Non so, visto che Gianni Agnelli, l’Avvocato, e’ scomparso ben 22 anni fa, se mai faranno un film su di lui. E’ una cosa che continuo a non capire (o magari capisco benissimo). Se c’e’ un personaggio che interpreta il boom economico e l’Italia migliore e’ lui, eppure vedrete che magari uno sciocco prima o poi prendera’ spunto dalla guerra della madre Margherita con John Elkann e fratelli per fare uno sceneggiato tv, o un film scandalistico.
Fare un film su un grande non e’ mai facile. Prendiamo per esempio Ferrari, un film del 2023 diretto da Michael Mann, che e’ un autore di tutto rispetto. La pellicola, adattamento cinematografico della biografia del 1991 Enzo Ferrari: The Man and the Machine, scritta da Brock Yates, narra la storia di Enzo Ferrari, interpretato da Adam Driver. Basta raccontare un po’ la trama per capire quanti fili si intrecciano con la storia dell’Avvocato, il quale, tra l’altro, fu determinante per l’affermazione delle auto e del marchio Ferrari per il semplice fatto che diede all’ingegnere i soldi di cui aveva bisogno. Il film di Mann comincia nell’estate del 1957 quando l’ex pilota automobilistico Enzo Ferrari è in crisi. L’attività che ha costruito in dieci anni, partendo da zero, corre il rischio della bancarotta. Il tempestoso matrimonio tra Enzo e Laura è in lotta, tra la perdita prematura del figlio ventiquattrenne Dino (morto l’anno precedente) e la scoperta che Enzo aveva avuto un secondo figlio (Piero), nato nel 1945 a seguito di una relazione extraconiugale. Enzo decide allora di contrastare le sue amarezze, scommettendo tutto su un’unica corsa lunga 1.600 km che attraversa l’Italia, da Brescia a Roma e ritorno: l’iconica Mille Miglia. Ecco, Agnelli ha finanziato Ferrari ovvero fu il suo salvatore, ma tante altre cose unirono questi due uomini d’industria, la prima delle quali fu la terribile perdita di un figlio.
Un modo diverso di affrontare la biografia di un grande personaggio e’ possibile rinvenirlo nel recente A Complete unknown di James Mangold su Bob Dylan. Come ha spiegato bene Giampiero Frasca su Cineforum, “i biopic in grado di sganciarsi da una struttura sclerotica e inflessibile sono davvero rari, al punto che, al di là del soggetto trattato, ciò che si racconta sembra sempre la stessa storia. Per chiunque, in ogni ambito. La fluidità di una vita si perde spesso nell’infinito circuito meccanicistico (o addirittura messianico) di ascesa, inopinata pausa e definitiva resurrezione (oppure caduta rovinosa, nelle storie che lisciano il pelo al dramma), il tutto espresso con una scrittura episodica, aneddotica, che punta alla silloge esistenziale, nutrita di highlights. Perfettamente consapevole di questo rischio, James Mangold lo aggira, concentrandosi sull’evoluzione del frammento e decidendo di collegarsi implicitamente alla versione poliedrica e cangiante del Dylan di Todd Haynes (Io non sono qui) andando alle radici, a quando Dylan era ancora uno sconosciuto in formazione”.
E’ verissimo, per qualsiasi grande personaggio (da Churchill a Mussolini, da Einstein a Roosvelt a Marconi) il biopic ricorre ad una struttura episodica, come se si dovesse raccontare una partita di calcio. Se li avete presenti, i cd highlights danno conto delle azioni piu’ significative di un incontro di calcio, ma tutti sappiamo che una partita puo’ essere stata noiosissima anche se e’ finita 3 a 3. La cultura del frammento che, come ha spiegato il critico Aldo Grasso, ha sostituito il cd riassunto in campo giornalistico, non solo e’ il modo di fare cronaca sportiva ma anche il modo piu’ utilizzato per sintetizzare la vita di un grande personaggio. Ecco allora come quella che Frasca ha definito ‘la fluidità di una vita” al cinema si racchiude in modo meccanico in alcune fasi – ascesa, inopinata pausa e definitiva resurrezione – oppure caduta rovinosa e dramma finale.
Insomma, un film su Giovanni Agnelli, detto Gianni e da tutti conosciuto come “L’Avvocato” (Torino, 12 marzo 1921 – Torino, 24 gennaio 2003), puo’ benissimo essere scritto considerando queste fasi, oppure accumulando episodi e aneddoti. Allora e’ preferibile che non lo facciano mai. Per esempio, potrebbero far vedere (immaginate come lo girerebbe un Sorrentino) come usava il suo tempo libero: un elicottero lo prelevava a casa e lo portava in cima al Sestriere o alle Dolomiti, da dove, calzati gli sci, egli scendeva per qualche discesa. Ma la sua giornata sportiva non finiva cosi’, perche’ una volta finito di sciare risaliva sull’elicottero e si faceva portare all’Argentario per fare un tuffo in mare. I viaggi di Agnelli non sono dettagli, erano il suo vero modo di vivere cercando di guadagnare tempo e di accumulare sensazioni intense nel piu’ breve tempo possibile. Egli ha lottato tutta la vita contro la noia, quella con la quale tutti gli uomini comuni abbiamo a che fare soccombendo. Lui evitava accuratamente tutti i tempi superflui e io lo capisco perfettamente perche’ a me, per fare un esempio personale, lo sci e’ sempre piaciuto tantissimo, ma dover andare in auto da Lamezia sino a Lorica e poi tornare a casa, dover salire sulla cima e fare qualche discesa mi e’ sempre sembrato il sacrificio piu’ grande che un appassionato debba fare per seguire la sua passione. Il problema nella vita sono i cd “tempi morti”. Per esempio, vuoi fare una cena con gli amici, ma il tempo che ci metti per arrivare al ristorante e ritornare a casa e’ superiore al tempo che resti a tavola. Ecco, l’Avvocato aveva sempre fretta, e si annoiava subito, appena si presentavano i tempi morti con i quali tutti noi abbiamo a che fare. Non penso che lui abbia mai passata una notte intera insieme alla donna con la quale aveva avuto un rapporto intimo. Era troppo indaffarato, aveva troppe cose da fare, per cui la sua vita evitava quello che l’umanita’ e’ costretta a fare: le file, le attese, i riposi, le pause, gli intervalli. Credo che essere stato suo amico (ne aveva tanti, per esempio il giornalista Jas Gavronsky) sia stato molto impegnativo, come lo e’ per ciascuno di noi quando ci capita un amico che non sta mai fermo, che ha sempre tanto altro da fare, che ti inserisce nella scaletta dei suoi impegni ma ha una agenda troppo ingolfata di cose da fare.
Come si puo’ rendere in un film lo charme dell’Avvocato, i suoi vizi (per esempio non portava mai soldi ne’ sigarette con se’ e quindi li chiedeva a chi gli stava vicino), le sue manie (alle sei di mattina telefonava all’allenatore della Juve per avere notizie), i suoi tempi accelerati, le sue intuizioni, la sua cultura internazionale in una italietta che lui vedeva affascinata dal tran tran sonnacchioso meridionale (la sua polemica con De Mita), il suo fascino irresistibile (una carrellata di belle donne, da Anita Ekberg in giu’), le sue interviste memorabili quando sintetizzava il momento storico e le tendenze economiche in poche battute o quando con pochi tratti esprimeva giudizi calcistici rimasti storici (Del Piero chiamato Pinturicchio, Bonieck definito “bello di notte“, Platini comprato ” per un tozzo di pane“. La sua saggezza, che donava in perle rimaste famose: “gli infortuni dei calciatori sono sempre un mistero, sembra una cosa da nulla e poi restano fuori per lunghi mesi o viceversa”; “La vita finisce quando non sei più in grado di sciare”. Epperò tutta questa sua saggezza non gli ha consentito di poter rimediare ai problemi del figlio Edoardo, anche se ha saputo tenere unita la sua estesa famiglia come un vero monarca.
Credo che la figura di Gianni Agnelli, il quale piu’ passa il tempo e piu’ appare un gigante, senza eredi (John Elkann essendo un finanziere che vedremo sino a quando rispettera’ gli amori grandi del nonno) e senza emuli o imitatori (essendo unico), sia molto difficile da raccontare attraverso un film. Impossibile in un’Italia secondo me davvero affollata di intellettuali del Mezzogiorno (uno per tutti, il turco Ozpteck), con il pensiero tipico della Magna Grecia, ma forse solo alla portata di qualche drammaturgo inglese o americano. Penso al grande Peter Morgan che con una serie tv di varie stagioni e’ stato capace di raccontare la regina Elisabetta in un modo che restera’ indelebile. Poi quelli alla Sorrentino a cui piacciono i dialoghi pieni di aforismi, frasi da baci Perugina e elucubrazioni letterarie (le cose che non piacciono a Morgan, appunto) hanno in Agnelli un pozzo: «Mi piacciono le cose belle e ben fatte. Ritengo addirittura che estetica ed etica si equivalgano. Le cose belle sono etiche, mentre le cose non etiche non sono belle: dall’evasione fiscale ai sotterfugi»
«L’Italia digerisce tutto, la sua forza sta nella mollezza degli apparati, nella pieghevolezza degli uomini politici, nelle capacità di adattamento degli italiani. È un materasso, il sistema italiano. Pasolini avrebbe detto una ricotta. O, se preferisce, flectar non frangar. E noi, torinesi, ci siamo sempre sentiti un po’ stranieri in patria proprio per questo: siamo una gente montanara. Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto» (a Eugenio Scalfari, «La cura Agnelli per l’Italia», su la Repubblica del 25 novembre 1982). «Io non ho nessuna passione per la politica e per i politici. Riconosco che è un’attività necessaria e anzi che, almeno in teoria, è la più nobile di tutte, quella che gestisce gli interessi della polis, della comunità. Ma non mi piace l’inevitabile parzialità dei partiti e l’altrettanto inevitabile egoismo di chi li guida. Infine: la Fiat ha un peso nell’economia e nella società italiana che non si può combinare con uno schieramento politico» (a Eugenio Scalfari su la Repubblica del 2 marzo 1996).
No, non credo che riusciro’ a vedere mai un film del genere, ma in ogni caso segnalo la frase che motiva il rapporto sentimentale tra me e l’Avvocato, che ancora oggi tra tanti disperanti e aspiranti uomini italiani noti o famosi mi appare come rappresentativo della parte migliore del nostro paese. La frase e’ questa: «Per me, la Juventus sentimentalmente vale moltissimo… Tra gli anni Cinquanta e Sessanta quando i flussi migratori al Nord erano cospicui, tanti meridionali hanno proprio scelto Torino per poter vedere in azione la Juventus. Per molti ammirarla dal vivo è sempre stato un sogno» (sull’Espresso del febbraio 1997).