Ci sono personaggi che ormai mi sono cosi’ insopportabili da non riuscire a guardarli mai. O a sentirli, come Fiorella Mannoia, una cantante che a causa del suo timbro di voce ha interpretato 1000 canzoni come se fosse una sola. Un fatto per me incomprensibile, in quanto tanti grandi, come Frank Sinatra, hanno un timbro inconfondibile eppure hanno creato un repertorio molto vario. La monotonia e’ sempre insopportabile.
Se uno sente Claudio Baglioni “l’incognita della stucchevolezza intellettuale e’ sempre incombente, lui, l’eterno e molto chic interprete della poetica del quotidiano”, come ha scritto in maniera esemplare il critico Aldo Grasso. Ci sono attori e cantanti e registi dai quali non ti aspetti mai nessuna sorpresa e novita’. Sono il gia’ visto.
Prendiamo l’attore Elio Germano (1980). Esordisce a dodici anni in Ci hai rotto papa’ ma comincia a rompere tanto nel 2024 quando Mario Martone lo rende Leopardi ne Il giovane favoloso. Da allora non riesce a smettere in ogni film di interpretare sempre e soltanto un solo personaggio, quello di un disturbato/esaurito. I gemelli D’Innocenzo non se lo lasciano scappare e nel 2020 con Favolacce e l’anno dopo con America latina lo consacrano l’esauritone principe del cinema italiano. Tutti i film successivi sino ad oggi dimostrano il mio assunto. Da Il signore delle formiche, regia di Gianni Amelio (2022) a Palazzina Laf, di Michele Riondino (2023), da Confidenza, di Daniele Luchetti (2024) a Iddu – L’ultimo padrino, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (2024) sino a Berlinguer – La grande ambizione, di Andrea Segre (2024).
Non c’e’ che l’imbarazzo della scelta in un cinema italiano capace di consacrare un regista come Pupi Avati (1938), figlio di un antiquario bolognese di origine calabrese, in un Autore. Eppure per sbarcare il lunario ha fatto film a basso costo riciclando attori comici in personaggi drammatici, Tognazzi, Villaggio, Christian De Sica, Abatantuono e Cavina.
L’altro giorno ho visto un podcast, Tintoria, (registrato in un piccolo teatro con il pubblico) molto seguito con due comici, Tinti e Rapone. E’ cosi’ seguito che c’era andato prima Paolo Sorrentino a presentare Parthenope ed erano stati 90 minuti cosi’ intelligenti e simpatici da consigliarli a tutti per capire davvero il regista. Bene, allora c’e’ andato anche a presentare Diamanti il regista Ferzan Ozpteck, un altro al quale ho dichiarato ostracismo. I due comici sono stati annichiliti, ben presto hanno rinunciato a dire una sola parola e lasciato tutto lo spazio ad un incontenibile montato che accumulava aneddoti e si divertiva solo lui. Era cosi’ entusiasta che non se ne voleva piu’ andare e ringraziava i due comici perche’ a suo dire lo avevano messo a suo agio. Volete sapere perche’ vi parlo di Tintoria? Perche’ Ozpetek in questa sua performance (paragonato poi a Sorrentino) ha svelato tutta la sua inconsistenza. Uno che non riesce a capire durante una lunga intervista che vorrebbe far ridere e non ride nessuno (ne’ i conduttori ne’ il pubblico), che parla solo lui e la intervista dunque non esiste, cosa e’ se non un inguaribile narcisista per il quale gli altri non esistono? Non vedo piu’ nessun suo film perche’ so gia’ che saranno monotoni quanto questo suo intervento a Tintoria. Sulla stampa si puo’ avere un’ idea di cosa sia il suo ultimo film (Diamanti) leggendo periodi come questo: “Facendo suo il punto di vista femminile, l’autore abbraccia questi personaggi, costantemente sminuiti dal mondo esterno, che, grazie alla collaborazione, riescono a sentirsi più forti (una di loro dirà alle altre: “Non siamo niente, ma siamo tutto“, un’altra: “Siamo come delle formiche: da sole siamo piccole, ma insieme siamo una forza“). Ma si puo’ fare nel 2024 un film di Autore dalla parte delle donne scrivendo frasi come queste?
Valentina Ariete ha scritto: Tra i migliori film dell’autore degli ultimi anni, e piacerà moltissimo al suo pubblico. Ma purtroppo non tutto funziona.
Lo stile di Ferzan Özpetek è di quelli che non lasciano spazio alle mezze misure: o si ama, o si odia. L’immaginario del regista si distingue per i colori forti, la musica malinconica, il cibo, gli attori. Nonostante la bravura e la fotogenia delle sue attrici, Özpetek indugia però forse troppo su primi e primissimi piani, sottolineando ogni emozione, ogni lacrima: il melò è sicuramente il suo genere, ma spesso la musica è troppo invadente e la recitazione volutamente eccessiva. Mano mano che si arriva alla conclusione, poi, si accumulano finali su finali: sembra quasi che, indeciso su quale scegliere, il regista e sceneggiatore abbia voluto tenerli tutti. D’altra parte ci ha messo la faccia, con tanto di occhiolino direttamente in camera: prendere o lasciare. Come se ce l’avesse con me, oltre al solito Stefano Accorsi, ormai utilizzato sempre più da Özpetek come un alter ego, ha aggiunto finanche Mara Venier, quella alla quale la Rai ha appaltato tutte le domeniche pomeriggio per la tv in ciabatte che sa fare. Accorsi, per chi non lo ricordi, e’ quell’attore secondo il quale recitare significa sussurrare. Ma Ozptek è questo. Il sig. Carlo Santoni (su facebook) scrisse di un altro suo film, Mine vaganti: Ogni tanto capita di assistere alla proiezione di un film di cui non si sentiva affatto il bisogno: questo è capitato a me vedendo questo film men che mediocre, dal titolo fin troppo furbesco. Me la sbrigo con poche osservazioni, a cominciare dagli aspetti meno urtanti, a quelli proprio insopportabili. Primo: la recitazione. Mediocre, quasi svogliata…Secondo: la location. Va bene che la Regione Puglia ha concorso a foraggiare questo lungometraggio (che dunque più che da storiella improbabile ma con immancabile happy end, deve funzionare da spot pubblicitario per il Tacco), ma trovo offensivo per lo spettatore l’inutile sfoggio di continue cartoline supersature di scorci paesaggistici, con tanto di fiori alle finestre che incorniciano questo o quel personaggio, stradicciuole leziosette corse in vespa senza casco, facciate di tufo biondo, strapiombi su un mare invitante, olivi ultracentenari e via di questo passo, insomma ammennicoli che non hanno a che fare con la storia raccontata, ma sono messi lì per distrarre dal più e il meglio che manca, cioè un film degno di questo nome. …Quarto: la sceneggiatura. È qualcosa di penosamente improbabile, i profili personali e le storie sono raccogliticci, un minestrone dove la somma degl’ingredienti non riesce affatto ad aumentarne il sapore, ma solo a creare confusione e stanchezza. Con una Littizzetto stridula e nevrotica che non stanca né irrita così tanto come in genere fa, semplicemente perché di stanchezza e irritazione ce ne sarebbe già abbastanza anche senza la sua presenza.