Un gioco da ragazzi, doveva essere per Matteo Salvini. Per rimettere in partita il ponte sullo Stretto di Messina sarebbe stato sufficiente tirare fuori dalla liquidazione la società pubblica concessionaria, tenuta in caldo per dieci anni in una procedura liquidatoria che per una legge decisamente irrealistica ne doveva durare appena uno. Tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza. Un aumento di capitale a 672 milioni, con un altro piccolo salasso da 370 milioni a carico dello Stato. Semmai una ritoccatina al progetto, ormai vecchio di vent’anni; e pazienza se il costo si sarebbe avviato a sfondare il tetto del 15 miliardi.
A quel punto non sarebbe rimasto che aprire i cantieri. Fermo restando, sempre, che bisognava trovare i soldi. Ma quello non sarebbe stato un problema, neppure per una finanza pubblica male in arnese; prova ne sia il fatto che si sono trovati 4 miliardi nelle prime due finanziarie del governo di Giorgia Meloni senza nemmeno aver dato un colpo di piccone. Da quando Salvini è entrato al ministero delle Infrastrutture sono trascorsi ormai più di due anni. E quel gioco da ragazzi sta durando un po’ troppo. Sono stati due anni costellati soprattutto di annunci. I cantieri dovevano essere aperti la scorsa estate. Poi entro quest’anno che sta per finire. Adesso ci si accontenterà di far approvare dal Cipess il progetto definitivo. Perché nel frattempo di problemi ne sono sorti eccome. E ora vedremo quali.
La travagliata storia del Ponte
Inutile qui ricordare la travagliata storia del ponte sullo Stretto di Messina: l’abbiamo raccontata decine di volte, fino alla nausea. Ma era chiaro che l’avevano fatta troppo facile. Per una serie di ragioni, che non riguardano soltanto le questioni di carattere ambientale sulle quali è appuntata (anche giustamente) gran parte delle attenzioni. L’opera è stata aggiudicata il 12 ottobre 2005, con la vecchia Legge Obiettivo, a una cordata di imprese di cui general contractor era Impregilo. Diciannove anni fa. L’offerta che prevalse sull’altra cordata offerente capeggiata da Astaldi era di 3,88 miliardi di euro. Da allora si sono alternati alla guida del Paese dieci governi, compreso l’ultimo. Due volte il piano del ponte è stato sospeso e ripreso, in un delirio di cause e contenziosi. Il general contractor dell’autunno 2005 non esiste più. Anziché Impregilo adesso il capofila di Eurolink si chiama Webuild. È la più grande impresa di costruzioni risultante dalla fusione fra la stessa Impregilo e Salini, con una significativa partecipazione dello Stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti. Per di più ha anche assorbito Astaldi, sconfitta nella gara di quasi vent’anni fa. Della vecchia Impregilo, insomma, è rimasto assai poco.
In tutto questo tempo l’unico a non essere cambiato è l’amministratore delegato della società Stretto di Messina, il manager di lungo corso dell’Iri Pietro Ciucci. Correva l’anno 2002 la prima volta che aveva assunto l’incarico. E debuttò con una dichiarazione che traboccava di ottimismo: «Ritengo che a consuntivo, come già successo in Italia per la rete autostradale, l’onere a carico del bilancio pubblico possa essere allineato a zero». Oggi parla di 13,5 miliardi, ma come si è già visto anche questa stima è ottimistica. In vent’anni dunque oltre agli azionisti del generale contractor sono cambiate molte altre cose. Il progetto era stato già aggiornato nel 2010, ma da allora sono passati altri 14 anni: quasi una vita per le tecnologie che nel frattempo hanno fatto progressi notevoli. Un altro mondo anche per tutto il resto: le previsioni di traffico, il piano finanziario, il livello dei pedaggi. Tanto che si è dovuto aggiornare il progetto da ogni punto di vista. Compreso proprio quello dei costi e dei ricavi.
Il ponte sarà un’opera a pedaggio
E qui viene il primo nodo. Il ponte sarà un’opera a pedaggio. Gli automobilisti pagheranno per attraversarlo, così come pagano per passare sotto il Monte Bianco. Idem i treni, che per utilizzare la linea realizzata da Rete Ferroviaria Italiana sul nastro d’acciaio lungo 3,3 chilometri dovranno pagare. Dettagli non trascurabili, perché qui entra in gioco l’Autorità di Regolazione dei Trasporti. L’Italia è un Paese meraviglioso, dove tutto è possibile: anche aggirare le leggi. In questo caso non c’è una legge che imponga esplicitamente un parere dell’Autorità sui piani del ponte che dovranno, pare entro l’anno, essere approvati dal governo. Però l’impianto normativo che riguarda tutte le infrastrutture di trasporto a pedaggio è limpido: quel parere è in ogni caso vincolante. Non fosse altro per il fatto che l’authority è l’organismo deputato a regolamentare i piani tariffari. Cioè i pedaggi. Il problema è che quel parere nessuno l’ha chiesto.
Ora, sappiamo che intorno a questa vicenda ci sono nugoli di esperti in attività per fare in modo che la cosa proceda nel modo più spedito possibile. Il progetto si può certo avvalere di consigli assai autorevoli, come quelli, a quanto pare fondamentali, dell’ex commissario liquidatore della società concessionaria Vincenzo Fortunato, a lungo ex capo di gabinetto del ministro dell’Economia Giulio Tremonti e oggi parlamentare di Fratelli d’Italia. Ma difficilmente uno scoglio del genere sarebbe secondo logica aggirabile. Senza quel parere, a meno di una pesante forzatura, il progetto in teoria non potrebbe essere approvato. Tutto fa pensare che non si tratti di una semplice dimenticanza ma di una mossa studiata per evitare il rischio che possano sorgere altre difficoltà non previste. Nella speranza, si può presumere, che nessuno sollevi pubblicamente la questione.
L’incognita di un’altra gara d’appalto
Un altro grosso problema invece è stato già sollevato, anche se la cosa non è stato affatto presa in considerazione. Il presidente dell’Autorità Anticorruzione Giuseppe Busia ha segnalato che l’eventualità di dover rifare una gara a 19 anni di distanza non sarebbe poi così remota nel caso in cui il valore dell’opera dovesse risultare significativamente superiore all’importo dell’appalto originale. La questione compete alla Commissione Europea, ma i numeri sono sotto gli occhi di tutti. La gara originaria venne assegnata per un importo di 3,88 miliardi, poi saliti a 6,3 e successivamente a 8,5 con le opere accessorie. Ma nella nuova versione, stando ai calcoli contenuti nel Documento di Economia e Finanza del ministero di Giancarlo Giorgetti, siamo già a 14,6 miliardi. A questo proposito va rammentato che da quando si è insediato il governo Meloni l’attuale maggioranza assedia l’Anticorruzione. Per far capire l’aria che tira, dopo le sue critiche al nuovo Codice degli Appalti ha chiesto subito le dimissioni del presidente, che scade nel 2026.