Una maggioranza di americani votarono per Donald Trump il 5 novembre perché lo consideravano più affidabile e più esperto di Kamala Harris su un terreno cruciale: l’economia. Oggi osservano con sgomento i propri fondi pensione che perdono valore. Il crollo di Borsa associa Trump a un’immagine d’incompetenza. Al suo Inauguration Day il 20 gennaio aveva promesso un’Età dell’Oro.
Dopo il Liberation Day , la giornata dei dazi del 2 aprile, è costretto a una goffa retromarcia: prima che arrivi l’Età Aurea c’è una «medicina» da ingoiare (la recessione?). Non riuscirà a convincere che era tutto calcolato. Non sarebbe credibile. Lui non aveva fatto una campagna churchilliana «lacrime e sangue però alla fine vinceremo». Aveva promesso, con i dazi, una guerra-lampo e tutti più ricchi subito. L’incompetente doveva essere Biden; ma sotto di lui Borse e dollaro stavano molto meglio. Non siamo ancora vicini ai cento giorni e già la luna di miele del 47esimo presidente si è schiantata.
Nello spettacolo mostruoso di questa incompetenza c’è qualcosa di banale e prevedibile; c’è anche qualcosa di misterioso. Forse è vero quel che sostiene il Quotidiano del Popolo , l’organo del partito comunista cinese, secondo cui la leadership di Pechino non è sorpresa, aveva previsto tutto, e ha già pronta la sua strategia di sopravvivenza a Trump. Non possono dire altrettanto i mercati finanziari più liquidi del pianeta, dove i grandi investitori muovono migliaia di miliardi al giorno: Wall Street e Londra, Tokyo e la stessa Hong Kong, tutti hanno reagito con il terror panico della sorpresa. No, non si aspettavano questi dazi, non così alti, non così punitivi, non così generalizzati.
Eppure Trump iniziò a predicare il Vangelo dei dazi in un’intervista televisiva del 1987! E da allora non ha mai smesso. Forse i grandi investitori di Borsa hanno creduto davvero al «teorema dell’oligarchia»? Se questa Casa Bianca fosse succube di Elon Musk, di Jeff Bezos, e degli altri multimiliardari di Big Tech, dovrebbe essere un concentrato di competenze. E vorrebbe un mondo senza barriere. Zero dazi: lo ha detto Musk. In questo momento Big Tech è nei guai quasi quanto l’elettore americano che vede squagliarsi il suo fondo pensione: sulle multinazionali del digitale si abbatte una tempesta perfetta, fatta di perdite azionarie, profitti minacciati, sanzioni e castighi in arrivo da Bruxelles e da Pechino. Se l’elettore medio considerava Trump più affidabile sull’economia, i grandi capitalisti di sicuro lo reputavano più malleabile.
Al dunque, dovendo arbitrare tra i poteri forti del capitalismo che lo hanno appoggiato, e il populismo operaista, Trump per adesso ha fatto la sua scelta. Gettando la maschera si è rivelato — come J.D. Vance — più come un leader della «destra sociale».
Può darsi che ci ripensi, l’uomo non è nuovo ai voltafaccia, e il suo narcisismo egomaniaco gli consente di mascherare le ritirate come delle vittorie (la pandemia offrì dei precedenti in questo senso). Il verdetto delle Borse, con il suo sinistro presagio di recessione, potrebbe farlo indietreggiare sull’orlo del baratro, finalmente. Il breve psicodramma di ieri su una moratoria dei dazi, idea attribuita a un consigliere della Casa Bianca e poi smentita come fake news, ci ha dato un assaggio dei possibili colpi di scena: niente di rassicurante per un mondo dell’economia che vorrebbe stabilità e certezze.
Per navigare in queste acque turbolente dovremo aggiornare le analisi sul trumpismo, familiarizzarci con una nuova nomenclatura. Ai Premi Nobel dell’economia progressisti e globalisti come i Paul Krugman e Joseph Stiglitz, dovremo sostituire i vati della «reciprocità commerciale», nomi ancora semisconosciuti come Stephen Miran, Oren Cass, Nicholas Phillips, Mark DiPlacido. Leggere le loro analisi sui siti dei think tank di area Maga (Make America Great Again) non solo è istruttivo, è doveroso se si vuol capire qualcosa. Anche perché rivelano una singolare convergenza di vedute con la più antica critica della sinistra radicale contro le frontiere aperte, il movimento no global che paralizzò il vertice di Seattle del Wto nel 1999. La parabola dei no global trumpiani è abbastanza simile a quella di Robert Kennedy Junior, il ministro della Sanità anti-vax che viene dall’ultrasinistra ambientalista. Gli uni e gli altri interpretano una rivolta popolare contro i poteri forti del capitalismo: da una parte Big Pharma e il business dei vaccini; dall’altra le multinazionali che delocalizzando in Cina hanno smantellato la classe operaia americana. Percorsi diversi ma una comune diffidenza verso il grande capitale e il mondo degli esperti, quindi della «competenza».
Trump cantava le lodi dei dazi nel 1987 — cioè proprio mentre alla Casa Bianca il neoliberista Reagan costringeva il Giappone ad auto-limitare le proprie esportazioni. All’inizio degli anni Novanta il miliardario texano Ross Perot lanciava la prima sfida di una destra populista contro i grandi accordi internazionali di libero scambio: già allora un industriale straricco si proponeva come il protettore di una classe operaia minacciata dalle maquiladoras , le catene di montaggio delocalizzate in Messico. Poi ci sarebbero stati l’ambientalista Ralph Nader, Occupy Wall Street , Bernie Sanders a sinistra; il Tea Party Movement a destra.
È da un trentennio ormai che un pezzo d’America piange la sua vocazione industriale tradita dal grande capitale cosmopolita, e cerca rappresentanza ai due estremi dello spettro politico.
Questa è un’America che vede negli economisti, negli esperti, nei tecnocrati, dei privilegiati esterofili, venduti agli interessi di Wall Street. La polemica contro l’establishment e contro il tradimento delle élite è il tratto comune all’estrema sinistra e all’estrema destra.
La rivolta contro la globalizzazione ha dato voce a sofferenze reali, a ingiustizie stridenti. Ma il progetto di resuscitare un’America quale esisteva prima dello «shock cinese» arriva appunto con trent’anni di ritardo. Oggi Trump non può rispondere agli editoriali del Wall Street Journal che gli chiedono: dove sono i nostri giovani pronti a lavorare in fabbrica per sostituire le maestranze cinesi, coreane, vietnamite? Porsi questi problemi concreti esula dalle sue… competenze.