Buongiorno, una notizia per cominciare: i Paesi dell’Unione europea hanno distrutto almeno 131,7 milioni di dosi di vaccini per il Covid, ma il dato reale dev’essere senz’altro più elevato. Verosimilmente vicino ai 500 milioni. Come faccio a saperlo? Ho verificato con la Commissione europea e i 22 governi (su 27) che rappresentano quasi il 99% della popolazione dell’Unione. Ho chiesto loro quante dosi avevano comprato, quante ne avevano utilizzate, quante ne avevano donate a Paesi terzi e quante ne avevano distrutte poiché scadute nei magazzini a due anni dalla loro produzione.
Mi hanno risposto cinque Paesi su 22: Italia, Polonia, Finlandia, Bulgaria e Austria (grazie per la trasparenza). Tutti e cinque hanno distrutto molte più dosi di quante ne abbiano donate. L’Italia ha ufficialmente destinato allo «smaltimento» 46,8 milioni di dosi – al costo medio di 16,7 euro l’una – ma il dato reale potrebbe essere più alto: non si sa molto di un quantitativo di 13 milioni di dosi inviate ai magazzini delle regioni. L’Austria, con una popolazione di poco più di nove milioni di abitanti, ha distrutto 25 milioni di dosi. Nel complesso questi cinque Paesi rappresentano il 26% della popolazione europea e hanno lasciato scadere, appunto, 131,6 milioni di dosi (in gran parte di vaccini Pfizer e Moderna). Se questa fosse la media dell’Unione europea nel complesso – inclusi i 17 Paesi che non hanno risposto alla mia richiesta scritta – allora sarebbero state distrutte poco più di 500 milioni di dosi, acquistate a un costo presumibile di circa 8,5 miliardi di euro. La stessa Commissione europea, all’epoca della pandemia protagonista degli ordini per gli acquisti congiunti, ha risposto in modo vago rimandando alle capitali nazionali.
L’inutile ostilità ai vaccini
Ora però una preghiera a coloro che hanno cavalcato per anni l’onda dell’ostilità ai vaccini: per favore, astenetevi dal brandire questi dati come una presunta conferma delle vostre tesi. Non lo è. Il numero di dosi di vaccino per il Covid acquistate nell’Unione europea arriva a poco meno di due miliardi, almeno un miliardo e mezzo fra queste sono state inoculate e hanno salvato milioni di vite (oltre che milioni di posti di lavoro e migliaia di miliardi di euro di prodotto interno lordo, favorendo il ritorno della ripresa economica). Non è poi affatto certo che le dosi distrutte avrebbero potuto andare in gran parte ai Paesi emergenti o in via di sviluppo che non ne avevano, perché almeno alcuni di quei Paesi mancavano dei sistemi di conservazione e trasporto nelle celle frigoriferi. La campagna vaccinale in Europa è stata comunque un successo. Eppure contiene una lezione per l’Europa che oggi si trova in un’altra emergenza, stavolta sulla difesa. Vediamo.
Parallelismi tra il Covid e ReArm Eu
Naturalmente la storia della pandemia non ha niente a che fare con ReArm Europe, l’iniziativa sulla quale la Commissione di Ursula von der Leyen presenterà un «libro bianco» a giorni. Ma le due hanno dei punti in comune: la necessità di dotarsi di una protezione collettiva in Europa perché la minaccia è comune, il carattere straordinario e costoso dell’operazione, l’esigenza di coordinarsi e progredire in fretta anche sul piano tecnologico, il ruolo di von der Leyen come potenziale regista (la presidente della Commissione proporrà di centralizzare alcuni acquisti di ReArm Europe a Bruxelles).
Ci sono però anche altri punti di contatto fra Covid e ReArm. C’è il rischio che l’urgenza generi nei leader ansia di mostrare che stanno facendo qualcosa, qualunque cosa; quindi, provochi scelte imprecise e da correggere. Soprattutto, ora come allora, una parte della popolazione non capisce. È scettica, sospetta esagerazioni e falsità. È sensibile alle sirene degli imprenditori del caos e della disinformazione, magari loro sì sospinti da potenze ostili.
Peculiarità nazionale
Quanto a questo, la lezione dei vaccini conta eccome. E l’Italia è particolarmente esposta. Mentre i leader politici e militari europei si riuniscono sempre più spesso per parlare di riarmo, difesa comune, contingenti per l’Ucraina o ombrello nucleare, l’Italia si tiene in parte ai margini e gli italiani restano in gran parte scettici. Non credono che l’emergenza sia reale come viene descritta. Dopo la fine della trentennale pax americana in Europa e nel mondo, in Italia si profila l’aspirazione a una nuova forma di neutralità. Nando Pagnoncelli lo ha mostrato sabato sul Corriere un sondaggio Ipsos: il 57% non si sente schierato né con la Russia né con l’Ucraina, mentre tre anni fa solo il 38% non stava da nessuna delle due parti, mentre una maggioranza era con Kiev (la tendenza è presente fra gli elettori di tutte le principali forze). Quanto al ReArm Europe di von der Leyen, una maggioranza relativa si dice contraria e anche il sostegno degli elettorati più favorevoli – gli italiani che votano per Fratelli d’Italia e per il Pd, di solito agli antipodi – risulta debole. Gli italiani non capiscono perché serva irrobustire così tanto la difesa europea o nazionale, temono lo si faccia a spese delle loro pensioni o della sanità.
Soprattutto, siamo peculiari nel confronto con il resto dell’Europa occidentale. Lo mostra un sondaggio dello European Council on Foreign Relations, con risposte raccolte fra novembre e dicembre scorsi. Siamo i più propensi a rispondere che l’Ucraina «non fa parte dell’Europa» (50%). Siamo fra i meno propensi (dopo ungheresi e bulgari) a rispondere che la responsabilità della guerra è della Russia; e siamo fra i più propensi a ritenere (sempre subito dopo quei due Paesi) che la Russia sia «un partner necessario». Quanto all’idea di proseguire nel supporto militare dell’Ucraina fino a che abbia recuperato l’integrità territoriale, siamo fra i meno favorevoli (di nuovo dopo ungheresi e bulgari).
Nostalgia della guerra fredda
L’implicazione è che in Italia un’ampia parte della società non vede il senso di un’accelerazione sulla difesa, perché non percepisce una minaccia. La Russia non si occuperà di noi e comunque la sua armata non è così temibile, dato che si è lasciata impantanare dagli ucraini. Una corrente sostanziale nel Paese in fondo pensa semmai che si potrebbe lasciare l’Ucraina a Vladimir Putin in cambio di un accordo e, dopotutto, se anche questi dovesse poi attaccare i Paesi baltici, non dovrebbe essere affar nostro.
L’errore – si pensa – è stato portare i confini della Nato e dell’Unione europea così vicini a Mosca. C’è nostalgia della Guerra Fredda e delle sue tutele, unita oggi a un desiderio di sostanziale neutralità. Vogliamo essere una Svizzera del 21esimo secolo, aperta a tutti e impegnata con nessuno?
Queste opinioni fanno dell’Italia un’eccezione in Europa, mentre l’evoluzione in Germania, Francia, Gran Bretagna o Polonia è diversa. Di certo esse influenzano i principali partiti. La premier Giorgia Meloni è fredda su un nuovo finanziamento a Kiev per la difesa e sulla partecipazione italiana a una forza europea che dia qualche garanzia all’Ucraina, presupposto perché Kiev accetti un armistizio. La leader del Pd Elly Schlein è fredda sul piano di riarmo europeo, anche se l’ombrello americano ormai si è richiuso e su di esso sarà difficile contare anche in futuro: al meglio, significa affidare ogni quattro anni la nostra sicurezza agli umori di poche decine di migliaia di elettori della Georgia o della Pennsylvania. In queste condizioni l’Italia oggi è, al più, quinto Paese in Europa per peso politico: appunto dopo Germania, Francia, Gran Bretagna e Polonia (ma anche gli scandinavi collettivamente contano ben più di Roma).
Il desiderio diffuso nel Paese di chiudersi in un piccolo mondo antico si respirava tanto alla manifestazione «per l’Europa» di piazza del Popolo a Rome, quanto nel tentativo di Meloni di organizzare un vertice euro-americano: forse si farà – chissà – ma la rottura fra le due sponde ormai resta strutturale. Eppure, queste opinioni fra gli italiani sono comprensibili. Alcuni faticavano ad accettare vaccini e lockdown quando la minaccia del Covid era dirompente nelle loro vite: sorprende che dubitino della fine della tutela americana e della minaccia russa quando i missili volano su Kiev, non su Milano?
L’aggressione ibrida e le 7 verità da conoscere
Questi italiani hanno dunque diritto ad alcune verità che la politica, con la sua tendenza a infantilizzare gli elettori, di rado offre. Eccone sette.
1. L’Italia viene da una lunghissima posizione di rendita che ha pochi paragoni al mondo.
Dai dati del centro studi Sipri si vede come, nella media dal dopoguerra, la spesa militare italiana annua (2,07% del prodotto lordo) è la più bassa fra i 22 Paesi strategicamente più importanti al mondo dopo Giappone, Finlandia, Spagna e Cina. Ma per il Giappone è stata una scelta forzata, mentre Cina e Finlandia oggi sono in situazioni del tutto diverse. In sostanza veniamo da un’anomalia lunga sette decenni, che consideriamo normalità. Ma la protezione americana oggi è saltata: come il caso ucraino insegna, non è affatto chiaro a quali condizioni gli Stati Uniti offrirebbero la loro protezione antimissile, satellitare o nucleare.
2. In Italia c’è un dibattito acceso, quasi uno scontro, fra il mondo della difesa e il resto del sistema politico. Il primo, in linea con le analisi nel resto d’Europa, è certo che Putin oggi cerchi due anni di pausa per poi tornare ad attaccare tanto l’Ucraina che i Paesi baltici: l’obiettivo per il Cremlino è dimostrare che le promesse di difesa reciproca fra Paesi Nato saranno tradite; quindi, la Nato di fatto non esisterebbe più e la strada sarebbe aperta per riscrivere la carta d’Europa emersa dalla fine della guerra fredda. Fiona Hill, fra i massimi esperti di Russia al mondo, con un passato nell’intelligence americana e nel team di Trump nel 2017-2021, spiega su Foreign Affairs in questi giorni come la stabilità del potere di Putin dipenda ormai dal continuo perseguimento di un regime di guerra: la stessa scarsità risultati in Ucraina, a fronte di un prezzo umano immane per i russi, spinge il dittatore a proseguire per dimostrare che ne valeva la pena. Il mondo politico italiano invece, in linea con gran parte dell’opinione pubblica, non accetta quest’analisi. Ma in gioco c’è la qualità delle scelte industriali nel settore della difesa nei prossimi anni.
3. Se l’Ucraina cedesse, il Cremlino conquisterebbe potenzialmente il controllo del secondo esercito più armato e più dotato di effettivi in Europa (oggi un milione di uomini) dopo quello stesso della Russia.
4. Una parte importante delle difese antimissile per l’Italia oggi si trova nelle basi Nato in Romania. Se alle elezioni presidenziali in Romania vincesse un fantoccio di Putin, ciò non sarebbe certo positivo per la sicurezza nazionale italiana.
5. Gli attacchi in Europa in questi anni sono avvenuti in maniera ibrida, ma violenta. Secondo la Nato, c’è la Russia dietro un attentato alla vita dell’amministratore delegato del campione tedesco della difesa Rheinmetall, Armin Papperger (un’accusa respinta da Mosca). L’uso del Novichok da parte di agenti russi ha rischiato di uccidere accidentalmente molte persone a Salsbury, Inghilterra, nel 2018. Dal 2022 si contano decine di altri attacchi e incendi a centro logistici in Germania, cyberattacchi e tagli di cavi sottomarini nel Baltico per cui Mosca è sospettata. Secondo Fiona Hill, i russi potrebbero danneggiare i gasdotti sottomarini da Paesi terzi, per ricreare dipendenza dell’Europa dalle forniture di Gazprom. L’aggressione oggi non avviene solo mandando carri armati dall’altra parte di un confine.
6. L’esercito russo mantiene 1.800 effettivi e molto materiale in Libia. Il regime di Benghazi, guidato da Khalifa Haftar, versa a Mosca un affitto fra 100 e 200 milioni di dollari all’anno per la protezione radar e antimissile assicurata dalle forze di Mosca.
7. Poter contare sulla protezione nucleare di Parigi e di Londra implica co-finanziarne il costoso mantenimento e sviluppo. Parigi e Londra non accetterebbero altrimenti di garantire per la sicurezza del territorio italiano o tedesco, dato che una possibile ritorsione dell’avversario implica – secondo la dottrina nucleare – l’esporsi alla distruzione di una città francese o britannica. Tutto questo è più attuale ora che il declino della tutela americana incoraggia alcuni Paesi a dotarsi, per deterrenza, della propria atomica: in Polonia, il dibattito viene lanciato dal governo.
Tutto questo, ripeto, con i vaccini Covid non c’entra. Se non per un punto: in una crisi, gli italiani di solito non capiscono cosa non viene loro spiegato dai politici, ma avvertono quando stanno ricevendo solo versioni parziali o edulcorate. Dunque sospettano, negano, si ritraggono. Una posizione di rendita dell’Italia nella difesa era tollerata quando in Europa ne godevano più o meno tutti, durante la pax americana. Oggi, se la difesa è europea, non sarebbe più così.