Una nuova chimera s’aggira per l’Italia: la politica industriale. Tutti la chiedono, molti la vogliono, pochi sanno di che si tratta, nessuno ne ha una chiara idea. Così come nella mitologia classica è fatta di parti diverse, ma a differenza dal mostro cantato da Omero, esse non riescono a stare insieme. L’ultima riprova è nell’intervista che Maurizio Landini ha rilasciato (ça va sans dire) alla Repubblica. Il governo vuole un milione di vetture l’anno prodotte in Italia. Risposta: “Detto così non significa nulla…Il tema non è risolto”. Il ministro Urso cerca un secondo produttore di auto. Il segretario della Cgil è d’accordo, ma lo ammette a denti stretti e rilancia: bisogna investire in ricerca e innovazione, ricostruire le filiere (come, quali, con o senza l’auto elettrica?).
Sulla Magneti Marelli “assistiamo solo a svendite”. Non si capisce, però, se pensa che lo stabilimento di Crevalcore vada o no riconvertito. Il governo aveva congelato i licenziamenti e s’era dato da fare. E la Fiom ha approvato l’accordo raggiunto l’11 gennaio per la vendita al miglior offerente. È un esempio di ricostruzione delle filiere oppure no? Silenzio. Due punti restano fermi ed immobili come due statue: “questo governo non ha una politica industriale” e “non lasciare fare al mercato”. Ma dopo aver letto l’intera pagina, ancora non abbiamo capito che cosa intende per politica industriale. Poco male. Ce lo spiega Elly Schlein. Davvero? Il Pd e la sua attuale leader sono stati messi sotto tiro da destra e da sinistra. Si occupa di tutto tranne che degli operai. Se si tocca il teatro di Roma o la biennale di Venezia (per non parlare della Rai), è pronto il comunicato sulle “spoglie della cultura”. Immediata la reazione (talvolta pavloviana) a qualsiasi cosa possa generare like sui social media. Invece restiamo tutti in spasmodica attesa della Schleinomics. Persino sul Mes non è mancata un’ambiguità di fondo: il Pd non poteva non votare a favore, tuttavia ha evitato di prender di petto l’euroscettico Giuseppe Conte che s’è allineato con la destra. Imbarazzo, mossa tattica o confusione economica e politica che diventa più pesante quando si parla di posti di lavoro, di fabbriche chiuse, di cassa integrazione e della fantomatica politica industriale.
Non è vero che Elly Schlein non si sia mostrata ai cancelli delle aziende. Questo lo sbandiera la propaganda della destra e sbaglia. Alla Marelli di Crevalcore si è presentata il 29 settembre scorso quando ancora la notizia era nelle pagine interne dei quotidiani. Ma per dire cosa? Che il Pd è al fianco dei lavoratori e il governo usi i 6 miliardi di incentivi per l’automotive. Quali, quelli andati a Stellantis? Ma la Magneti Marelli è stata venduta nel lontano 2019 dalla Fiat Chrysler al gruppo giapponese CK Holdings che fa capo al fondo americano KKR. E a cosa dovrebbero servire quei miliardi, a produrre le stesse componenti in alluminio o le forniture per i motori a scoppio? Non chiediamo troppo alla povera Schlein, l’industria non è il suo pane, ha una cultura radicale non laburista, ha innestato sensibilità nuove, in parte diverse, sullo zoccolo duro post-comunista e su quello cattolico popolare, le due componenti che hanno formato il Partito Democratico. D’accordo.
Lasciamo allora la parola al suo antagonista Stefano Bonaccini, laburista emiliano, che è cresciuto a partito e industria. Che cosa ha detto lui sul caso Marelli? “Trovo inaccettabile che da un giorno all’altro un’azienda che dà lavoro a quasi 300 persone disinvesta e se ne vada”. Da un giorno all’altro? Da quant’è che si parla di riconversione energetica, di motori elettrici, di ricaduta sulla componentistica a cominciare proprio dalla Marelli? Almeno ha evitato gli slogan landinisti: strategia, sistema, politica industriale. Non possiamo nemmeno ignorare che Crevalcore si trova nell’area metropolitana di Bologna e Bonaccini è il presidente dell’Emilia Romagna. Ma basta questa prudenza tattica? O c’è dell’altro? Secondo una interpretazione il crollo delle antiche famiglie politiche lascia la classe operaia nelle mani dei due populismi e il Pd ne resta schiacciato. Ma c’è anche una diversa lettura. In un’epoca di partiti leggeri e leader solitari, i gruppi di pressione, le corporazioni e i corpi intermedi occupano il centro della scena. Né Schlein né Bonaccini sono in grado di prendere le distanze dalla Cgil. Ci ha provato Matteo Renzi e l’ha pagata cara. In fondo, nemmeno Giorgia Meloni può dire no alla Coldiretti, senza dimenticare balneari e tassisti. Compensare consenso politico e interessi economici di parte non è certo una novità, quel che manca oggi è una visione questa sì davvero nazionale per non affondare nel puro gioco dello scambio.