Sugli incendi in California, in particolare nell’area di Los Angeles, c’è un aspetto da chiarire immediatamente: trenta o cinquant’anni fa, in uno scenario climatico non così estremo, le conseguenze delle fiamme sarebbero state molto meno distruttive. Un singolo incendio può essere causato dall’uomo o da un fulmine, ma la sua propagazione dipende anche, e soprattutto, dalle condizioni del territorio.
La California del Sud è nelle morse di una siccità strutturale. Il cocktail tra vegetazione secca, vento forte e temperature più calde rispetto alla norma ha permesso alle fiamme di espandersi a una velocità forse mai vista in quella zona, uccidendo almeno dieci persone, incenerendo più di mille edifici e costringendo più di centomila residenti a evacuare.
Le fiamme scoppiate a Los Angeles, spiega a Linkiesta il meteorologo e climatologo Giulio Betti, «sono del tutto anomale per il periodo. È vero che in California questi eventi avvengono anche in pieno inverno, ma solitamente non sono di questa portata. Si tratta di un incendio formalmente ingestibile». Il Sud dello Stato, continua l’esperto, «ha raccolto quattro millimetri di pioggia da maggio a oggi. Non piove in maniera consistente da otto mesi. Le fiamme hanno quindi trovato condizioni pregresse favorevoli per espandersi». Stando al National oceanic and atmospheric administration (Noaa), a Los Angeles non ci sono state precipitazioni da giugno a ottobre 2024.
Come anticipato, il vento ha avuto un ruolo decisivo in quello che è già uno degli incendi peggiori nella storia di Los Angeles: «Sono arrivati i cosiddetti venti di Santa Ana, che sono forti, impetuosi e soffiano dal deserto verso il mare. Il fuoco ha incontrato questi venti e le condizioni pregresse favorevoli alla sua diffusione», dice Betti, che lavora per il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e il Consorzio LaMMA.
Passando oltre, va specificato che il cambiamento climatico di origine antropica non provoca direttamente gli incendi. Ma secondo uno studio internazionale, che ha coinvolto anche l’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Igg), «le condizioni climatiche nel periodo immediatamente precedente l’incendio sono cruciali perché determinano lo stato del combustibile vegetale».
Il rapporto tra il climate change e le temperature elevate è incontrovertibile. Lo stesso vale per la siccità in generale, resa sempre più probabile e grave dal riscaldamento globale innescato dalle emissioni da combustibili fossili. Il 2024 passerà alla storia come il primo anno con una temperatura media globale oltre la soglia dei +1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali: è il limite che ci separa dalle conseguenze più severe di questa emergenza così pervasiva, capace di moltiplicare minacce già esistenti. Una recente analisi, guidata dal professor Calum Cunningham dell’University of Tasmania, ha mostrato che il numero di «incendi estremi» è aumentato di dieci volte in vent’anni nelle foreste di conifere temperate, tipiche dell’area mediterranea e della costa occidentale degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda il vento, invece, non esistono studi autorevoli in grado di tracciare un trend climatico di lungo periodo: «La stessa Ipcc è incerta. Non sappiamo esattamente se i venti siano aumentati o diminuiti, anche a livello di intensità, rispetto al passato. Non possiamo dirlo dal punto di vista scientifico perché sono eventi caotici, difficili da attribuire a una tendenza», sottolinea Giulio Betti.
La sostanza non cambia, perché «cinquant’anni fa un episodio analogo di Santa Ana avrebbe provocato meno danni». La colpa, dice il climatologo, è soprattutto della crescente intensità «delle figure bariche (gli anticicloni e le depressioni) che vanno a contribuire a queste configurazioni (al vento, ndr). Oggi abbiamo anticicloni più caldi, la differenza di temperatura tra la costa della California e i deserti dell’interno era molto ampia: più è largo questo gradiente, più è forte il vento».
Il Sud della California lotta da decenni con incendi, ondate di calore e siccità. È un territorio vulnerabile e sempre meno resiliente agli effetti del clima che cambia: «Da un lato la prevenzione è aumentata e lo Stato ha agito abbastanza bene, ma la situazione in quell’area non è destinata a migliorare. C’è da chiedersi: sarà ancora un posto adeguato per certi tipi di persone e stili di vita? In quella zona manca anche l’acqua. Si fa fatica a sostenere un uso così spinto delle risorse idriche per annaffiare, ad esempio, i giardini delle grandi ville. La siccità e gli incendi c’erano anche prima, ma ora è molto peggio. Se devi risparmiare una goccia d’acqua, non annaffiare il prato ma usala per spegnere gli incendi».
Betti si riferisce alla ricchezza del territorio colpito dalle fiamme, che hanno danneggiato o inghiottito diverse abitazioni dell’area tra Santa Monica e Malibù, popolarissima tra le star di Hollywood. «Ho il cuore spezzato. Sedersi con la mia famiglia, guardare il telegiornale e vedere la nostra casa rasa al suolo in diretta televisiva è qualcosa che nessuno dovrebbe mai vivere», ha scritto Paris Hilton su Instagram. Da Anthony Hopkins a Ben Affleck, passando per Adam Brody e Jennifer Grey: sono tanti i personaggi pubblici costretti ad abbandonare le proprie ville.
È come se in questo caso i migranti climatici fossero i ricchi. Allargando lo sguardo, sono sempre di più gli statunitensi che stanno cambiando casa per evitare cicloni, alluvioni, tempeste e incendi. Le fiamme a Hollywood potrebbero quindi contribuire a cambiare la narrazione dominante, perché chi migra a causa di un disastro naturale non è necessariamente una persona in difficoltà economiche: «Il cambiamento climatico non conosce conti correnti ed è drammaticamente democratico», spiega Betti.
Gli effetti del riscaldamento globale sono più severi nei Paesi poveri (e meno responsabili di questa crisi) e nelle fasce meno abbienti della popolazione, ma non risparmiano nessuno. Non siamo tutti sulla stessa barca: domani Paris Hilton firmerà un assegno per acquistare una nuova villa in una zona più protetta. Ma, conclude il climatologo, «siamo tutti in un mare in tempesta, chi con la zattera, chi con lo yacht, ma è un mare in tempesta. L’amministrazione Trump avrà altro a cui pensare rispetto alla Groenlandia».