Lorenzo Infantino, il calabrese maestro di un liberalismo poco italiano, ma molto einaudiano

Sabato è morto improvvisamente a Roma il Professor Lorenzo Infantino. Aveva compiuto da pochi giorni settantasette anni. Laureatosi in Economia a Siena, si era specializzato in sociologia alla Luiss di Roma, dove ha poi svolto l’intera carriera accademica, lavorando con Dario Antiseri – con cui ha scritto e curato diverse pubblicazioni – alla costituzione del Centro di Metodologia delle Scienze Sociali.

È stato per parecchi decenni uno degli interpreti più acuti e prestigiosi di un liberalismo affrancato dall’ipoteca storicista crociana, che ha dominato in Italia sul piano politico e culturale per buona parte del XX secolo e ricongiunto alle sue antiche radici anglosassoni (David Hume e Adam Smith) e ai successivi sviluppi della scuola austriaca (Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek).

Il lavoro di Infantino è stato costantemente volto a smascherare l’inganno di filosofie della storia fondate su ipostasi ideologiche collettivistiche – fossero i popoli, le nazioni o le classi – che travisavano la natura stessa dell’azione umana e della realtà sociale, che è il prodotto di un’infinita combinazione di relazioni individuali, non prevedibili negli esiti e non riducibili allo schema dialettico del pensiero idealistico.

Su questa base Infantino difendeva il mercato come forma privilegiata di cooperazione: non come struttura dello sfruttamento capitalistico, secondo l’interpretazione marxista, ma neppure come variabile subordinata e non costitutiva dell’ideale etico-politico liberale, com’era nel pensiero crociano, che non solo distingueva, ma contrapponeva liberalismo e liberismo (di qui la famosa polemica tra Croce e Einaudi).

Se nelle pagine di Infantino il mercato è il luogo della libertà e non del dominio è perché la libertà stessa, nella sua dimensione morale e sociale, è un onere e un privilegio che origina da una mancanza, cioè dalla limitatezza delle possibilità e delle conoscenze individuali, che esigono lo scambio di informazioni e di beni come condizione necessaria al perseguimento dei fini di ciascuno e alla soddisfazione dei bisogni di tutti.

Vista la «dispersione delle conoscenze», così definita da Hayek, ogni tentativo di centralizzare e pianificare il corso della vita economica e politica di una società è illusorio e disfunzionale, proprio perché è fondato su una sorta di allucinazione epistemica, cioè sulla fiducia in una ragione profetica, emancipata dai limiti della ragione umana, perché fregiata con le insegne del potere legale.

Da Infantino è venuta anche la contestazione dell’ormai completa inutilità delle categorie di destra e sinistra, entrambe elaborate nell’alveo di un pensiero politico dogmatico e ridotte a etichette per qualificare politiche spesso convergenti nel discredito delle libertà e dei diritti individuali, in nome di valori asseritamente superiori.

Su questo Infantino scrisse nel 1999 un volume con Antiseri, che, guardando alle derive ideologiche anti-liberali della destra e della sinistra in tutto il mondo, si può dire avesse anticipato gli esiti a cui sarebbe giunta una politica sempre meno vaccinata ai rischi dell’interventismo statale e sempre più tentata dalla democrazia illimitata. Non a caso, Infantino è morto mentre stava lavorando a un libro sul totalitarismo, il cui fantasma torna a incombere, in forme nuove, sui destini dell’Occidente democratico.

A differenza di altri studiosi e affezionati lettori dei classici della scuola austriaca, Infantino non era affatto antieuropeista ed era dichiaratamente ostile alle ideologie sovraniste, rimanendo anche in questo fedele alla lezione einaudiana.

Pur comprendendo la diffidenza contro una moneta unica imposta in un’area valutaria non ottimale, Infantino fu anche un grande difensore dell’euro, che «è una moneta più che buona, migliore della vecchia e di ogni possibile lira futura», individuando nel nazionalismo monetario e nell’illusione ricorrente delle svalutazioni competitive una china che avrebbe riportato l’Italia al lassismo finanziario, sogno inconfessato dei censori bipartisan della tanta esecrata austerità.

Di assoluta chiarezza e, nuovamente, di notevole originalità rispetto a buona parte dell’intellighenzia liberista italiana è stata anche la sua difesa dell’Europa politica. In una lezione tenuta cinque anni fa presso la Fondazione Luigi Einaudi, alla Scuola di Liberalismo cui collaborava assiduamente, disse che se «l’Europa che abbiamo davanti a noi non è quella auspicata da Einaudi», però «l’idea che sta dietro il progetto europeista vale molto di più di tutti i possibili limiti e di tutte le possibili alterazioni del programma originariamente formulato dai grandi liberali. Essa è stata l’ago magnetico per generazioni di uomini e di donne».

Chi lo ha frequentato negli ultimi tempi sa quanto Infantino, nel suo amore intransigente per la libertà liberale, avesse in uggia i sedicenti liberali arresi o venduti alle ideologie antiliberali vincenti e quanto poco confidasse in un atteggiamento attendista e frondista di fronte alle minacce portate alle fondamenta politiche, economiche e civili dell’Occidente liberal-democratico.