Non so se Vladimir Putin sia disposto a mettere fine alla guerra in Ucraina, so invece cosa accadrebbe in Italia il giorno dopo: imprenditori, politici e commentatori chiederebbero di riprendere le importazioni di gas russo. Non tutti, qualcuno sì però. Dapprima i loro sarebbero richiami indiretti, poi sempre più pressanti e indignati. Può diventare un tema da talk show; di certo l’ho già sentito ripetere in giro per l’Italia, quando incontro imprenditori dei distretti più diversi. Uno potrebbe chiedersi se non ci è bastata la lezione del 2022, quando Putin ci tagliò le forniture e fece esplodere i prezzi per piegare la volontà dell’Europa. Ma non è solo questo. Più guardo alle realtà economiche e demografiche italiane – non solo a quelle dell’ambiente – più mi convinco che il nostro Paese non ha chance di resistere in questo secolo di ferro se non sviluppa un’autonomia energetica molto ampia; pressoché totale, ad eccezione di quote calanti di importazioni di petrolio.
Per questo la disfida aperta da anni fra fautori delle fonti rinnovabili e fautori del nucleare civile è inutile, fuori dal tempo. Dovrebbero imparare entrambi ad accettarsi, ci sarà per forza bisogno di entrambi. E per questo, negli anni di Donald Trump, si profilano per l’Italia scelte decisive proprio sul nucleare: saremo pressati da Washington (non solo da Mosca), forse lo siamo già; ma mai come oggi è importante che il Paese scelga una propria via verso l’autonomia energetica solo nell’interesse dei cittadini di oggi e di domani. Vediamo.
Da chi dipendere?
Già la geopolitica consiglierebbe di non dipendere da fornitori esteri di gas, nessuno dei quali è particolarmente affidabile. L’Algeria ha uno dei regimi più legati alla Russia nel mondo arabo e non ha nascosto il sostegno a Hamas dopo i massacri del 7 ottobre 2023. Della Libia e della Russia non è neanche il caso di dire. Il Qatar è uno dei grandi finanziatori di Hamas e i suoi flussi di gas rischiano di fermarsi con il blocco dello Stretto di Hormuz, in caso di guerra sull’Iran: uno scenario tutt’altro che irrealistico, ora che Teheran sta accelerando con il suo programma nucleare. E dipendere dal gas liquefatto americano significa offrire una leva in più a una Casa Bianca che ha già dimostrato di non farsi scrupoli nel minacciare gli alleati: dal Canada, alla Danimarca, a Panama.
Le premesse e gli abbagli del Green Deal europeo
Ma, appunto, non è solo geopolitica. Anche le premesse sulle quali fu lanciato il Green Deal europeo qualche anno fa, osserva la newsletter Eurointelligence, erano fallaci: non solo il consumo di energia in Europa e in Italia non calerà – inclusa l’elettricità prodotta da gas, carbone, vento, sole, acqua o dal nucleare – ma quel consumo è destinato ad aumentare; serve già in misura crescente per alimentare i cloud di tutti i sistemi digitali e i data center dell’intelligenza artificiale. Un Paese che non vuole precipitare troppo indietro, staccato e arretrato rispetto alla frontiera tecnologica, della produttività e del reddito, deve disporre di fonti elettriche proprie: abbondanti, pulite e di cui abbia il controllo. L’alternativa è solo l’accelerazione di un rancoroso declino, non la decrescita felice.
Popolazione dimezzata
C’è poi un terzo motivo che impone all’Italia una transizione rapida verso l’autonomia energetica. È un tema che i lettori di questa newsletter conosceranno: dato il calo secolare degli adulti in età feconda, data la bassa propensione ad avere figli e l’emigrazione dei giovani, l’Italia sta perdendo popolazione. E ne perderà. Circa duecentomila in meno ogni anno, attualmente. Sulla base delle tendenze al 2023, alla fine del secolo McKinsey proietta un Paese di 35 milioni di abitanti, il 41% in meno rispetto ad oggi. Forse non andrà esattamente così, ma è difficile che queste traiettorie demografiche di lungo periodo si spostino di molto.
E sapete cosa significa per l’economia una popolazione quasi dimezzata? Significa il rischio di recessione semi-permanente nei prossimi anni e decenni, nella quale diventa impossibile sostenere un debito pubblico che sale in automatico di quasi il 4% all’anno solo per effetto degli interessi. Secondo la Banca mondiale i consumi interni in Italia rappresentano il 76% del prodotto lordo (nel 2023), già in calo di cinque punti dai massimi del 2010, anche perché il Paese in dieci anni ha già perso due milioni di abitanti. Vedere ridursi di quasi metà la popolazione comporta il rischio di ridurre in proporzione i consumi e il prodotto lordo, mentre il volume del debito resta uguale o cresce. Dunque raddoppia in proporzione ai muscoli del Paese, schiacciandoci.
Bolletta estera
C’è un solo modo di uscire dalla trappola data dal collasso della domanda interna: aumentare la domanda estera; più precisamente, aumentare il saldo attivo della domanda estera, cioè il margine a favore dell’Italia fra quanto essa compra dall’estero e quanto vi vende. È infatti quel saldo attivo a fornire punti di crescita – non i volumi lordi di export – ma esso oggi è limitato all’1,3% del prodotto interno dal fatto dal peso dell’acquisto di gas, elettricità da nucleare, petrolio e derivati dall’estero. Solo nel 2023 l’Italia ha versato al resto del mondo una bolletta energetica da 93,7 miliardi di dollari (secondo i dati delle Nazioni Unite). Una fattura che, da sola, ci costa più di quattro punti di Pil. Fossimo in grado di dimezzarla o anche solo ridurla di un terzo, l’Italia ritroverebbe forti saldi attivi con l’estero e, con quelli, una crescita più dinamica che renderebbe il Paese sostenibile. Accelerare verso la produzione interna di molta più energia è, semplicemente, vitale.
A quanto pare i Paesi ricchi o dell’Asia emergente, quasi tutti in calo demografico, sono destinati a farsi guerre – spero solo commerciali – per spartirsi mercati esteri che diventano per loro sempre più disperatamente necessari; le tensioni innescate da Trump e il mercantilismo aggressivo della Cina di Xi Jinping potrebbero essere solo il preludio di questo secolo di ferro. Le stesse necessità di produzione di mezzi di difesa in acciaio e l’energia per farli diventano un imperativo, nei decenni che si prospettano.
In sostanza non è scontato che l’Italia nel 21esimo secolo resti una democrazia, un sistema liberale e tollerante, uno stato di diritto, un Paese libero da ricatti, senza autonomia energetica.
I limiti di sole e vento
Deve decidere come arrivarci, ora. La via maestra sono naturalmente le fonti rinnovabili, ma esse hanno un problema noto: l’idroelettrico non copre neanche un quinto del fabbisogno, il sole e il vento non ci sono sempre. Si stima che un impianto fotovoltaico funzioni per il 18% del tempo, non di più. Naturalmente si possono usare batterie di accumulo o laghi artificiali allo stesso scopo: si issa in alto l’acqua grazie all’energia solare e si fa entrare in funzione un sistema idroelettrico al momento desiderato. Un grande imprenditore italiano mi ha detto che il suo fornitore cinese di batterie gli ha subito fatto uno sconto, non appena ha percepito che quello stava per costruire dei bacini.
Ma non basta. Spostare elettricità rinnovabile da un’ora all’altra costa 30 euro a megawattora, più di metà del costo di produzione. Spostarla da una stagione all’altra è impossibile. L’idrogeno per farlo è difficile da stoccare, la sua densità energetica è troppa bassa e danneggia le infrastrutture che lo contengono. Le rinnovabili alla fine potranno coprire forse l’80% dei consumi tra un quarto di secolo (purché il governo si liberi di tutti i vincoli che ha posto sulle aree idonee, finendo per frenare e far rincarare di molto i terreni, tutta la filiera e il costo dell’energia). Ma per il resto serve un nucleare civile italiano, se si vuole smettere di bruciare carbone e non si vuole dipendere dall’estero. Altri scenari realistici, almeno a me, non sono noti.
Nucleare, tre opzioni
La strada per arrivarci è tuttavia disseminata di scelte diverse e trappole, perché esistono almeno tre modelli diversi per l’Italia. L’Eni (controllata dal governo) lavora in joint-venture con uno spin-off del Massachusetts Institute of Technology, la Commonwealth Fusion Systems di Cambridge, Massachusetts. L’azienda persegue la fusione nucleare – un sistema esponenzialmente più avanzato e sicuro del nucleare tradizionale del tipo, diciamo, Fukushima – e sostiene in modo molto coerente di poter arrivare ai primi trasferimenti tecnologici all’inizio degli anni ’30. Dunque, tra poco. Non so dire chi abbia ragione, ma vari osservatori esterni sostengono di non credere a Eni, perché considerano la fusione plausibile solo nella seconda metà del secolo.
C’è poi una nuova impresa – o newco – in formazione fra Enel (51%), Ansaldo Energia (39%) e Leonardo (10%), anch’esse controllate dal governo. Per un paio di anni studieranno varie opzioni. L’obiettivo è arrivare nella prima metà degli anni ’30 a co-produrre con partner esteri degli Small Modular Reactors e dispiegarne in Italia una ventina – reattori molto più piccoli di una centrale tradizionale – per assicurare il 20% di fabbisogno elettrico lasciato scoperto dalle rinnovabili.
Uno Small Modular Reactor può avere le dimensioni di un piccolo edificio o di un container, funziona il 90% del tempo e presenta alcuni vantaggi rispetto alle grandi centrali di terza generazione. Il primo è che non si costruisce ad hoc sul sito, ma sulla base di moduli standardizzati in fabbrica, riducendo di molto i tempi e i costi, quanto se ne producono almeno molte decine. Nel caso della newco italiana si tratterebbe di reattori di “terza generazione avanzata”: la reazione nucleare trasferisce calore all’acqua pressurizzata nel sistema, che genera vapore in una turbina, producendo elettricità. Il modello viene considerato molto sicuro. Esiste un progetto dell’americana NuScale in cui il reattore è immerso in una piscina sotterranea, a ulteriore garanzia. Secondo il rapporto presentato da Mario Draghi a Bruxelles, la Russia e la Cina hanno già connesso alle loro reti i primi piccoli reattori modulari (nel 2019 e nel 2021) e un’ottantina di progetti si trovano a vari stadi di sviluppo in Nord America, Giappone, Corea del Sud, Francia, Gran Bretagna e altrove. Alcuni falliranno, altri no. Un contratto della NuScale in Idaho è stato interrotto perché le misure di sicurezza avrebbero fatto lievitare il costo elettrico a 129 dollari a megawattora (meno dei 180 del nucleare tradizionale e per l’Italia un costo tutto sommato accettabile, se le medie di prezzo nel Paese vengono poi abbassate dalle rinnovabili). General Electric e Hitachi sono impegnate a una prima consegna in Canada nel 2029.
Per la newco guidata dall’Enel, il difficile sarà scegliere l’alleato estero. Il gruppo ha competenze tecniche molto serie e di alto livello. Ma la limitata domanda italiana non basta a creare economie di serie tali da produrre piccoli reattori modulari a costi accettabili. Serve un mercato molto più vasto, immaginando un “modello Airbus” nel quale varie imprese o vari Paesi cooperano in un consorzio industriale e creano un vasto mercato di sbocco. Qui l’Italia dovrà decidere essenzialmente fra due opzioni: allearsi a una joint-venture americana fra Westinghouse e General Electric, oppure con la Neward controllata da Electricité de France (del governo di Parigi). In sostanza dobbiamo scegliere se legarci per decenni a un progetto europeo, così vitale, oppure a uno americano; sarà una decisione geopolitica del governo. Cosa farà, non lo so. So che Trump sta già imponendo al governo di Londra di lavorare sugli Small Modular Reactors con Westinghouse, se la Gran Bretagna vuole evitare guai peggiori. Un lato positivo è invece che tutta una filiera industriale italiana di qualità ne sarebbe coinvolta – da Ansaldo Energia, alla Walter Tosto di Chieti, alla Siet – in modo che anche i costi elevati dei reattori produrrebbero lavoro e fatturato nel Paese; non una bolletta da versare al resto del mondo.
La sfida privata
C’è poi l’opzione privata, che una parte del mondo delle imprese partecipate dal governo non vede con favore. La Newcleo del fisico Stefano Buono – 90% del capitale da italiani facoltosi, sedi a Torino e a Parigi – sta sviluppando piccoli reattori modulari di “quarta generazione”. I reattori usano piombo fuso invece di acqua, la decelerazione dei neutroni è inferiore, ciò cambia la velocità delle particelle e permette di usare le scorie nucleari stesse quali combustibile: in pratica il modello di Newcleo funziona da termovalorizzatore delle scorie della “terza generazione”, risolvendo il problema legato ad esse; per la sicurezza, il piombo avvolge e blocca il reattore in un sarcofago non appena si verifica il minimo incidente.
In Italia si considera il modello di Newcleo interessante, ma alcuni ritengono che non sarà pronto prima degli anni ’40 del secolo. Stefano Buono la vede diversamente. Mi ha detto due giorni fa: «Stiamo per cominciare in Francia il processo di autorizzazione ambientale e inchiesta pubblica. Alla fine del 2031 inizieremo a far funzionare un reattore di quarta generazione a Chinon, sede della prima centrale transalpina». Si tratta di un piccolo modello da 30 megawatt di potenza. Nel 2033 è attesa poi una prima consegna in Slovacchia, a Bohunice. «Il governo italiano non ha bisogno di credermi, quando parlo di progetti così ravvicinati nel tempo – mi ha detto Buono – ma di rendere possibile che io operi, accettando un approccio di neutralità tecnologica nella legge delega sul nucleare che sta per varare. Ho fiducia che lo farà».
Partita doppia
In sostanza si stanno aprendo due questioni, se si accetta che il nucleare civile sia parte del futuro per l’Italia (e non tutti lo accettano). La prima riguarda la scelta geopolitica fra l’Europa e gli Stati Uniti di Trump, in vista del consorzio per gli Small Modular Reactors. La seconda riguarda l’eventuale sfida competitiva di NewCléo, dunque la capacità dell’establishment romano di aprirsi alla sfida di una proposta privata e già di per sé italo-francese in partenza.
Nulla, per ora, è deciso. Non è il tempo dei processi alle intenzioni, è il tempo di capire. Ma conosco poche partite più rilevanti di questa, per l’Italia dei prossimi decenni.