Forse avrete sentito parlare della storia di Peter Navarro, consigliere della Casa Bianca per il Commercio, altrimenti ecco una sintesi. Agli albori del suo primo mandato Donald Trump è a caccia di spin doctor sull’economia. In particolare, gli occorre un cervellone che sappia di Cina, sia abbastanza ferrato da conoscere tutte le malefatte di Pechino e abbia in tasca le dovute contromisure. Siccome Trump ha da fare, la lettura non è il suo principale hobby e i giri di conoscenze non sono quelli giusti, incarica il genero Jared Kushner di reclutare lo scienziato di cui ha bisogno. Kushner ha in mano pochi ma decisivi indizi: economista, anti-cinese. Siccome è un pragmatico, decide di affidarsi ad Amazon. Qui scopre che è in vendita un libro dal titolo Death by China, Morte dalla Cina, abbastanza didascalico da convincerlo di essere sulla pista giusta. Kushner contatta Navarro e quindi lo presenta al suocero, che se ne innamora subito. Assunto. Che le cose sia andate così non è una malignità degli avversari di Trump. Lo ha raccontato Kushner a Vanity Fair nel 2017.
Navarro ha un merito fondamentale agli occhi di Trump, essere un convinto sostenitore dei dazi come risposta agli squilibri commerciali, veri o presunti, che affliggono gli Stati Uniti. La Cina, ovviamente, deve essere il primo bersaglio delle nuove politiche.
Navarro diventa e resta un fedelissimo di Trump, tanto che si fa quattro mesi di carcere per aver, in sostanza, rifiutato di deporre sul tentato golpe di Capitol Hill. Che i suoi rapporti con il presidente siano proficui è confermato dal fatto che Trump cita pubblicamente uno degli economisti sulle cui teorie è fondato Death by China, Ron Vara: “Cavalcare i dazi fino alla vittoria!”.
E se fin qui la storia vi sembrava già singolare, il resto è meglio. Già un anno dopo il reclutamento di Navarro su Amazon una professoressa di nome Tessa Morris-Suzuki, non tanto convinta delle basi scientifiche del collega, si mette a spulciare e scopre senza troppa fatica che Ron Vara semplicemente non esiste. Quindi tutte le citazioni contenute nei libri di Navarro, perle alla Chance il giardiniere tipo “Il Drago manifatturiero è vorace”, e così anche i cenni biografici (Vara era presentato come un reduce della prima guerra del Golfo), erano inventate come l’identità.
Forse non serviva essere Bartezzaghi per rendersi conto che Ron Vara è l’anagramma di Navarro. Delle scoperte di Morris-Suzuki scrive il New York Times nel 2019 e Navarro ammette subito: Ron Vara è il suo alter ego, anzi dice lui, “un cameo alla Hitchcock”, che come è noto amava comparire di sfuggita in alcune inquadrature dei suoi film al pari di una comparsa. Ron Vara è il Mark Caltagirone della scienza economica, ma almeno nessuno chiese al fidanzato immaginario di Pamela Prati la ricetta per ridurre il debito pubblico italiano (forse però non parlerei di scampato pericolo: abbiamo avuto Barbara Lezzi ministra spiegarci in un video che il Pil era cresciuto sotto il governo Gentiloni per via del meteo e dell’uso intensivo dei condizionatori. Chi elesse Lezzi? Lo stesso partito che in campagna elettorale si rifiutava di scegliere tra Trump e Biden prima e Trump e Harris dopo).Ora, a non lasciarsi ipnotizzare dalla meravigliosa trama, ci sarebbe da concentrarsi sull’aspetto normativo della storia: già sei anni fa è di pubblico dominio il fatto che l’uomo al quale Trump chiede consigli sull’economia mondiale è un prof pazzerello che fonda le sue conclusioni sulle tesi di una persona che non esiste, il suo anagramma. Quella stessa persona, dopo aver scontato i quattro mesi di detenzione e dopo che Trump si è ripreso la Casa Bianca, torna in scena con un ruolo ufficiale nello staff del presidente e come principale ispiratore della politica dei dazi la quale, incidentalmente, ha bruciato decine di miliardi di dollari in Borsa, semiparalizzato il commercio mondiale, innescato una guerra, per ora solo commerciale, tra le due super potenze mondiali, senza contare i possibili effetti a breve termine sull’economia reale: inflazione, recessione, disoccupazione. Bel lavoro, Ron. Elon Musk ha detto di Navarro che è “un idiota, più stupido di un sacco di mattoni”, ma in quel ruolo ce l’ha messo il suo sodale Trump, lui come il ministro della Difesa Pete Hegseth e il consigliere alla sicurezza nazionale Mike Waltz che si scambiavano via chat i piani per l’attacco militare agli Houti dopo aver aggiunto alla conversazione un giornalista di Atlantic.
Siamo nell’epoca dove è tutto possibile, con Trump che lancia la sua criptovaluta dallo Studio Ovale, con Trump che si rimangia parzialmente i dazi e, poche ore prima di annunciarlo, pubblica sul suo social Truth un invito a comprare, disegnando in teoria la più colossale e sfacciata operazione di insider trading di ogni epoca e dando nuovo significato all’intuizione di Cattelan e del dito medio che si erge davanti a una Borsa seppur periferica. Siamo, soprattutto, nel tempo in cui un meme virale ha evidentemente più impatto sul dibattito pubblico di un pezzo del New York Times. Navarro, come del resto lo stesso Trump, ha annunciato più volte quello che sarebbe accaduto con il secondo mandato Trump: i dazi, la punizione dei parassiti, la punizione della Cina. Nessuno ha detto: ma come? La politica degli Usa è eterodiretta da un tizio scovato da Amazon che nei suoi libri citava un tizio inventato? Eppure la verità era sotto il naso di tutti. Solo che nell’epoca di Trump e e dei sovranisti come lui la realtà è come Ron Vara, non esiste. Se Marine Le Pen diventa ineleggibile per sentenza giudiziaria, il primo a prendere la parola è Vladimir Putin per dire: lesa la democrazia. Putin. Ancora trent’anni fa un presidente americano finiva sotto impeachment per aver mentito sulla natura della relazione con una stagista della Casa Bianca.
Oggi un presidente americano può tentare un golpe, investire sui suoi interessi mentre è in carica, arruolare un sacco di mattoni, guidare la nazione con i metodi di dei fratelli Duke e non succede niente. Su Atlantic, la stessa testata protagonista del chatgate, è uscito un pezzo dello storico Timothy W. Ribeck dal titolo: “Una democrazia smantellata in cinquantatré giorni” (in Italia lo ha ripubblicato Internazionale). È il racconto di come Adolf Hitler distrusse la repubblica costituzionale usando mezzi costituzionali, o apparentemente tali, e si pappò la democrazia tedesca in meno di due mesi. Ribeck racconta che nel settembre del 1930 Hitler fu audito davanti alla corte costituzionale e informò la corte che una volta ottenuto il potere con mezzi legali avrebbe plasmato il governo a suo piacimento. “Quindi, attraverso mezzi costituzionali?”, chiese il presidente. “Jawohl”, rispose Hitler. Poi vinse le elezioni.