Perché scorporare l’assistenza dalla previdenza
Nel 2022 l’Italia ha speso 559 miliardi per le prestazioni sociali: pensioni, sanità e assistenza. Il 6,2% in più del 2021 e più della metà della spesa pubblica totale. Di questi però “solo” 248 miliardi riguardano le pensioni, coperte dai contributi versati da imprese e lavoratori. Se leviamo anche l’Irpef, si scende a 165 miliardi netti, l’8,64% del Pil.
L’assistenza invece pesa per 157 miliardi: 4 milioni di prestazioni pagate dallo Stato a 3,7 milioni di beneficiari totalmente assistiti e altre 6,7 milioni di prestazioni per 2,8 milioni di soggetti parzialmente assistiti, con una qualche dote di versamenti contributivi.
In totale, «i pensionati totalmente o parzialmente assistiti sono 6,6 milioni, il 41% del totale» dei pensionati italiani che sono 16,1 milioni a cui va quasi la metà (46%) delle prestazioni erogate da Inps.
«Una percentuale che non sembra rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese. A differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano del tutto sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a tassazione.
Parliamo di invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra, integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali.
Ecco perché separare le due spese: assistenza e previdenza. Per vederci chiaro, fare pulizia, spendere meglio.
E capire come mai in dieci anni (2012-2022) la spesa per assistenza è lievitata del +126%. Nel 2008 era a 73 miliardi. Ora siamo a più del doppio, con un tasso di crescita annuo di quasi l’8%, tre volte superiore a quello delle pensioni.
Nel frattempo la povertà non arretra, visto che i poveri assoluti erano 2,1 milioni nel 2008 e 5,6 milioni nel 2021. «Spendiamo molto e spendiamo male», dice Brambilla che rilancia l’idea di una banca dati dell’assistenza e di un’anagrafe centralizzata dei lavoratori attivi.