nelle aree meno sviluppate con conseguente aumento dell’occupazione e correlato calo del sommerso. Sul piano dell’equità, commisurare i salari al costo della vita ridurrebbe la disuguaglianza tra i lavoratori: se è corretto proteggere il potere d’acquisto dall’inflazione che di anno in anno lo minaccia, allora è altrettanto legittimo difendere lo stesso potere d’acquisto da un trasferimento del lavoratore nello spazio (per esempio da Napoli a Bolzano). Secondo, la proposta va sì nella direzione giusta ma lo fa in dosi talmente omeopatiche tali da invalidare i potenziali benefici sopra descritti. La componente variabile territorialmente, infatti, si applicherebbe solo alle componenti accessorie della retribuzione che rappresentano una quota molto contenuta. Se, per esempio, la si ipotizza pari al 10 per cento, con la nuova modalità di calcolo un lavoro remunerato 1.500 euro mensili in Campania avrebbe a Bolzano un bonus aggiuntivo di 22 euro. Nulla che possa cambiare le sorti di alcunché (né l’efficienza, né l’equità, né la coesione sociale). Terzo, un elemento molto discutibile della proposta riguarda il finanziamento del differenziale di costo della vita, posto a carico della fiscalità generale attraverso un credito d’imposta: il modo migliore per distorcere le scelte di domanda di lavoro delle imprese, appesantire gli esausti conti pubblici e, soprattutto, veicolare per l’ennesima volta il messaggio tossico che qualsiasi conflitto distributivo vada sanato con minori entrate o maggiore spesa.
Infine, l’iniziativa della Lega racconta anche, più in generale, del malfunzionamento del dibattito sulle politiche economiche in Italia. Nei giorni immediatamente successivi alla proposta si è avuta la prevedibile levata di scudi dell’opposizione e dei sindacati contro le “gabbie salariali”, misura già in vigore in Italia nella seconda parte del secolo scorso ma anche locuzione utilizzata sempre in modo spregiativo come qualcosa di tardo novecentesco che mina l’equità e l’unità nazionale. Un vero e proprio riflesso pavloviano. Anche nella maggioranza le reazioni degli altri partiti sono state piuttosto tiepide e la proposta probabilmente cadrà nel nulla di fatto. E’ l’ennesimo meccanismo che si ripropone: le misure di politica economica viste non come qualcosa che riguarda il benessere della collettività e di cui discutere nel merito ma come puri vessilli ideologici e/o strumenti di micro posizionamento politico. Quando il paese riuscirà invece a laicizzare il dibattito ed entrare senza pregiudizi nel merito dei pro e dei contro delle diverse politiche avrà fatto un importante passo in avanti.