Il libro di Doris Lo Moro “Forte come il dolore” (GrafichE’editore, 2024) è una confessione su 40 anni di vita trascorsi da quell’8 gennaio 1985 in cui vennero barbaramente uccisi suo fratello Giovanni, di 19 anni, e suo padre, il direttore didattico Giuseppe mentre salivano in auto verso Filadelfia. Attraverso la forma di una intervista data alla giornalista del Quotidiano del Sud Luciana De Luca, Doris racconta la sua storia personale, da quel giorno con un dolore che l’ha cambiata per sempre.
Erano in viaggio di nozze, Doris ed Enzo, e il giorno del matrimonio, il 22 dicembre 1984, nel Palazzo del Podesta’ di Gubbio tra gli amici c’ero anch’io a festeggiarli. Tutti noi ricorderemo sempre quelle giornate nella citta’ dei matti, definita così per richiamare la proverbiale imprevedibilita’ e ironia degli eugubini. Lo ricordo perche’ non mi e’ piu’ mai capitato di partecipare ad un altro matrimonio cosi’ bello, romantico (con la serenata di Enzo), suggestivo. Cosi’ come ricordo ancora oggi dove e come appresi la terribile notizia. Non ho mai parlato con lei di quel che avvenne da quel momento ma devo confessare che dieci anni fa decisi di cimentarmi in un romanzo che doveva avere una trama poliziesca (il titolo fu Azzurro, come la canzone) ma che era un modo indiretto per parlare di Lamezia e dei calabresi. Al centro della storia che ho voluto raccontare c’e’ un ispettore scolastico che viene ucciso e tutto viene archiviato come un incidente automobilistico sin quando poi non si scopre che è stato ucciso in seguito ad un banale alterco avvenuto su una strada tortuosa in salita. Nel mio libro ho messo insieme vari fatti veri avvenuti nelle nostre zone, naturalmente inventandomi i personaggi, ma soltanto per arrivare a questa conclusione amara: da noi, in una terra bellissima, si può morire senza sapere il perche’, senza un motivo. Saranno poi eventuali pentiti dopo decenni magari a svelare qualcosa di cui la giustizia non è venuta a capo (e anche Doris spera che un giorno possa avvenire questo). Questa “Vera storia calabrese ricostruita dai pentiti” dopo tanto tempo dai fatti, a me è un destino che fa orrore da sempre e Lo Moro adesso con la sua testimonianza così lucida, appassionata, feroce, riesce a mettere in relazione il dolore senza tregua dei suoi familiari con la macchina imperfetta della giustizia. Se ad una persona normale calabrese (che non svolge un lavoro rischioso) viene tolta la vita, spiega in maniera semplice, sono i familiari a doversi giustificare perchè l’opinione pubblica sospetterà di sicuro una macchia nera nel loro passato che spiegherebbe il movente dell’omicidio. Ecco, il paradosso del movente. Più un movente sarà banale, inconsistente, maggiore sarà la possibilità di farla franca per l’assassino. C’e’ una recente miniserie tv dei fratelli D’Innocenzo, “Dostoevskij”, in cui un serial killer uccide scegliendo a caso le vittime per cui e’ facile capire come questo sia il caso piu’ impossibile per gli investigatori, omicidi che non hanno un movente. In Calabria ma ora un pò dappertutto si può togliere la vita per qualsiasi presunto sgarbo o scortesia. Per un semplice equivoco o fraintendimento, basta portare un’arma con sè. Lo stesso capo dei capi Riina era cosi ignorante che si narra come abbia tolto la vita a più di uno perchè aveva travisato o non capito bene una frase che avevano pronunciato. “Davanti ad un motivo ritenuto sproporzionato o banale si usano spesso argomenti risibili perchè si possono non avere gli elementi per valutare cosa passa nella testa di un assassino” dice Lo Moro.
Mentre gli inquirenti passavano al setaccio la vita personale della famiglia Lo Moro, alla ricerca della macchia e del movente, nessuno cercava la Fiat 127 celeste che aveva lasciato tracce di vernice sulla Innocenti del Professore e di Giovannino. A Filadelfia tutti, secondo me, a pochi minuti dall’accaduto sapevano già tutto. Qualcuno aveva visto ma ci sono molte zone della Calabria dove, per una cultura da Far West che si definisce omerta’ ma e’ anche fatalismo e religione atea, si ragiona così: i morti non possono resuscitare, quel che è stato è stato, ora salviamo l’onore del paesello e facciamoci i fatti nostri tanto lo sappiamo chi comanda con le armi. A me dopo 40 anni dai fatti non si è mai cancellato il dettaglio che mi informarono chiedendomi se avessi saputo dell’incidente. E incidente fu subito per il paesello, per cui le vittime innocenti di delinquenti in armi sono danni collaterali come quando in guerra i civili soccombono inermi sotto le bombe. Tra magistrati ignavi e poliziotti double face, avvocati che sono organici e quindi non fanno parte della zona grigia, come si ama ripetere senza il senso del ridicolo, nel libro di Lo Moro c’è la storia tragica di un paese dove il coraggio uno non se lo può dare e dove non si vuol capire che non è vero che tutti possono far tutto. Per me il reclutamento in magistratura è ridicolo sulla base di un concorso con tre compiti scritti. Ci sono pozzi di scienza o studiosi che non hanno la personalità, l’attitudine per poter fare il giudice ma neppure il docente che deve scendere ogni giorno nell’arena di una classe. Sapere la materia o codici e procedure non è la stessa cosa che saper tenere una classe o affrontare indagini, interrogatori, processi e delinquenti. Per qualcuno accosto ruoli diversi ma voglio dire che in Italia siamo pieni di miti per cui si è sempre fatto così e sta bene così. Da noi altro che la sostanza, non si cambiano neppure le procedure, per esempio il modo di reclutare magistrati o insegnanti. La nostra cultura è basata sulle carte, e non si valuta quello che uno fa.
“Ho capito sulla mia pelle quanto male possono fare i magistrati che per dormire tranquilli non si assumono le loro responsabilità”. “Le parti civili andrebbero rispettate di più nel senso che andrebbe considerato con maggiore attenzione il dolore che provoca non trovare i colpevoli e le conseguenti assoluzioni”. L’errore giudiziario è sempre possibile ma tutto si tiene. I magistrati sono come gli elettori e i politici, non sono una razza a parte. La giustizia processuale italiana è, come la politica, una lotteria: il giudice che ti capita devi aver fortuna che sia in grado di amministrare giustizia, allo stesso modo il popolo confida nella buona sorte che il suo rappresentante eletto si dimostri all’altezza. E’ la selezione della classe dirigente che, forse, non funziona più.
Sullo sfondo resta la questione esistenziale di questa creatura di Dio che opera nel mondo. ”La violenza spesso è brutalità assoluta” afferma Lo Moro e ancora:
” Siamo stati chiamati, ciascuno nel proprio mondo, a costruire l’alternativa alla bestialità di cui siamo stati vittime e contro cui rendiamo, continuamente, la nostra testimonianza”.
L’adorato padre grande educatore amava ripetere “ io credo nell’eccellenza della persona umana”, testimonia il fratello Paolo Lo Moro nell’appendice. Pensare quest’uomo di soli 62 anni al quale non è stato risparmiato, prima di toglierlo di mezzo, l’orrore di veder morire sotto i suoi occhi con un colpo in viso l’ultimo figlio di 19 anni, ci fa riflettere sulla bestialità dell’homo sapiens. La nostra specie non discende dalle scimmie, ne fa proprio parte. E non per via di una certa somiglianza fisica: nelle nostre cellule ci sono tracce che non lasciano dubbi. Non siamo distanti dalla definizione che Giambattista Vico dava dell’uomo primitivo, “un bestione tutto stupore e ferocia”.