In politica da sempre si pratica un espediente che è un trucchetto da quattro soldi per quanto è plateale e comico. (In realtà di espedienti e trucchetti ce ne sono molti, come il “ma anche” di veltroniana memoria ora ripreso alla grande da Schlein). Si tratta di questo: si spara una richiesta molta alta ben sapendo che è irrealizzabile per avere così la scusa di rifiutare ciò che oggi è concretamente fattibile. Gli esempi di questo espediente potrebbero essere innumerevoli, in genere viene qualificato come “gettare la palla in tribuna”, come il famoso “problema a monte” che poi ha anche la variante de “il problema è un altro”, ma lo schema è sempre quello della matrioska russa ( racchiuse nel proprio ventre, la Matrioska accoglie le otto “figlie” più piccole, simili ma diverse tra loro). Oggi tutti quelli, per capirci, che dicono “siamo per la difesa comune, ma contro il riarmo” ricorrono a questo vecchio trucco e tutto è tranne che un’ingenuità. La “difesa comune” infatti non c’è, non è immediatamente realizzabile, come non ci sono gli “Stati uniti d’Europa” di cui spesso favoleggiamo. Lo ha spiegato bene l’europarlamentare Giorgio Gori, uno dei riformisti del ps. Entrambi rappresentano un traguardo cui aspirare, un progetto ideale cui tendere. Tutti vorremmo che la “difesa comune europea” fosse già qui, ma purtroppo solo un percorso graduale, costruito tramite avanzamenti progressivi, consentirà – non senza fatica, non senza ostacoli – di avvicinarne la realizzazione. I riformisti lo sanno e per questo lavorano, un passo alla volta. Senonché i tempi richiedono reazioni immediate. Già oggi l’Ucraina non può più contare sul sostegno militare degli Stati Uniti, e la stessa Unione Europea non può più fare pieno affidamento sull’ombrello protettivo americano. Le decisioni che si impongono non consentono di ottenere da subito la “difesa comune europea”, innanzitutto per la ragione che la Difesa è ancora una competenza nazionale – da qui l’unanimità necessaria a procedere (unanimità che è ben lontana dal riscontrarsi tra gli stati membri ) e in secondo luogo per la permanente indisponibilità di molti di questi (tra cui alcuni stati di primaria importanza) a condividere forme di ampliamento del bilancio dell’Ue o di indebitamento comune.
Ciò che si può fare oggi, concretamente, è promuovere maggiori investimenti nazionali per la sicurezza e la deterrenza, condizionandoli il più possibile a logiche di coordinamento e interoperabilità (come accade con “Safe”), e in parallelo incentivare lo sviluppo di un’industria europea della Difesa, a sua volta progressivamente orientata alla cooperazione sovranazionale. Trattasi di “riarmo”? Sì, se lo si vuole chiamare col suo nome (a ricomprendere dispositivi di cybersecurity e di vigilanza satellitare, sistemi di AI, ecc.), da vedere come necessario e positivo punto di partenza di un processo che andrà progressivamente orientato alla costruzione dell’agognata “difesa comune europea”. Quest’ultima non è dunque in contrapposizione con “ReArm Europe”/“Readiness 2030”, il piano presentato da Ursula von der Leyen: è invece l’obiettivo che dobbiamo sforzarci di costruire partendo da quello, consapevoli che l’attuale frammentazione dei sistemi di difesa nazionali rappresenta un fattore di vulnerabilità e di inefficienza. Dire “sì alla difesa comune, no al riarmo” non ha quindi senso.
E’ un espediente per non dire apertamente ciò che in realtà si pensa: che di armi non si vuol sentir parlare. E che quindi non si vuole fare nulla. Nel segno del massimalismo, o d’un malinteso pacifismo, così finendo per fare il gioco – anche senza volerlo – di chi l’Europa la vuole fragile e indifesa.