Era già uno stimato economista neo-keynesiano ma non ancora un premio Nobel (quello arriverà nel 2008), Paul Krugman, quando, nel gennaio del 2000, iniziò la sua collaborazione come commentatore al New York Times. Un quarto di secolo dopo, a 71 anni, ha deciso che è tempo di salutare i lettori (anche se promette di continuare a esprimere le sue opinioni altrove). E lo fa con una riflessione su come gli appaia cambiata l’America (ma anche l’Europa) rispetto a 25 anni fa.
L’addio di Krugman al New York Times è anche un addio all’ottimismo? No, perché la conclusione del suo ultimo commento lascia aperta (o almeno socchiusa) la porta alla speranza: «Credo che il risentimento possa portare le persone sbagliate al potere, ma a lungo termine non ve le possa mantenere. A un certo punto l’opinione pubblica si renderà conto che la maggior parte dei politici che inveiscono contro le élite sono in realtà élite in tutti i sensi e comincerà a ritenerli responsabili per il mancato mantenimento delle loro promesse. E a quel punto potrebbe essere disposta ad ascoltare chi non cerca di non usa il principio di autorità, non fa false promesse, ma cerca di dire la verità nel miglior modo possibile. Forse non riusciremo mai a recuperare la fiducia nei nostri leader – la convinzione che chi è al potere in genere dica la verità e sappia cosa sta facendo – che avevamo un tempo. E non dovremmo nemmeno. Ma se ci opponiamo alla kakistocrazia – il governo dei peggiori – che sta emergendo in questo momento, forse riusciremo a ritrovare la strada per un mondo migliore».