da: Struttura e sovrastruttura del regionalismo differenziato
Rosario Patalano, Salvatore Villani – Economia e politica, 29 Marzo 2023
Con la formazione del nuovo governo, il dibattito sull’autonomia differenziata, in attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, ha ricevuto una drastica accelerazione, impressa dal ministro Roberto Calderoli. Siamo dunque all’atto finale di un lungo processo? O ancora una volta la riforma costituzionale resterà tale solo sulla carta?
In questi venti anni la riforma costituzionale n. 3 del 2001, voluta dal governo di Centro-Sinistra, è stata variamente e fortemente criticata e più volte la Corte Costituzionale è intervenuta per rivedere in senso restrittivo i poteri regionali. Si è sviluppata quindi una dialettica interna all’ordinamento costituzionale che ha contribuito ad aumentare la confusione paralizzando le scelte politiche. La riforma costituzionale non ha previsto, infatti, un ordinamento esplicitamente federale, ma ha indebolito i poteri dello Stato centrale, articolando l’assetto delle autonomie regionali su tre livelli: le regioni a statuto speciale, le regioni ordinarie e le regioni che chiedono l’applicazione della autonomia differenziata.
Alla testa del movimento a sostegno dell’autonomia differenziata si sono poste Lombardia e Veneto, sotto il controllo della Lega, a cui si sono aggiunte volta per volta, Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e in ultimo la Campania. I primi atti formali di richiesta di autonomia risalgono al 2007, quando i consigli regionali di Lombardia e Veneto adottarono indirizzi per avviare un confronto con il Governo nazionale e raggiungere un’intesa sulle materie oggetto di autonomia. L’anno dopo, il Piemonte avanzò la stessa richiesta, ma nessun passo avanti fu fatto, anche se nel 2009 fu varata le legge delega sul federalismo fiscale[1].
Questa fase iniziale si esaurì durante la crisi del 2011 e con la riforma centralistica proposta dal Governo Renzi, nel 2013, che limitava fortemente addirittura la potestà legislativa delle regioni ordinarie, considerata come principale causa di confusione normative, e rilanciava la “causa di supremazia dello Stato”, secondo la quale le materie di competenza delle regioni ordinarie, potevano essere avocate alla competenza statale, “qualora lo richiedesse la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Come è noto la riforma Renzi fu respinta dal Referendum Costituzionale del dicembre 2016, aprendo una nuova fase politica di ripresa del regionalismo culminata con i referendum consultivi, indetti dalla Lombardia e dal Veneto nell’ottobre 2017, con cui i cittadini approvarono la richiesta di trasferimento alle regioni di numerose competenze e l’assegnazione dei fondi per il finanziamento integrale delle funzioni trasferite dallo Stato[2].
Claudio Trabona/La riforma del Titolo V e la controriforma (bocciata) di Renzi
(2024, Corriere del Veneto) Le ampolle del Po portarono al nulla cosmico, ma siccome la pressione dalla parte economicamente più forte del Paese era una realtà oltre il folclore, e c’erano in gioco voti ed elezioni, successe che la prima svolta «federalista» sulla Costituzione finì per volerla, e votarla a maggioranza, il centrosinistra al governo. Era il 2001, si adottava la riforma del Titolo V: formula oscura ai più, ma che in sostanza significava il rafforzamento delle autonomie regionali (e di quelle locali) fissato sulla Carta. Quella riforma, mix di buone intenzioni e calcoli elettorali (il centrosinistra la votò in fretta anche nel tentativo di arginare la Lega nordista) fu tacciata a lungo di essere un pastrocchio senza capo né coda, fonte continua di conflitti di attribuzione davanti alla Consulta. Tant’è che Matteo Renzi, ben 15 anni dopo, tentò di regolarla in senso opposto: la sua riforma costituzionale prevedeva una sorta di clausola di supremazia a favore del governo centrale. Respinta anche quella, in ossequio alla solida tradizione che vuole i tentativi di riordino dello Stato bocciati senza pietà ai referendum nazionali.