Su Netflix vale la pena rivedere Anatomia di un omicidio (Anatomy of a Murder), un film del 1959 diretto da Otto Preminger, tratto dall’omonimo romanzo best seller di Robert Traver.
Il film narra un processo per un omicidio le cui circostanze sono approfondite fin nei dettagli più scabrosi. Il linguaggio audacemente esplicito, specie per l’epoca e quell’America puritana, procurò non poche critiche anche da parte degli organi preposti alla censura, che vi ravvisarono “immoralità” e “oscenità”. Quel che oggi riteniamo normale, intendo alcuni particolari scabrosi, nel 1959 furono davvero uno scandalo ma stiamo parlando di un film coraggioso, un modello di “cinema processuale” (legal thriller) che non e’ stato mai superato nella scrittura, nell’intreccio, nella musica, nella recitazione, nei dialoghi. Non ci sono flashback o il montaggio avanti indietro nel tempo al quale siamo costretti oggi, i personaggi sono tanti, disegnati accuratamente nelle loro psicologie, le sorprese ci sono ma non sono cervellotiche come quelle dei film attuali, dove solo l’arrivo di un deus ex machina crea l’effetto sorpresa. I colpi di scena non sono improvvisi ma calcolati come in una partitura musicale, i fatti vengono rivelati progressivamente con una chiarezza di scrittura (la sceneggiatura è di Wendell Mayes) che è cristallina. Ma al tempo stesso dissemina dettagli. Con la capacità di Preminger di intrappolare la morbosità degli sguardi come quello del tenente dalle sbarre del carcere nei confronti della moglie quando la vede incontrarsi con l’avvocato.
Probabilmente già nelle linee spezzate della grafica dei titoli di testa di Saul Bass ci sono tutte le molteplici strade narrative di Anatomia di un omicidio. E’ il film che rappresenta forse la sintesi del cinema dell’austriaco americano Otto Preminger (1905-1986) soprattutto per la funzione della parola. Eppure la storia, già all’inizio, sembra conclusa. Paul Biegler (James Stewart, 1908-1997), un avvocato di provincia che dopo la delusione per la perdita del posto di pubblico accusatore segue solo piccole cause dedicando gran parte del tempo alla pesca, accetta di difendere il tenente Frederick Manion (Ben Gazzara), un reduce della guerra di Corea, che una notte ha ucciso l’uomo che gli aveva violentato la moglie Laura (Lee Remick). La prova degli attori è certamente uno dei suoi punti di forza. A cominciare da James Stewart che prima cerca quasi di farsi notare il meno possibile e poi esplode con tutta la sua indignazione durante il processo. Poi c’e’ la protagonista, Lee Remick, che nella storia ha un ruolo che oggi riconosciamo come cruciale perche’ rappresenta la questione femminile in un mondo che non sapeva cosa fosse (la domanda e’: se una donna e’ provocante, chi lo stabiliscono, gli uomini?). Un’attrice magnetica che e’ scomparsa a soli 59 anni. Nel film appare e sempre giocare con l’avvocato, come lo volesse forse sedurre subito. Ha gli occhi coperti dagli occhiali da sole, che però proteggono il suo volto dai segni della violenza subita. Forse la sua immagine è esplicita di un film che mostra prima i fatti e poi ‘l’altra faccia’. E che ha un ritmo incalzante, senza cedimenti. E si può vedere nella scena in cui Laura viene interrogata dall’avvocato dell’accusa (George C. Scott) a distanza ravvicinatissima.