È ovvio che sarebbe meglio evitare una guerra commerciale con gli Stati Uniti, come ripetono ogni giorno Meloni, Salvini e tutta la schiera degli opinionisti commercial-pacifisti, fieramente schierati dalla parte del giaguaro. Il problema è che, come scrivono oggi sul Sole 24 ore Moreno Bertoldi e Marco Buti, l’Amministrazione Trump questa guerra l’ha già scatenata. «La vera questione è allora se l’Europa vuole arrendersi senza combattere, sperando nella improbabile benevolenza del vincitore (e validando il suo disprezzo verso un’Ue debole e divisa) o se invece vuole difendersi, pur restando aperta al negoziato, così da cercare veramente una soluzione alla guerra commerciale». Parole piene di saggezza, che non perderebbero una frazione della loro ragionevolezza neanche togliendo l’aggettivo «commerciale» e sostituendo Trump con Putin.
Psicopolitica
L’America no-global di Trump e l’equazione del complottismo
Ci sono molte istruttive contraddizioni nella nuova epoca che Donald Trump sta aprendo – sempre che alla fine il presidente americano non si riveli l’equivalente protezionista di Liz Truss, e sia costretto a richiuderla con molte scuse nel giro di qualche settimana, o mese – ma quella che preferisco riguarda il paradosso dell’interpretazione no global del mondo. Da un lato infatti Trump è senza dubbio il più convinto e influente assertore della visione antiglobalista dell’economia e della politica internazionale, dall’altro però offre di quelle stesse teorie una versione completamente rovesciata, in cui gli Stati Uniti non sono più i grandi burattinai e dunque i principali beneficiari di quell’equilibrio, ma le principali vittime. Fino al colmo del paradosso della prima superpotenza globale che fino a oggi si sarebbe lasciata prendere per il collo dal Bangladesh, uno tra i paesi più poveri del mondo, stando almeno al bizzarro calcolo delle «tariffe reciproche» utilizzato per riempire l’incredibile tabellone esibito da Trump nel suo festoso «Liberation Day».
La logica è chiara: qualunque mia sconfitta (reale o percepita) è la prova che gli altri barano. Si tratti di commercio o di elezioni.
Un calcolo economicamente insensato, ma psicologicamente e politicamente chiarissimo, che rappresenta quella che potremmo definire l’equazione fondamentale del complottismo: qualunque mia personale sconfitta (reale o percepita) può essere spiegata soltanto con il fatto che gli altri barano. O meglio, è la prova che gli altri barano («they cheated on us», come ripete ossessivamente Trump). Vale per il commercio come per le elezioni. È la conseguenza del principio dell’infallibilità del capo: non potendo perdere per definizione, essendo infallibile, se perde, significa che la competizione è truccata. Non servono prove, e nemmeno indizi, basta e avanza la prova ontologica. E infatti, se ricordate, nell’ultima campagna elettorale Trump ha svolto esattamente questo argomento: siccome era chiaro che il popolo era con lui, se avesse perso sarebbe stata la dimostrazione che i democratici truccano le elezioni, proprio come nel 2020. Il problema che Giorgia Meloni e gli altri sovranisti schierati con Trump non sembrano avere afferrato per tempo è che questo schema, applicato al commercio e più in generale alle relazioni internazionali, non prevede amici e tantomeno alleati, ma solo avversari pronti a fregarti alla prima occasione. Anzi, come il presidente americano ha ripetuto più volte, gli amici sono quelli che ti fregano anche più dei nemici. E come tali, di conseguenza, saranno trattati.