FABRIZIO RONCONE (Corsera) Guardate che la notizia, ormai, è un’altra.
Tutti a parlare e a scrivere di questo ennesimo voto online dei 5 Stelle ancora in corso, quorum o non quorum, con il sospetto forte che qualcuno se ne freghi e vada davvero per funghi (in via di Campo Marzio, a Roma, hanno beccato Vito «orsacchiotto» Crimi, il responsabile della macchina organizzativa, molto preoccupato, più accigliato del solito) e perciò sono proprio ore piene di dubbi e di paure che crescono tra meschinità e veleni, vecchi rancori e nuova voglia di potere (c’è anche la famelica attesa di quelli che con Conte sperano di farsi il terzo giro sulla giostra della politica: da Fico alla Taverna, «So’ na’ pura io! Brutta banda de’ zozzoni…»): mentre il comico indesiderato, dopo l’ultima lugubre pagliacciata, sceso da quel carro funebre, e spedita una bizzarra lettera al Nazareno, non si capisce nemmeno bene cosa realmente mediti per il Movimento, se qualche altro lampo di logora e pericolosa utopia o direttamente un necrologio politico.
Ma la notizia, appunto, è un’altra.
Questa: comunque finisca, domani sera, e immaginando persino una sua nuova vittoria, è chiaro e sicuro già da oggi che, con un Grillo inferocito e vendicativo sul collo, un partito lacerato da rifondare e un simbolo da difendere in tribunale (solo il simbolo sembra valga un 3% alle urne), per Giuseppe Conte niente sarà più come prima. E deve farsene una ragione: è Elly Schlein l’unica possibile, credibile candidata premier del centrosinistra.
Elly contro Giorgia.
Da adesso a quando si voterà, la partita è tra loro due.
Punto. Fine. Soprattutto di quel preciso progetto covato dall’avvocato di Volturara Appula. Prigioniero di una vanità assoluta (la pochette bianca a cinque punte era un solido indizio), per mesi tutti gli stucchevoli e ostinati dibattiti sul futuro del cosiddetto Campo largo si concludevano — e regolarmente s’impantanavano — dentro la sua sulfurea ambizione. Diventata, con gli anni, una tremenda ossessione: tornare a Palazzo Chigi per la terza volta. Una più di Bettino Craxi, per dire.
Ragionare, trovare complicità, fidarsi di uno così: un’impresa. Probabilmente impossibile. Conte, a lungo, è stato un coccodrillo travestito da camaleonte. Prometteva lealtà, patti elettorali, e allora si fidavano, lo accarezzavano: ma lui aveva già cambiato idea ed era lì che stava per azzannare, e tradire. Elly lo sa bene. Elly sa tutto. Pure che Conte ha già smesso di essere un problema. Forse, addirittura, non è nemmeno più un alleato, come ha annunciato, baldanzoso, lui stesso (su La Stampa): vuole tenersi le mani libere (ritorno alla tattica grillina delle origini). E, per cercare d’essere convincente, ci prova con un giochino di parole: «Siamo progressisti — dice — però non di sinistra». Ma è una supercazzola patetica. Ormai più Conte Mascetti che Mago di Oz (come pare lo chiamassero, per sfotterlo, Grillo e Mario Draghi). E poi, comunque, è arrivato tardi: perché Prodi l’aveva già chiarito con forza, scuotendo la testa in un miscuglio, parve di capire, di disgusto e amarezza: «Definire di sinistra il Movimento… Beh, mi sembra difficile» — era lunedì pomeriggio e, al secondo piano della libreria Spazio Sette di Roma, in vicolo dei Barbieri, nuovo cenacolo dem, il professore e Massimo Giannini presentavano Il dovere della speranza (Rizzoli), un bel libro pieno di ragionamenti, e di passione.
Quella che all’avvocato di Volturara Appula manca: perché l’ambizione non prevede passione. L’ambizione è ambizione. Nutrita, nel suo caso, con doti innegabili: strepitoso cinismo, efferata spregiudicatezza, freddezza da pokerista, istintiva astuzia (cioè capire il momento, coglierlo).
Quando, nel 2013, i 5 Stelle reclutano giuristi, Alfonso Bonafede — già leggendario dj alla discoteca Extasy di Mazara del Vallo, poi due volte pure Guardasigilli — dice: «Io ne conosco uno. È stato il mio prof di Diritto privato…», Conte subito si presenta. Mite, con il ciuffo, con il maglioncino d’ordinanza dei meetup. Ma sa parlare. E ha un certo rango. Quello che nessun grillino possiede. Così, un pomeriggio — era la fine di maggio del 2018 — lo chiudono nella stanza di un albergo, sede del casting: tu, aspetta qui. Stavano decidendo se potesse essere lui, il premier. Poche ore dopo, nella sede romana del Corriere, ci chiedevamo: Conte o Conti? Nessuno l’aveva mai sentito nominare. Uno di noi pignolo — nelle redazioni c’è sempre uno un po’ pignolo e maestrino — urlò: «Ci stanno fregando! Su Google l’unico Conte che compare è Antonio, l’allenatore della Juve!». Stupore. Poi curiosità. Secondo lo schema pianificato da Di Maio e Salvini, che avevano architettato il governo gialloverde, l’incarico di premier doveva infatti essere ridotto a qualcosa di simile ad una carica onorifica. Solo che lui è Conte. Si definisce «avvocato del popolo», confessa la sua fede nazionalpopolare per Padre Pio, ha la voce di velluto. Quella dei finti buoni: si rivela un camaleonte feroce. Specie mai vista, in Parlamento.
C’è un racconto forte come un’allucinazione. Molla i leghisti (con cui ha firmato i famigerati decreti Sicurezza) e fa un governo con il Pd. Poi s’accuccia a Draghi. Intanto diventa amico di Trump («Oh, Giuseppi!»). E abbraccia Putin. Così, quando il criminale russo scatena la guerra, è tra quelli che non vogliono inviare armi in Ucraina: il pacifismo di Conte è declinato contro il sostegno di Unione Europea e Nato a Kiev, un atteggiamento che però, di fatto, lo avvicina alle posizioni di Salvini e Marine Le Pen. Infine, l’ultima mossa: decide di prendersi il Movimento.
Solo che ora siamo al bivio. E le due strade che si aprono sono una più complicata dell’altra. Se la votazione online, domani sera, andasse male, secondo la maggior parte degli osservatori, Conte ha una sola strada percorribile: quella che porta alle dimissioni. Ma anche se vince, il percorso resta complicato: dovrà difendere il simbolo da Grillo, che in tribunale ne rivendicherà la paternità, e insieme dare una nuova anima al partito. Con addosso un gigantesco interrogativo sul suo elettorato: quanti grillini saranno disposti a diventare contiani?
Fatti tuoi, pensa Elly.
A Palazzo Chigi, prima o poi, ci vado io.
MARIO LAVIA Il camaleonte del popolo/L’unica cosa coerente di Conte è il suo trasformismo politico
Il capo neo, ex, post grillino ripropone l’idea di far correre il Movimento 5 stelle da solo, fuori dal campo largo, con l’obiettivo di ricattare il Pd per spostarne la linea su Ucraina e Nato. Si autodefinisce progressista non di sinistra, qualunque cosa voglia dire, ma la sua cinica demagogia è la solita paccottiglia rossobruna
Aveva collocato due settimane fa il Movimento 5 stelle nel campo progressista, o come si chiama. Ieri ha detto che se si votasse adesso andrebbe da solo. La notizia è questa, non che egli si definisca non di sinistra. Questo è chiaro da tempo. E mente quando si definisce «progressista» perché in natura se sei progressista sei di sinistra.
Giuseppe Conte gioca con l’onestà intellettuale che non è mai stata il suo forte. Perché lo fa? Lo fa perché il camaleontismo è la sua natura, cambia pelle come le lucertole, oggi qui domani là, né Donald Trump né Kamala Harris, giallorosso o gialloverde pari sono. Evidentemente ha il problema di portare un po’ di gente pura a (ri)votare per questa strana consultazione bis, e si è rimesso sotto l’ala di Marco Travaglio: stare da soli, poi si vede.
È la sublimazione di una specie di contrattualismo politico, vediamo chi offre di più, una patina elegante del più vieto trasformismo italico da Agostino Depretis appunto a Giuseppe Conte. Il messaggio è però tra le righe dell’intervista rilasciata ad Alessandro De Angelis sulla Stampa. Ed è tutto in quel «se si votasse oggi».
Cioè Conte sta dicendo al Partito democratico (perché tutto quello che dice e fa va letto con la lente del Nazareno): mi alleo con voi se cambiate linea sulla politica estera. Se smettete di approvare il riarmo dell’Ucraina. Se la piantate di sostenere Ursula von der Leyen. È una posizione propagandistica che ha una sua indubbia forza attrattiva perché il “popolo” non è favorevole, detta così, a spendere per gli armamenti piuttosto che per gli ospedali. Ma è demagogia di destra, è la linea di Viktor Orbán (in chiave pro-Russia) ed è anche la posizione della sinistra pacifista (in chiave anti-occidentale), cioè il bacino di voti cui l’avvocato spera di attingere a piene mani per compensare le perdite che già sta subendo da diversi anni, più quelle che una Cosa di Beppe Grillo potrebbe toglierli.
Grillo non ha un grande futuro, ma è come una zanzara che qualche stilla di sangue, alla lucertola, la può togliere. Sperando in cuore suo che Elly Schlein bon gré mal gré tenga ferma una linea responsabile che in quanto tale non può eludere il problema del riarmo dinanzi all’imperialismo russo, Conte punta a lucrare voti su una posizione anti-Nato abbastanza simile a quella di Alleanza Verdi e Sinistra che comprensibilmente teme una concorrenza di sinistra (pardon: progressista).
Il ricatto contiano al Pd è dunque tanto semplice quanto cinico. Ed è di destra nella misura in cui soffia nella direzione contraria a quella della Commissione europea, vascello debole ma unico nel mare infestato da populisti, fascisti e trasformisti. Alla fine, ha tutta l’aria di un bluff. E se poi proprio non ne può fare a meno, vada da solo, Giuseppe Conte. Forse sarà la volta che la politica si libererà di lui.