Idee per la Scuola

L’umiliazione dei licei di Stefano Stefanel

        1-8-24   Una delle prime cose che si insegnano a tutti i docenti che vogliono diventare dirigenti scolastici è che ogni provvedimento della Pubblica Amministrazione deve rispondere a canoni di efficienza, efficacia ed economicità. Se almeno una di queste tre caratteristiche non è soddisfatta allora è meglio lasciar perdere. Di recente, improvvisamente e a sorpresa, il MIM ha emanato una divisione degli Istituti scolastici in fasce al fine della retribuzione dei dirigenti scolastici. La retribuzione dei dirigenti scolastici prevede una parte fissa uguale per tutti, eventuali assegni ad personam legati a situazioni del passato transitati nella dirigenza (che residua per non tantissimi casi) e due retribuzioni variabili: una “di posizione” (la complessità della scuola che si dirige) e una “di risultato” (a seguito della valutazione obbligatoria del dirigente scolastico). Poiché anche i dirigenti scolastici non vogliono farsi valutare a fini stipendiali (come del resto in Italia praticamente tutti ad eccezione degli studenti) e in questo vengono spalleggiati sia dai sindacati generalisti (per intenderci CGIL, CISL, UIL, Snals, ecc.) sia da quelli di categoria (citerei solo ANP) dalla nascita della dirigenza scolastica (1999) nessuno è stato valutato a fini stipendiali. Praticamente tutti i dirigenti e tutti i sindacati si dicono, a voce alta, favorevoli alla valutazione dei dirigenti (che è prevista per legge), ma poi nei fatti sostengono anche che deve essere “seria” dicendo al contempo che quelle proposte dal Ministero negli anni passati “serie” non lo sono state, determinando di fatto un’assenza di valutazione e che, quindi,  agganciando la retribuzione di risultato a quella di posizione. Nel passato ci sono state varie tornare di valutazione dei dirigenti, ma nessuna ha avuto ricaduta stipendiale. D’altronde se il valutato può decidere cosa è serio e cosa non lo è nell’ambito della sua valutazione non esiste nessuno così geniale da escogitare qualcosa che venga accettato senza proteste da tutti (tipo il cappone che organizza il cenone di Natale). In questa situazione, dunque, la retribuzione di posizione/risultato incide sullo stipendio del dirigente e sulla sua situazione pensionistica. Quindi le fasce di livello delle scuole hanno solo un’incidenza sulla categoria dirigenziale e sulle sue retribuzioni. Perciò le fasce di livello interessano solo i dirigenti scolastici e non la scuola e la sua organizzazione. Per circa quindici anni sono rimaste in vigore le vecchie quattro fasce e nessuno parlava dell’argomento, contestava, problematizzava. Dunque di fatto tutti accettavano la situazione così come si era cristallizzata.

            Improvvisamente il MIM ha deciso di diminuire i dirigenti (generando degli accorpamenti con modalità bizzarre e ragionieristiche e senza tenere conto di situazioni locali specifiche) e di rivedere le fasce diminuendole da quattro a tre. Il primo provvedimento ha evidenti motivi di economicità (molti meno, direi nessuno, sui versanti dell’efficienza e dell’efficacia), mentre il secondo ha solo creato polemiche perché non rispetta nessuno dei tre requisiti. Infatti la divisione delle fasce ha mandato, attraverso parametri pensati in modo arcaico e confuso, tutti i Licei non inseriti in un Istituto complesso (gli ISIS) nella fascia più bassa, cioè in quella in cui si prendono meno soldi. Il messaggio mandato dal MIM è semplice: i Licei danno prestigio, ma sono facili da dirigere, quindi chi vuole più soldi deve andare a dirigere un Istituto comprensivo. Il messaggio però declassa i Licei che sono, nel bene e spesso nel male, la cartina di tornasole dal sistema scolastico italiano. Il contorto e inefficiente sistema italiano di orientamento (su questo sono intervenute le Linee guida sull’orientamento che finora non hanno molto inciso sul problema, anche perché coniugate con meccanismi attuativi “bizantini” che hanno finanziato l’orientamento verso l’Università, quindi dei trienni delle Scuole superiori, e per niente quello delle Scuole secondarie di primo grado che invitano i bravi a fare i Licei e i meno bravi a fare i Tecnici o i Professionali) produce da anni una concentrazione degli studenti migliori nei Licei e quindi l’efficacia generale dell’Italia in termini di società della conoscenza è ancora delegata soprattutto ai Licei. Questa è una verità che tutti conoscono, che produce discorsi mediatici prossimi ad un vero e proprio delirio sulla scuola, perché hanno solo i Licei come centro del discorso. Tutta la comunicazione sulla scuola è influenzata dai Licei, visto che gli intellettuali di spicco e che hanno accesso ai grandi canali di comunicazione hanno tutti fatto da giovani il Liceo e, quando parlano della scuola, si riferiscono solo al Liceo in cui hanno studiato (Cacciari, Panebianco, Galli della Loggia, Crepet, Galimberti e via declinando) o in cui hanno insegnato (Mastrocola, Ardone e via enumerando).

            Quello che mi permetto di chiedere è: perché si fatta questa operazione di declassamento? A cosa serve umiliare e declassare il punto alto del sistema scolastico italiano, quello che accoglie gli studenti migliori? Che messaggio viene dato alla categoria dirigenziale? Che idea c’è di scuola? E – soprattutto – se “chiunque” può dirigere un Liceo, considerato scuola semplice, vuol dire che la professione non deve occuparsi delle sue eccellenze. Perché il problema sta anche qui: cosa si vuole dal dirigente scolastico oggi? Che si occupi degli alunni o dello SPID? Che abbia a cuore il miglioramento degli apprendimenti o corra dietro alle multe che INPS e INAlL danno a destra e a manca per mancanze tutte loro, ma che nessuno gli contesta? Che analizzi i percorsi didattici, formativi e di orientamento o consulti graduatorie? Che organizzi percorsi personalizzati per tutti gli studenti in difficoltà o dedichi le sue giornate a compilare piattaforme e graduatorie? Che usi i soldi del PNRR per migliorare il sistema scolastico o per comprare “macchinette” colorate per far salire la spesa del PNRR?  Che si occupi di disabilità, inclusione dispersione o della ricostruzione delle carriere e degli acquisti sotto soglia? Quando un provvedimento non è efficiente (i Licei nella fascia più bassa sono il massimo dell’inefficienza organizzativa perché si mettono sullo stesso piano Liceo di 500 studenti e Licei di 1500 studenti), non è efficace (perché si comunica che i Licei sono tutti facili da gestire e gli Istituti comprensivi tutti difficili, il che non è un errore ma proprio una stupidaggine), non è economico ( i soldi sono sempre quelli, qui si parla solo di retribuzione dei dirigenti dentro uno schema contabile rigido) l’unico motivo per cui viene emanato è che è punitivo. Niente di nuovo sotto il sole: il sistema scolastico italiano pare deciso ad andare nel baratro degli adempimenti e dei bassi risultati. Con i Licei retrocessi in serie C, ma solo perché la D non è stata attivata.

Cari studenti, se volete occupare le scuole scegliete motivi più appropriati (Antonio Gurrado, 28/2/24) Anche tutto il dibattito sulle occupazioni dei licei si concentra sul motivo sbagliato, ovvero sull’opportunità che chi causa dei danni li paghi. Certo che li deve pagare, cosa vuole, un premio? La vera questione giace piuttosto nei futili motivi che i ragazzi scelgono per protestare: motivi astratti, magari elevati, sicuramente ben più grandi di loro e non risolvibili con un’occupazione. Perché non protestano invece per il fatto che la scuola è una filiera improduttiva, in cui lavorare o non lavorare alla fin fine non fa gran differenza? Perché non protestano per il fatto che gli stipendi dei docenti premino l’anzianità e non il merito? Perché non protestano contro gli insegnanti che non conoscono la materia che insegnano? Contro le segreterie in cui le pratiche si arenano? Contro le circolari scritte in italiano stentato? Contro una scuola che, pur di mandare avanti più o meno tutti, in larga parte non prepara più adeguatamente né al lavoro né all’università, facendo sprecare cinque anni di vita? Forse temono che in questo caso, se le loro proteste venissero accolte, a loro non converrebbe?

Intelligenza artificiale, libri di testo, riassunti di Stefano Stefanel (edscuola, luglio 2023)

                  L’intelligenza artificiale e, soprattutto, il suo uso umanistico ha preso alla sprovvista tutti. La scuola, come sempre avviene, tende ad arretrare davanti ad ogni novità e la scandaglia con i crismi della conservazione, chiedendosi, piuttosto attonita, in che modo la sua tradizionale concezione del sapere venga scossa da ogni nuova “diavoleria” in arrivo. L’intelligenza artificiale, sotto le spoglie nemmeno troppo anonime di Chapt A.I., sta dando alle certezze della scuola una scossa quasi pari a quella data dalla pandemia, che ha trasformato in una settimana gli insegnanti in “esperti” sull’utilizzo delle piattaforme digitali, con modalità di apprendimento molto veloci anche se un po’ caserecce e artigianali.

                  La prima domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla proprietà di un testo e quindi al confine che deve esistere tra plagio, citazione, rielaborazione. Il plagio è quando copio qualcosa da qualcuno e non dico che l’ho copiata; la citazione è quando copio qualcosa da qualcuno ed evidenzio chiaramente che cosa ho copiato e dico pubblicamente da chi l’ho copiato (di solito in nota), la rielaborazione è quando prendo spunto da qualcosa scritta o detta da qualcuno, la rielaboro e me ne approprio (e a volte “questo qualcuno” lo cito, mentre altre volte non lo cito). Personalmente sono stato convinto da quanto sosteneva San Tommaso D’Aquino, l’ho imparato all’Università quasi cinquant’anni fa, non ho mai avuto dubbi che alla base di ogni corretta pedagogia ci fosse quel pensiero. Durante i quolibet all’Università di Parigi nel Trecento gli studenti dovevano sostenere una discussione su un tema introdotto dal San Tommaso. Lo dovevano fare appoggiandosi alle autorità del passato classico o alla contemporaneità del sapere cristiano, spesso contaminata da elementi arabi. Su una cosa San Tommaso non transigeva: lo studente doveva citare la fonte da cui aveva tratto la sua argomentazione. Se non lo faceva veniva punito duramente o addirittura espulso dall’Università parigina perché aveva peccato contro Dio che lo favoriva facendolo studiare e contro la sua famiglia che pagava gli studi. E aveva peccato di un peccato gravissimo per San Tommaso: l’arroganza di ritenere, da studente, di aver pensato qualcosa di originale, che qualche grande maestro del passato o del presente non aveva mai pensato prima. Quindi per San Tommaso l’unico sapere vero è quello che si riferisce ad una fonte, autorevole (nel caso suo spesso anche un po’ troppo autoritaria) e certa. Quindi bisognava copiare, dire cosa si aveva copiato e da che autore ci era “abbeverati”.

                  Questa idea non è quella della scuola italiana, che invece pare amare l’originalità degli adolescenti, spesso costruita su orribili argomentazioni nate non si sa bene dove ed ha orrore assoluto della copiatura, sia questa un ingiustificabile plagio, sia questa una corretta citazione. La scuola italiana ritiene che il riassunto sia invece ciò che produce apprendimento. Il libro di testo manualistico è un riassunto, le citazioni antologiche toccano i punti salienti di un testo e quindi ne riassumono i tratti essenziali, la spiegazione frontale del docente è un riassunto spesso di un altro riassunto (il manuale). Tutto insomma si tende a fare a scuola, tranne un sano lavoro sul testo senza mediazione alcuna.

                  Su questo meccanismo che continua a ritenere che la lezione frontale sia il metodo migliore per trasferire apprendimenti da una testa ben piena (quella del docente) ad una testa ben vuota (quella dello studente) si è abbattuta l’intelligenza artificiale e soprattutto Chapt A.I. che, a velocità irraggiungibile per qualunque essere umano (sulle possibilità dei replicanti si sa poco), produce testi ben scritti, corretti, banali, informati. Testi che comunque possono far prendere bei voti, perché spesso sono molto migliori di quelli prodotti con grande fatica da molti studenti. Personalmente ritengo che se un testo qualcuno lo scrive meglio di me sia corretto che lo scriva lui o lei e non io. Se poi l’intelligenza artificiale mi aiuta a produrre relazioni o testi divulgativi che io poi rielaboro e faccio miei non avrò scrupoli ad usarla, magari citando in calce l’aiuto che ho ricevuto. In questo momento sto scrivendo di mio pugno, anche perché sto esponendo una tesi che trovo molto difficile far interagire con Chapt A.I.

                  La tesi è questa: perché studiare su un libro di testo (manuale) che riassume qualcosa sia migliore che interrogare Chapt A.I. (o un motore di ricerca) su un qualunque argomento? Personalmente sono da sempre contrario ai libri di testo e alla loro adozione, perché in un’ottica curricolare non capisco che cosa si possa realmente apprendere dentro un sapere stantio e immobile prodotto altrove in rapporto molto stretto con i vecchi programmi ministeriali. Ma ai docenti italiani piace il libro di testo (manuale), piace spiegarlo, piace risentirlo raccontato dai propri studenti, piace decidere di non utilizzarlo anche se è stato fatto comprare, piace corredarlo di molte fotocopie. E allora perché non piace anche l’intelligenza artificiale, che trasmette, in tempo reale, il libro di testo nella sua realizzazione più immediata e aggiornata? Questa domanda permette di entrare nella logica della scuola (non solo italiana) dove il sapere è controllo e non ricerca. Una delle idee-base è che è necessario riferirsi ad un sapere certo e codificato per poterlo trasmettere, perché la base dell’apprendimento è comunque di tipo trasmissivo. Da qui ci si sposta poco e lentamente: un salto era stato fatto con la pandemia che aveva imposto idee nuove e nuovi orizzonti. Ma la fine della pandemia ha prodotto il più grande tentativo di restaurazione della storia della pedagogia italiana: tentativo molto forte che sta producendo danni irreparabili ed esiti di apprendimento con molti elementi critici. A chi chiede un ritorno indietro (magati al 1967) bisogna rispondere che il ritorno c’è già ed è forte, ma trova qualche impedimento e l’intelligenza artificiale, nel campo umanistico, è uno di questi.

                  Molto spesso intellettuali, docenti e giornalisti irridono l’intelligenza artificiale perché fornisce risposte sbagliate. E’ balzato alle cronache mondiali un avvocato americano che ha citato in dibattimento sentenze inventate dall’intelligenza artificiale, che, successivamente interrogata sul motivo della sua trasmissione di dati falsi, ha chiarito  che aveva solo fatto un esempio tecnico di come si doveva strutturare una mozione che facesse riferimento a vecchie sentenze, che erano state inventate per meglio esemplificare. Tutti sostengono che la mente umane sia più profonda dell’intelligenza artificiale, anche se nessuno sostiene che è più veloce. Ma allora chiedo io: perché il libro di testo sì e l’intelligenza artificiale no? Visto che entrambi non vanno direttamente alla fonte se non in forma antologica o riassuntiva, non vanno direttamente sul testo ma lo selezionano antologizzandolo? Tra un riassunto manualistico e un riassunto dell’intelligenza artificiale c’è solo una differenza:   il manuale trasmette ciò che gli autori sanno mentre lo scrivono, l’intelligenza artificiale sa ciò che i suoi “gestori” in quel momento hanno immesso, e che cambia e si alimenta ogni giorno. Perché il riassunto del sapere posseduto dal soggetto che scrive il libro di testo vale più del sapere posseduto da un motore di ricerca o dall’elaborazione fatta in questo momento dall’intelligenza artificiale?

                  Il problema dell’apprendimento è stato messo a nudo da Chapt A.I.: se non si va direttamente al testo, si deve procedere per riassunti e tutti i riassunti, vanno rielaborati, analizzati, compresi, rifatti. Il problema si sposta dalla trasmissione del sapere riassunto all’elaborazioni di una argomentazione che poggia su un sapere conosciuto. Mi sfugge perché le scuole adottino manuali di storia e non semplicemente Wikipedia (facendo risparmiare un sacco di soli ai propri studenti), che in tempo reale, può portarci dentro l’argomento che in quel momento ci interessa. Non mi soffermo su una dato certo: i manuali contengono più errori di Wikipedia, infatti nessuno adotta il manuale nell’edizione del 1998, ma sempre quella del 2023 per il semplice motivo che quella del 1998 è un’edizione con troppi errori, imperfezione, cose superate. Che però sono state insegnate fino a poco prima. Chapt A.I. fa lo stesso: è un manuale a domanda, che interagisce col soggetto che fa le domande. Si tratta di passare dalla valutazione dell’elaborazione e della sua originalità, alla valutazione delle competenze di controllo e rielaborazione. Quindi lo studente non deve “ripetere”, ma deve rielaborare e argomentare imparando a citare correttamente la fonte.

                  Il passare dal sapere trasmesso al sapere costruito, dalla riscrittura o ripetizione del riassunto alla gestione argomentata del riassunto, dalla staticità delle informazioni ad informazioni in movimento, dai dati acquisiti ai dati cercati può essere aiutato e non poco dall’intelligenza artificiale. Allora forse è il momento di rimuovere la diffidenza verso la tecnologia per far comprendere agli insegnanti la tecnologia e il suo uso, dentro formazioni di senso e non procedure “fai da te”. Credo si debba riflettere su questo: l’intelligenza artificiale è un libro di testo che risponde solo alle domande che vengono fatte. Quindi bisogna insegnare a farle.

Ah, dimenticavo, poi ci sono i testi. La Critica della ragion pura di Kant non teme l’intelligenza artificiale. E’ stata scritta così e così va letta. E’ perfetta perché non c’è nulla da cambiare. Ma questa è, veramente, un’altra scuola.

Un tutor ogni due classi e un orientatore per 600 studenti: parte la prima riforma del ‘merito’ da Tuttoscuola (29/3/23)

Dall’anno prossimo, dunque, 40mila docenti, appositamente formati (già a partire dalle prossime settimane, secondo quanto prevede la bozza del decreto), svolgeranno funzione di tutor e altri 2.600 quella di orientatore.

“La prima fase riguarderà gli ultimi 3 anni di scuola superiori – ha dichiarato il ministro Valditara – e poi progressivamente saranno estesi alle scuole medie e al resto delle superiori, 8 anni complessivamente”.

Valditara ha spiegato la funzione della nuova figura tutoriale: “avrà un ruolo decisivo. Si tratta della prima pietra della rivoluzione del merito. Che prevede di tirar fuori i talenti che ogni ragazzo ha dentro di sé, valorizzare le abilità di ciascuno e non permettere che qualcuno rimanga indietro”.

“Questi tutor dovranno personalizzare il percorso formativo – ha precisato il ministro – e coordinare in una logica di team tutti gli altri docenti per far sì che la formazione del ragazzo sia sempre più aderente alle sue necessità”.

Per questa misura è stato previsto un iniziale stanziamento di 150 milioni di euro, destinati a remunerare le circa 40.000 figure di docente tutor a cui vanno ad aggiungersi quelle di docente orientatore, una per ogni istituto scolastico; saranno distribuiti nelle scuole in maniera proporzionale al numero degli studenti delle classi terze, quarte e quinte delle secondarie di secondo grado (anno scolastico 2023/2024).

Lo stanziamento di 150 milioni serve a valorizzare il merito degli studenti, ma non ha nulla a che fare con la carriera degli insegnanti, anche se quelle risorse finanziarie verranno distribuite a circa 42.600 professori di scuole secondarie di II grado: 40mila prof con funzione di tutor per 1,6 milione di studenti presenti in circa 74.500 classi dell’ultimo triennio delle superiori, e altri 2.620 docenti di orientamento assegnati ad altrettante istituzioni scolastiche della secondaria di II grado.

Mediamente un docente tutor dovrebbe operare su due classi con circa 43 studenti da seguire (comunque tra i 30 e i 50). Il docente orientatore (uno per istituzione) dovrebbe operare per l’orientamento in media di circa 600 studenti. Non pochi.

I due maggiori sindacati della scuola, la Cisl-scuola e la Flc-Cgil, hanno aperto una partita di credito verso il ministro: parliamone.

La Uil-scuola, invece, meno possibilista, ha provato a fare due conti e ha calcolato che la distribuzione dei compensi (che hanno natura accessoria) di quei 150 milioni – previsti entro il limite imposto dal decreto e dalla circolare, per i TUTOR da un minimo di 2.850 euro all’anno ad un massimo di 4.750 euro e per gli ORIENTATORI da un minimo di 1.500 euro ad un massimo di 2.000 euro – dovrebbero comportare un compenso di 16,50 euro lordi all’ora (7,34 netti) al docente tutor e 11,60 euro all’ora (5,16 netti) all’orientatore.


Stefano Stefanel/ Valutare uno studente e misurare un divario non sono la stessa cosa (Febb. 2023)

            Il dibattito sul merito è subito scivolato sul de-merito. È di questi giorni lo scambio mediatico sull’uso dei voti inferiori al quattro, che ha avuto nel Ministro Valditara uno dei suoi protagonisti. La questione del demerito e dei voti inferiori al quattro rientra in quella passione tutta italiana per la docimologia del negativo che sta letteralmente facendo cadere la questione del merito nella gabbia (non salariale, ma non meno divisiva di quella) del de-merito. I sistemi scolastici più evoluti, come quelli nordici, tendono a diminuire l’esistenza o l’impatto delle valutazioni negative, perché fortemente interessati a quelle positive. Ma anche i sistemi scolastici più selettivi (come quelli dell’estremo oriente asiatico) utilizzano strumenti misurativi per selezionare in ingresso e poi impongono standard di rendimento altissimo, che vedono le valutazioni negative come semplici elementi di blocco al prosieguo degli studi.

            Il sistema scolastico italiano invece si definisce inclusivo e ha come suo principale obiettivo la lotta alla dispersione scolastica, per cui non si comprende come la questione della docimologia del negativo venga posta in maniera così sommaria. Mi sfugge, cioè, come sia possibile pensare che uno studente in difficoltà riceva uno sprone a fare meglio da una serie 2 o di 3 dati con l’intento di punire incoraggiando, cioè creando un ossimoro valutativo-punitivo, che dovrebbe fare orrore a chiunque si occupi di pedagogia.

            Il dilemma potrebbe essere anche questo: in quanto sistema scolastico quello italiano è interessato alla pedagogia o invece è più propenso a sposare il meccanismo che verifica l’effettiva trasmissione del sapere dalla “testa ben piena” del docente alla “testa ben vuota” dello studente attraverso sistemi misurativi tutti autoreferenziali e tutti per loro natura con tendenza misurativa-punitiva? Il discorso sulla pedagogia si frange contro quello del disciplinarismo, che vede nella pedagogia un elemento di diluizione della disciplina entro metodologie meta-cognitive che allontanano dal risultato cognitivo, elemento necessario per ogni competenza disciplinare. Però se manca l’attenzione alla didattica e alla pedagogia dallo schema didattica trasmissiva/misurazione docimologica non si esce.

            Se proviamo a ribaltare la questione pedagogica una pratica interessante è certificare dopo attenta valutazione (non misurazione) se uno studente è in grado di essere valutato su un contenuto o su una abilità o anche su una competenza. Se voglio assegnare un compito sulle frazioni o sulle derivate (in base all’ordine di scuola) dovrei prima accertarmi se lo studente ha compreso il concetto di frazione e le potenziali operazioni connesse o se ha compreso come ci si muove nelle derivate. Altrimenti lo studente consegnerà il compito in bianco o cercherà di copiare. Questa certificazione in ingresso impone un’analisi attenta del processo di apprendimento degli studenti al fine della valutazione, non dopo la valutazione. Invece questa certificazione viene effettuata  attraverso un passaggio semplice empirico privo di alcun valore scientifico: dato che l’insegnante ha spiegato le frazioni o le derivate questo costituisce di per sé elemento d’accesso alla verifica e quindi alla valutazione sulle frazioni o sulle derivate. Io ci vedo un salto poco logico, ma forse perché mi occupo troppo di pedagogia e poco di discipline.

            Nell’ambito di questa impostazione misurativo/valutativo ecco che allora diventa logico accanirsi sulla docimologia del negativo, quella docimologia in cui il 3 è meglio del 2,5 e il 4/5 è peggio del 5. Se noi applicassimo questa mentalità – molto gettonata a livello scolastico e a questo punto anche ministeriale – ad esempio al salto in lungo avremmo giudici che perdono un sacco di tempo a misurare salti di atleti che non hanno raggiunto la sabbia con misure ridicole e inutili. Nel salto in lungo se il salto non è di almeno 3 metri non lo si misura, mentre nelle scuole italiane se il compito vale meno dui 5 è tutta un gran misurazione in basso. Qualcuno dirà: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.

            Al di là delle paradossalità tutto questo confluisce verso un meccanismo perverso di raccordo tra misurazione e valutazione. La valutazione molto negativa (quella di cui si è parlato, sotto il 4) se è una vera descrizione di livello e viene inserita in una media matematica non è migliorabile. Se il livello dello studente è 2 o 3 quello studente non sarà mai in grado di prendere 8 e 9 per bilanciare la media (un’insegnante mi ha detto: difficilmente sarà in grado anche di prendere 6) e quindi una misurazione molto bassa che fa media impedisce il recupero. Se invece la valutazione molto bassa non fa media ma è solo la misurazione di una pessima prova o la punizione allora non si comprende perché venga data e a cosa serve, visto che un semplice 6 è in grado di cancellarla. Devo tornare al salto in lungo, purtroppo: pensate a una giuria fortemente impegnata a misurare i salti che non hanno raggiunto i tre metri e che quindi vanno misurati in pedana e non sulla sabbia e che sono più lunghi da rubricare, e che dica che comunque tutti quelli che saltano più di sette metri sono eccellenti e quindi vincono la gara a pari merito. Quella giuria verrebbe presa per una congrega di pazzi e tutti direbbero che non sono interessati alle misure basse, ma solo a quelle alte, che devono essere precise al millimetro, perché si vince il campionato del mondo o l’olimpiade anche per un centimetro o addirittura per meno. O pensate allo sci dove i migliori si devono misurare in forma elettronica, mentre i meno bravi si potrebbero misurare con un cronometro a mano. Si dirà ancora: ma la scuola non è il salto in lungo o lo sci. Ovviamente, purtroppo.

            L’idea che la docimologia del negativo sprone al miglioramento si frange sui dati della dispersione italiana (ancora altissima) e sull’abbandono che conduce verso i due milioni di NEET, cioè dei giovani che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano e sono tutti passati dalle nostre scuole. La docimologia del negativo ha una semplice conseguenza: se lo studente è bravo e ottiene buoni risultati è merito dei docenti e della scuola, se i suoi risultati sono negativi è de-merito suo o della famiglia, o del web, o della società, o del degrado dei costumi. Diciamo che la scuola come tutti vuole privatizzare i profitti (buoni esiti merito nostro) e pubblicizzare le perdite (cattivi esiti de-merito degli altri).

            In questa oggettiva confusione pedagogica si apre il grande problema del PNRR-Divari territoriali, del PNRR-Next Generation Labs e del PNRR Next Generation Classroom. Dal punto di vista misurativo-valutativo gli esiti di questa enorme operazione solla scuola verranno verificati sulle presenze ai corsi, sugli acquisti effettuati dalle scuole e non sulla diminuzione dei divari e quindi sulla riduzione della dispersione. Anche in questo caso si da per scontato che il semplice accesso ad un servizio o ad un’attività produca di per sé un esito positivo in uscita. In realtà non può essere così, perché la differenza le faranno i singoli percorsi e il loro valore pedagogico. E lo faranno anche gli acquisti se messi a sistema con una nuova pedagogia.

In realtà mi sembra che molta scuola italiana sia molto concentrata sul merito che si misura in base al de-merito (cioè tutto quello che non è de-merito è merito, quindi tutti i salti dai tre metri in su sono “meritevoli”) e non mi pare ci si stia rendendo conto che una Ri-Generazione della scuola (terminologia ministeriale) parte solamente dall’idea che la scuola vada rigenerata, perché altrimenti continua a De-Generare. Se devo Ri-Generare qualcosa vuol dire che sta De-Generando, quindi una qualche idea sulla pedagogica come elemento di eliminazione o diminuzione dei divari ci dovrebbe essere. In realtà poiché noi valutiamo misurando (per lo più con una gioiosa attenzione al negativo) la pedagogia ci fa un po’ paura, perché a differenza della trasmissione impone che colui che insegna sia più interessato a quello che gli studenti apprendono piuttosto che a quello che gli studenti ascoltano.

            Diciamo che se la mia squadra di salto in lungo fa troppi salti nulli devo allenarli meglio, non misurarli con ossessione sotto i tre metri. E devo cambiare qualcosa perché altrimenti sono costretto ad abbassare a due metri la base di misurazione. Anche qui c’è un’obiezione: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.  

Due parole, d’estate di Stefano Stefanel (24/7/22)

L’estate porta sempre con sé il dibattito sui risultati Invalsi e sugli esiti degli esami di stato facendo emergere l’inesistente cultura della valutazione italiana propria dell’opinione pubblica e di troppe componenti della scuola. Inoltre l’estate fa emergere anche la stucchevole polemiche sulle competenze, sui voti alti, sulla scuola figlia e vittima del sessantotto. Il tutto visionato da un punto di vista solo liceale, con commentatori che boccerebbero tutti gli studenti che non scelgono di studiare a fondo greco e latino. Poiché, però, l’indignazione non serve a nulla provo qui con “due parole”, ammesso che queste, invece, possano servire in una società e in un mondo che brucia tutto con la velocità di Instagram

Con grande voluttà e gran spregio del senso del ridicolo vengono messe in estate in correlazione alcune considerazioniche nascono da contesti diversi:

– i dati Invalsi fotografano un sud in ritardo rispetto al nord e mostrano i dati Invalsi in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa;

– all’esame finale del secondo ciclo (che qualcuno ancora si ostina a chiamare “maturità” anche se con la maturità delle persone con c’entra nulla) non viene bocciato nessuno o quasi;

– al sud fioccano 100 e 100 e lode in controtendenza rispetto ai risultati Invalsi.

Alcuni colleghi dirigenti del nord (con una certa malcelata tendenza allo sciacallaggio) si buttano estivamente sui dati per rimarcare la serietà delle scuole del nord di fronte alla leggerezza di quelle del sud. Le scuole del sud, per lo più compostamente, si sottraggono a questo dibattito estivo e poi tutto torna come prima. 

Dal punto di vista scientifico (che non interessa praticamente a nessuno) la commistione di questi dati è assurda: al sud ci sono molti studenti molto bravi che giustamente sono licenziati con voti molti alti. Cosa c’entra tutto questo coi dati Invalsi negativi per il sud? I 100 e 100 e lode mica vengono assegnati agli studenti deboli o debolissimi: quelli al massimo escono dall’esame di stato con 60 o 61, al nord come al sud. La cosa, inoltre, che fa inorridire è che l’argomento è “brandito” da commentatori per lo più in pensione che conoscono la scuola italiana perché sessant’anni fa l’hanno frequentata, o da dirigenti che di solito guidano licei del nord di prestigio frequentati dai migliori studenti in circolazione. Questa caotica sovrapposizione di dati, che non c’entrano tra loro, viene poi trasformata in autorevoli opinioni e tutto non può che fermarsi lì.

Se proprio vogliamo incrociare i due dati sarebbe interessante sapere quanti studenti sia al nord che al sud con valutazioni basse nell’Invalsi hanno preso 100 o 100 e lode all’esame di stato. Non conosco questi dati ma propendo per lo zero per cento o poco più. Se ho ragione allora chiedo di cosa si parla? Confrontare i dati deboli di un sistema scolastico con gli esiti dei migliori studenti dello stesso sistema è segno di una grande incompetenza valutativa, ma anche di smemoratezze assolute: a cominciare da quella basilare che ci fa individuare sempre e dovunque e facilmente il “migliore della classe”. Se una classe è debole al migliore diamo voti bassi o quelli che si merita? L’esame di stato è dentro la stessa logica: se uno è bravo deve avere il voto alto anche se il contesto in cui studia è modesto.

Decisamente autolesionista è poi la manifestata voluttà con cui molti esprimono il desiderio che all’esame di stato ci siano bocciati. Gli stessi, però, non desidererebbero mai che ci fossero bocciati alle tesi di laurea, perché la fine di un percorso lungo deve essere accompagnata, non messa davanti ad una prova concorsuale. Anche perché abbiamo la dispersione scolastica (leggi soprattutto bocciature) più alta d’Europa. Magari qualche bocciato in più potrebbe esserci, invece, nei concorsi a cattedra, dove partecipano solo i laureati e dove molti commissari sono professori universitari. Ma questo è un altro discorso.

C’è poi, sempre attiva ma d’estate un po’ di più, la critica al lassismo, ai voti alti, alle competenze da eliminare a favore delle vecchie e amate conoscenze, alla lotta contro le “non cognitive skills”, anche se tutte le aziende e tutta la società della conoscenza quelle cercano dentro un sistema ordinato di “cognitive skills” (che molto spesso sono trascurate proprio dalle università da cui vengono i commentatori più appassionati del sapere trasmissivo, cartaceo, statico).

Le competenze sono nient’altro che il saper utilizzare conoscenze e abilità in ogni contesto e non solo in quello scolastico. Una competenza si poggia sempre su conoscenze e non esiste mai in senso generico. Non si può però valutare una competenza con compiti e interrogazioni standard, perché la sua valutazione è più complessa. Questa idea del “docente trasmettitore” che imbonisce le piccole folle a lui assegnate come un muezzin, forte di una cultura tradizionale, statica e ben definita è alla base della disastrosa situazione italiana (non solo scolastica) dove tutti vogliono parlare e nessuno vuole ascoltare. Abbiamo tanti conferenzieri e pochi pedagogisti, abbiamo tanti che proclamano e declamano e molti di meno che sanno insegnare. Quando poi si valuta tutto cade nel grigio in cui ogni colore si confonde: si valuta, di solito, attraverso misurazioni standard (compiti e interrogazioni) autodefinite dal docente che poi misura decidendo la scala numerica e che e trasforma i voti attraverso le medie in valutazioni. Percorso completamente sbagliato che limita la conoscenza dei progressi dei migliori, ripete all’infinito le performance dei medi e affossa quelli in difficoltà, che con questi metodi di valutazione sono nella stessa situazione di chi, non sapendo nuotare, viene gettato in acqua con addosso uno zaino di sassi.

Circola poi anche la “malsana” idea che per gli studenti in difficoltà sia necessario far più scuola e non migliorare gli strumenti pedagogici e selezionare i saperi da insegnare, come se il soggetto più debole potesse essere aiutato dall’aumento di carico (quando ero alpino se un mulo era “debole” si diminuiva il suo carico, non lo si aumentava: così, per dire). In questo ci mette del suo anche l’Invalsi che misura i ritardi in periodi (“in certe zone del paese si è indietro di un anno”, ecc.), senza mai curarsi del problema principale, che non è quanto si sta a scuola, ma come si sta a scuola, che non è quanto si studia ma come si studia. Parole al vento, lo so, legate all’altro grande equivoco su cui nessuno vuole mai entrare: i docenti con le loro metodologie ottengono con la gran maggioranza degli studenti risultati sufficienti, buoni o ottimi. Le stesse metodologie con una parte degli studenti producono risultati pessimi. Si assiste però a questa considerazione: se lo studente va bene a scuola è merito del docente, se va male è demerito dello studente. Vecchio vizio italiano: privatizzare i ricavi e socializzare le perdite. Forse sarebbe il caso di capire che le metodologie vincenti per la maggioranza sono spesso quelle che distruggono le potenzialità di apprendimento di una parte di studenti. Quando si parla di personalizzazione nessuno sa bene di cosa si sta parlando e troppi sono legati all’idea della lezione privata. Se però si affacciasse in qualcuno il dubbio per cui è il “mio” metodo che porta sia in alto che in basso, allora forse si comincerebbe a parlare di pedagogia, lasciando perdere l’enfasi sugli errori degli studenti e cominciando seriamente a cercare di correggerli.

Da questo punto di vista va letta la decisione ministeriale di far cadere su molte scuole 500 milioni di euro (con assegnazioni di circa 250.000 euro a scuola), basandosi in modo piuttosto oscuro sui dati Invalsi e sui dati della dispersione. Se alle scuole che hanno “prodotto” dispersione con metodologie didattiche e valutative sbagliate si danno tanti soldi chi dice che non perpetreranno ulteriori errori aumentando e non diminuendo la dispersione? Perché i soldi non sono vincolati ad un controllo tutto esterno degli esiti e delle situazioni di partenza? Perché chi boccia più studenti deve avere più soldi se non ha mai messo in campo alcuna metodologi attiva e verificabile per diminuire le bocciature?

Qui si annida l’idea italiana che le bocciature (dei figli degli altri ovviamente) siano una buona cosa e che chi non studia non debba andare avanti, senza mai chiedersi perché costui non studia e non si impegna, e perché non ascolta rapito le conferenze di conferenzieri che non troverebbero uno spettatore se si mettessero sul mercato. Direi che è ora di finirla con la pedagogia svilita a conferenza trasmessa in diretta e che si debba andare a fondo del problema degli apprendimenti e del problema ancor maggiore della loro valutazione, senza inventarsi soluzioni progettuali che non esistono, ma analizzando studente per studente i motivi dei suoi fallimenti.

Il volto gesuitico dei voti di Giovanni Fioravanti (edscuola, 21/11/22)

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni. 

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria. Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo. A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?” E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale. Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare. Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento. I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca. L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito? È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione. Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico. La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza. Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti. No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente. Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento. La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza. Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi.  Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi. Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo. Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti. Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare.

IL TRISTE SOVIET DEI PROF (Antonio Gurrado, il Foglio, 26/8/22) Come Platone voleva i filosofi al governo, gli insegnanti vogliono al governo gli insegnanti. O, quanto meno, desiderano che chi vincerà le elezioni tenga a mente le proposte che i gruppi organizzati di docenti esprimono sotto la gettonata forma di decalogo – ma c’è anche chi si spinge al tridecalogo e al pentadecalogo. Si tratta di documenti che hanno poca o nessuna ricaduta comunicativa di massa ma che circolano con vigore su canali specializzati, i siti che i docenti compulsano in queste settimane prescolastiche di assegnazioni provvisorie, decadenza delle misure anti Covid, definizione dell’organico di fatto, domande per la messa a disposizione e roulette russa delle supplenze. Li firmano sindacati di settore come Gilda e Anief, associazioni con diciture criptiche come Agorà 33, network dalle ambiziose iniziali maiuscole come Regolarità e Trasparenza nella Scuola, per brevità RTS.

Pur nelle inevitabili difformità specifiche, emerge netta l’impressione che, se solo governassero gli insegnanti, essere insegnanti sarebbe bellissimo. Nella scuola ideale vagheggiata dalle varie sigle – una scuola che riceve sull’unghia finanziamenti per ulteriori dieci miliardi di euro o incrementi di un punto percentuale del pil – gli insegnanti godono di un contratto specifico che li distingue dagli altri statali, guadagnano cinquecento euro netti in più al mese (RTS, forse per l’emozione del vertiginoso aumento, parla di “500 euro nette”), ottengono una quattordicesima per ciascun figlio minorenne a carico, vengono sollevati dal carico burocratico, non devono sottoporsi ad aggiornamento e comunque solo in orario retribuito, usufruiscono di un anno sabbatico ogni dieci anni, riscattano gratuitamente gli anni di università, lavorano nove ore a settimana raggiunti i sessantadue anni d’età e possono decidere di andare in pensione poco dopo, quando preferiscono e senza decurtazioni rispetto al termine massimo, lavorando di fatto negli ultimi anni solo se hanno voglia di fare un favore allo stato.

Alcune proposte sembrano de minimis – come il ritorno del vicepreside scelto dai colleghi, anziché nominato dal dirigente, oppure l’elezione di un presidente del Collegio docenti – ma nascondono un risentimento più profondo e sottaciuto, tutto volto a limitare la libertà d’azione della dirigenza scolastica e con essa l’eventualità che l’insegnamento venga valutato in termini di risultati concreti. Agorà parla infatti del “superamento di un apparato para-aziendalistico del tutto incongruente rispetto alla natura e agli scopi dell’istruzione pubblica”; Gilda dedica il più lungo comandamento del suo decalogo alla “revisione del sistema dell’autonomia delle scuole in una visione non aziendalistica delle Istituzioni scolastiche”, facile a tradursi in sostanziale immobilismo. Si va dal grande classico della stabilizzazione del precariato all’istituzione di “un organico di istituto funzionale, stabile, di durata pari al corso di studi”, che garantisca continuità didattica mantenendo immutato il corpo docente; per poi culminare nel “riconoscimento dell’anzianità di servizio quale elemento fondamentale della carriera dei docenti”, come a dire che basta respirare e buonanotte al giudizio sulla qualità.

Non a caso l’abolizione dell’Invalsi – e delle sue malviste prove valutate secondo criteri oggettivi su scala nazionale – si trova a chiare lettere nei manifesti di RTS e Agorà. Ma è solo parte di una smania abolizionista che percorre i punti dei vari manifesti. Va abolita l’autonomia scolastica. Va abolito il Pcto, reincarnazione dell’alternanza scuola-lavoro. Va abolita in tronco la Buona Scuola, stralciando solo la Carta del docente, il cui valore va invece raddoppiato da cinquecento a mille euro. Va abolita anche la Scuola di Alta Formazione degli insegnanti prevista dal Pnrr, conseguendo l’ammirevole record di bocciarla prima ancora che venga indetta.

Certo, qualche proposta interessante affiora qua e là in questi volantini che mescolano cahiers de doléances e proiezioni ipnagogiche: l’incremento del numero di ore curricolari per potenziare l’insegnamento delle discipline di base, il ripristino della commissione esterna alla Maturità, ovviamente l’investimento nell’edilizia scolastica che consentirebbe di aumentare le aule riducendo l’affollamento delle classi, e magari anche un’indennità di trasferta per i supplenti che vengono scaraventati lontanissimo da dove abitano. Principale scopo di tali manifesti sembra tuttavia essere proprio rafforzare nei docenti di ogni grado la consapevolezza di sentirsi categoria vessata, illudersi di esercitare un ricatto morale sull’élite politica (RTS invita espressamente a non votare i partiti che non adottano il suo decalogo) ed esortare gli insegnanti a far fronte comune: tutti insieme, quasi settecentomila, spostano circa il 2 per cento dei voti.

Sarà forse per questo che, insistendo sul valore dell’istituzione scolastica come “organo costituzionale della democrazia”, Agorà propone di porre gli insegnanti al riparo da qualsiasi critica, sotto forma di un “codice deontologico per tutti coloro che si occupano di scuola a livello dirigenziale, amministrativo, politico” che “imponga il rispetto della professionalità dei docenti e la tutela della loro immagine pubblica”. Ingolositi dal solo immaginarsi al potere, gli insegnanti non resistono alla tentazione di eliminare una volta per tutte il rischio di sentirsi apostrofare come poco qualificati, refrattari alla valutazione, iper sindacalizzati e privilegiati. Se gli insegnanti governassero, un insegnante non avrebbe mai potuto scrivere quest’articolo.

SCUOLA, QUANTO GUADAGNA UN INSEGNANTE (Andrea Gavosto, 14/8/22) ) La proposta del Pd di adeguare la retribuzione degli insegnanti a livelli europei e il lungo stallo fra governo e sindacati sul nuovo contratto di lavoro hanno riproposto il tema di quanto guadagna chi insegna in Italia. È una questione non più rinviabile: una retribuzione adeguata è, infatti, un incentivo necessario per migliorare la qualità della nostra scuola e per attrarre i migliori laureati in una professione così decisiva per il futuro dei giovani e del Paese. Tuttavia, per evitare derive populiste, che non mancano mai sotto elezioni, servono alcuni punti fermi.

I recenti dati Eurydice, anticipati da Repubblica, dicono che la retribuzione media degli insegnanti italiani (intorno a 30.000 euro lordi all’anno) è bassa in assoluto, circa il 70% di un generico laureato. È anche inferiore al resto d’Europa: a inizio carriera un docente delle superiori guadagna 26.000 euro, poco meno di un collega francese, molto meno di uno spagnolo (35.000), di uno scandinavo (40.000) e, soprattutto, di un tedesco (60.000). La forbice si restringe tenendo conto delle differenze nel costo della vita, ma resta molto ampia.

In Italia, inoltre, le retribuzioni crescono poco lungo l’arco della vita lavorativa: arrivano a circa 40.000 euro a fine carriera, e solo per effetto dell’anzianità. Altrove sono previste progressioni significative, che in genere dipendono non dall’anzianità, ma dalle competenze, dall’impegno, dall’aggiornamento professionale, dalla disponibilità e capacità di assumersi maggiori responsabilità nella scuola o di lavorare nelle situazioni più difficili.

Infine – caso quasi unico in Europa – nel contratto dei nostri insegnanti si considerano in pratica solo le ore di lezione. Che, ad esempio, per un professore delle superiori sono 18 alla settimana: a queste il contratto di lavoro aggiunge un forfait di altre 80 ore nel corso dell’anno lavorativo (quindi circa 2 alla settimana) prevalentemente per attività di programmazione e partecipazione alle riunioni. La preparazione delle lezioni, la correzione degli elaborati, il feedback agli studenti e tante altre attività non strettamente di lezione, ma decisive per l’efficacia dell’insegnamento, non sono incluse nel contratto. Sia ben chiaro: ciò non vuol dire che non siano svolte, ma che sono lasciate al senso del dovere del singolo

Tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare (dati Ocse Talis) 26 ore alla settimana, contro una media europea di 33 ore. Di sicuro, l’insegnante coscienzioso ne fa ben di più, ma siamo certi che non ci sia chi si limita al minimo sforzo, senza che preside, colleghi o famiglie possano lamentarsene? Nel resto d’Europa, queste attività sono disciplinate da contratto e svolte in genere a scuola, con un impegno lavorativo settimanale di fatto a tempo pieno (35 ore in Francia, 38 in Spagna, 40 in Germania).

Da decenni, in Italia si è scelto di fare entrare un numero elevato di laureati nella scuola in cambio di retribuzioni basse, nessun riconoscimento del maggior o minor impegno, assenza di formazione professionale e una certa tolleranza di pratiche come le ripetizioni in nero. Non stupisce se oggi si fatica ad attirare i migliori talenti, soprattutto nelle materie scientifiche.

Questa logica di dare poco e chiedere poco va ribaltata. I nostri insegnanti dovrebbero ricevere salari europei e lavorare secondo orari europei: trascorrendo più ore a scuola (in spazi che vanno adeguati e resi più ospitali) a svolgere le attività che permetterebbero di migliorare la qualità degli apprendimenti, in Italia così deficitaria. Inoltre, le retribuzioni dovrebbero crescere significativamente non per effetto dell’anzianità, ma man mano che crescono le responsabilità didattiche od organizzative.

D’ora in poi tutte le bocciature potranno essere invalidate, dice il Tar Puglia (di Antonio Gurrado) La sentenza del Tar della Puglia, che ha sospeso la bocciatura di una bambina di seconda elementare, è giusta ed è sbagliata.  E’ giusta poiché si attiene alla lettera della legge, come spiegano le motivazioni: nella scuola primaria un alunno può non essere ammesso alla classe successiva solo in circostanze “eccezionali” e “comprovate da specifica motivazione”. Sulla pagella della piccola, almeno a quanto si legge sui giornali, è invece scritto che la bambina, pur integrata nel gruppo classe e rispettosa degli altri, è caratterizzata da “impegno limitato”, “interesse selettivo”, “partecipazione discontinua”, “ripetute assenze” e “preparazione lacunosa”. Sono circostanze sconfortanti ma indubbiamente non eccezionali, e il consiglio di classe non ha evidenziato nessuna specifica motivazione oltre allo scarso rendimento. Quindi, a livello di carte bollate, la bocciatura è da invalidare.

L’articolo finirebbe qui se la scuola fosse soltanto una macchina burocratica. Eppure non lo è, nonostante gli sforzi congiunti di ministri, provveditori, dirigenti, insegnanti, personale, studenti e genitori. Se si legge il ricorso presentato dalla famiglia della bambina, si nota che qualcosa non torna. La richiesta di annullamento si basa su tre istanze: i genitori hanno affiancato alla bambina un insegnante di supporto per i compiti a casa, come richiesto dai maestri, e secondo lui la bambina se la cavava bene; i genitori non sono stati messi al corrente del rischio di bocciatura con congruo anticipo; col giudizio complessivamente negativo stridono singole materie che riportano risultati “base” o “in via di prima acquisizione”. A ciò si aggiunge il fatto che la bambina soffra di una forma d’asma e che la bocciatura, trascrivo l’ineffabile argomentazione del Tar, costituisca “un’esperienza traumatica” tale da “danneggiare l’autostima della minore e incrinare il rapporto di fiducia nei confronti dell’istituzione scolastica”.

Dalle istanze dei genitori, su cui il Tar ha fatto leva, traspare un modello di scuola in cui il giudizio del consiglio di classe vale tanto quanto quello degli insegnanti privati che danno ripetizioni; in cui il compito del docente non risiede nel valutare l’alunno bensì nel farsi messo delle valutazioni alla famiglia, pena l’invalidazione; e in cui essere appena sufficiente in alcune materie e insufficiente nelle altre deve equivalere, de iure et de facto, ad avere conseguito buoni risultati dappertutto. Quello avallato dal Tar è dunque un modello di istruzione asserragliato nell’eufemismo e nel cavillo, e toglie specificità alla scuola equiparandone la credibilità didattica a quella delle famiglie e dei loro precettori.

Sarebbe facile ironizzare sull’idea che la bocciatura a sette anni possa costituire un trauma insormontabile; sarebbe facile dire che chissà se il Tar della Puglia sarà lì nel 2029, quando la ragazzina perderà una partita di pallavolo, nel 2034, quando sarà mollata dal fidanzato, nel 2045, quando non otterrà il lavoro dei suoi sogni. Toglierebbe luce al passaggio davvero traumatizzante della sentenza, quello per cui la bocciatura implicherebbe la perdita di fiducia nei confronti della scuola come istituzione. In termini di precedenti giuridici, è il punto più preoccupante: implica sottilmente che la fiducia nei confronti di un’istituzione sia determinata dalla soddisfazione che se ne trae. I giudici non hanno pensato che, quando emaneranno una sentenza nei confronti di qualcuno, dovranno assolverlo per forza; altrimenti, una condanna minerebbe la fiducia nei confronti delle istituzioni giudiziarie.

Resta, certo, che tecnicamente la sentenza regge. Le circostanze eccezionali non ci sono, le specifiche motivazioni nemmeno. E’ anche però il primo sassolino di una valanga per cui, d’ora in poi, nessuna bocciatura avrà circostanze abbastanza eccezionali o motivazioni abbastanza specifiche da non poter essere invalidata. Ed è questo, in fondo, a renderla una giusta sentenza intrinsecamente sbagliata.

Il futuro possibile secondo Damiano Previtali di STEFANO STEFANEL

I grandi investimenti, e con essi l’approccio economico del ricavo immediato e della sua quantificazione, richiedono risultati a breve termine, mentre l’approccio educativo, come risaputo, necessita di tempi lunghi, in alcuni casi di ricambi generazionali.”Basterebbe questa frase, che fotografa perfettamente la difficoltà di riformare il sistema scolastico italiano, per dedicarsi alla lettura di “La scuola mediterranea” di Damiano Previtali, uscito da pochi giorni per l’editore Il Mulino. Damiano Previtali è un dirigente scolastico attualmente in forza al Ministero dell’Istruzione dove dirige l’Ufficio Valutazione del sistema nazionale di istruzione e valutazione. È un grande conoscitore di scuola, ma è anche un grande appassionato della scuola e del suo complicato sistema organizzativo. Uno dei più grossi passi avanti fatti dalla scuola italiana nell’ultimo periodo è stato quello di dotarsi di un coerente e completo Sistema Nazionale di Valutazione, che pur generalmente osteggiato in maniera pretestuosa e poco convincente, comunque ha dato un taglio nuovo alla progettazione generale di sistema, alla valutazione, alla rendicontazione. Come a tutti noto, il Sistema Nazionale di Valutazione è stato pensato e organizzato proprio da Damiano Previtali.

Scoprire un Damiano Previtali ottimista dentro il grande pessimismo dei dati in nostro possesso aiuta a comprendere come le letture del sistema scolastico italiano possano avere molti lati e molti punti di vista. Il Sistema Nazionale di Valutazione così come l’Invalsi, così come le indagini internazionali ci trasmettono dati che sconsigliano di continuare nella strada che stiamo percorrendo. L’osservazione di quanto sta avvenendo invece dice che il sistema scolastico italiano non solo non intende cambiare, ma è fortemente orientato verso la piena restaurazione di quanto già in crisi prima della pandemia. Alla base del pensiero di Previtali c’è un’idea “mediterranea” di scuola, dentro un profondo realismo che gli fa definire come assolutamente insensata questa corsa folle ad una parificazione nazionale tra contesti diversi. La corsa del Sud per raggiungere il Nord e quella del Nord per diventare ancora più competitivo si dimostrano chimere prive di valore, dentro obiettivi sempre irraggiungibili e sempre nascosti dentro dati letti in forma molto personale e mai condivisa. Il concetto viene espresso in forma molto chiara da Previtali: “le situazioni di svantaggio sociale non favoriscono i prerequisiti perl’apprendimento scolastico: proprio per questi motivi dobbiamo dotare le scuole, insediate in questi contesti, delle migliori risorse, mentre purtroppo avviene l’inverso.” Tutto questo lo si è vistochiaramente nelle modalità con cui sono stati attuati i Progetti PON, che hanno privilegiato le scuole più forti, con segreterie efficienti, docenti motivati, mezzi a disposizione e collaborazione degli enti locali, che da “ricche” sono diventate ancora “più ricche”, mentre le scuole che più avrebbero avuto bisogni di queifondi hanno arrancato accumulando ritardi e rinunce.

Nel libro di Previtali il rapporto tra dato noto a tutti e sua lettura costituisce la spina dorsale del ragionamento e ciò permette di smascherare quanto di falso viene fatto circolare presso l’opinione pubblica. D’altronde tutto questo è suffragato da un’evidenza molto banale: tutti dicono e tutti spiegano che il sistema scolastico italiano è in difficoltà, che abbiamo la più alta dispersione scolastica d’Europa, che due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, che la scuola ha cessato di essere “ascensore sociale”, ma è impossibile trovare una scuola (dico una) che non magnifichi sé stessa e i suoi risultati. C’è qualcosa che non va: il sistema è in crisi, ma le 8.000 autonomie scolastiche godono di ottima salute. Tutti (anche chi scrive) trasmettiamo i nostri dati e i nostri progetti all’opinione pubblica certi di fare bene e correttamente il nostro lavoro, cerchiamo prospettive di lungo periodo, ma ci accasciamo sui problemi quotidiani. Siamo tutti convinti, insomma, che, se il sistema non funziona, è colpa di qualcun altro. Come scrive Previtali: “Ne consegue una governance paralizzata dal quotidiano senza attenzione ai processi innovativi in atto.” Dirò anche qualcosa di più: l’innovazione è vista con sospetto e interesse, come un qualcosa che si attiverà quando ci sarà tempo, ben sapendo che il tempo non ci sarà mai. Così gli innovatori vengono guardati con poca comprensione perché sono fuori da quel mondo quotidiano che fa privilegiare un mantenimento dello status quo, non per scelta, ma per necessità. Tutto questo sembrava dovesse dissolversi con la pandemia e la grande innovazione didattica, digitale ed ecologica portata dagli eventi e non dalla ricerca, ma, invece, l’uscita dalla pandemia ha solo portato un grande desiderio di riportare indietro le lancette (neppure, però al 2019, ma direi addirittura al 1999).

Dunque un disastro senza prospettiva? Niente di tutto questo: in Previtali c’è un sano realismo collegato ad un ottimismo di prospettiva molto chiaro e ben argomentato. È necessario agire su una reale revisione della didattica e degli obiettivi, per comprendere come il trasferimento dal “pieno” (la mente dell’insegnante) al “vuoto” (la testa dello studente”) non ha alcuna possibilità di produrre alcunché di utile e al passo con le esigenze dei tempi. Previtali invita a dare alle cose il loro giusto valore: le nozioni sono nozioni, le informazioni sono informazioni ma la loro trasformazione in conoscenze come base di competenze durature necessita di un processo didattico complesso, ma non complicato, quindi richiede l’uscita da schemi ormai obsoleti che producono noia e deboli risultati. Previtali indica la strada di una scuola mediterranea ed attiva, che parta dal nostro essere Italia, che conosca il mondo ma non necessariamente voglia somigliare a lui. Chiede un attivismo diverso, una progettualità calata sull’alunno, una personalizzazione fortissima, che permetta ad ognuno di raggiungere gli obiettivi che sono alla sua portata. “Nelle scuole permane il problema del passaggio dal piano di studi generale (collegato all’indirizzo) al piano di studi personalizzato (collegato al singolo studente)”: da qui si deve partire, da una revisione del rapporto didattico per calare la progettualità sulle esigenze e le possibilità dello studente e non su quelle delle discipline così come si sono formate nel secolo scorso. Per fare questo abbiamo bisogno di nuova conoscenza di soggetti poco esplorati dalla scuola, ma ormai diventati preponderanti: la scuola come organizzazione a legami deboli di cui parlava Piero Romei, la scuola come idea di comunità su cui si è sempre speso Giancarlo Cerini, la scuola come raccordo con la realtà e luogo in cui quella realtà viene conosciuta e letta, senza alcuna disconnessione tra le cognitive skills e le non cognitive skills.

Se mi si chiedesse se “La scuola mediterranea” è un bel libro risponderei che più che bello è un libro proprio necessario. Indica quello che dobbiamo fare e indica anche da dove iniziare per capire bene qual è la strada da prendere. “L’utilizzo dei dati rischia di avallare le rappresentazioni sociali diffuse, ma l’ignoranza sui dati rischia di non considerare le differenze dove le differenze esistono.” Dobbiamo essere realisti e capire che il nostro sistema scolastico è legato alla nostra storia, ma anche ottimisti per combattere il pessimismo aggressivo di chi invita a non farsi imbrogliare dalle idee innovative, perché il vero cambiamento è non cambiare mai nulla. Un bel libro, speriamo per un bel futuro.

ANTONIO GURRADO (30/6/22, il Foglio) Che cosa ci insegnano della scuola italiana gli errori nelle tracce del concorso per prof.

E’ stato un po’ come nella celebre scena di “Io e Annie”. In fila per il cinema, Woody Allen sente un accademico pontificare su Marshall McLuhan finché non sbuca Marshall McLuhan in persona, il quale rimbrotta il finto esperto dandogli dell’incompetente. Lo stesso è capitato al ministero dell’Istruzione, che qualche giorno fa ha ricevuto una pec da Howard Gardner: lo psicologo statunitense faceva presente, to whom it may concern, che la domanda del concorso docenti relativa alla sua definizione di intelligenza era posta in forma inappropriata, quindi nessuna delle quattro risposte possibili era corretta.

Si tratta solo di uno dei numerosi inciampi – se ne scoprono sempre più – in cui è incorso il ministero preparando le famigerate domande a crocette per il concorso con cui selezionare i nuovi insegnanti di ruolo. Massimo Arcangeli, che insegna all’Università di Cagliari ed è un puntiglioso se non eroico giudice dell’utilizzo della lingua italiana, ha iniziato a segnalare i più inaccettabili strafalcioni nei quesiti (incluso un “qual’è” con l’apostrofo) fino a creare un corposo dossier che ora presenta all’attenzione di whom it may concern, unitamente a un appello a che il ministero riconosca “gli errori commessi nella formulazione di quesiti inaffidabili e provveda a ridefinire i punteggi dei candidati”.

Fermo restando che la fallibilità caratterizza la specie umana perfino fra i funzionari ministeriali – e che una percentuale comunque limitata di svarioni non basta a giustificare il basso livello di alcuni candidati – la stratificazione degli errori nei quesiti del concorso ci insegna molte cose riguardo alla scuola italiana. Possiamo catalogarli in quattro macrocategorie. Le risposte multiple espresse in termini ambigui e fuorvianti. Le risposte errate (o immaginarie, come il “parallelogramma esagonale” che ha fatto impazzire il web) indicate dal ministero come corrette. Poi le domande afferenti a contenuti non inclusi nel tesario o riferite a contesti desueti, come quella sull’Ocse rimasta ferma ai paesi membri del 2018.

Abbondano, infine, le domande che contengono errori materiali. È il caso di quella che richiede di riconoscere l’incipit del “Tristram Shandy” di Sterne, senza considerare come il passo citato si trovi in realtà verso la fine del libro. Arcangeli arguisce che parte dei quesiti incriminati è verosimilmente copincollata da inaffidabili fonti online, le stesse che gli studenti utilizzano per strappare un sei meno alle verifiche. È notevole che varie imprecisioni si concentrino in domande di nozionismo burocratico, come quelle sulla Raccomandazione del Consiglio Europeo del 22 maggio 2018 o su cosa sia il sillabo nell’insegnamento di una L2, per non parlare del caso se non so qual descrittore si trovi al punto B1.1 o B2.1 di non so che quadro normativo di riferimento.

L’idea che emerge è un concorso raffazzonato già nelle intenzioni, una macchina di selezione che perpetua e privilegia quegli stessi difetti di cui la scuola sembra alimentarsi insaziabilmente. Dare per buona una risposta come quella del parallelogramma esagonale significa non curarsi di cosa le parole significhino ma del solo fatto che vengano messe in fila. Imporre un programma e poi dimenticarsene al momento di porre le domande oppure utilizzare riferimenti scaduti significa non saper leggere il contesto, esageriamo, non accorgersi del mondo circostante. Fornire come alternative risposte ambigue significa credere che il concorso vada imbastito tirando a fregare, con domande trabocchetto, selezionando in base a furbizia o fortuna. Includere contenuti errati nelle domande significa non sapere di cosa si parla, riduce il processo concorsuale a mastodontica supercazzola: come diventa evidente quando si viene ai quesiti in materia di legislazione.

Tutto questo può essere sintetizzato nel dato di fatto che la scuola presti un’attenzione smodata alla forma – e a una forma artificiale, un gioco linguistico che esiste solo nei confini sociali della scuola stessa – a discapito della sostanza. Per questo il dossier e l’appello di Arcangeli, per quanto volenterosi, rischiano di risultare controproducenti, facendo passare l’idea che il problema sia solo di natura formale; tant’è vero che ieri il Senato si è affrettato a modificare il decreto reclutamento eliminando le risposte multiple dai futuri concorsi, mettendo una croce sopra le crocette e lasciando questo concorso a marcire nella propria irrimediabilità.

Il problema, invece, è sostanziale. Non è questione di come si voglia selezionare gli insegnanti di ruolo ma di perché, con quale obiettivo. Se le nuove generazioni di insegnanti devono ravvivare gli istituti in cui andranno a lavorare, conservare dell’entusiasmo e garantire un apporto specificamente ritagliato sulla propria individualità, non li si troverà di certo controllandone l’aderenza lessicale a formulette prestabilite o torchiandoli su futilità didattiche pseudoscientifiche. Bisogna assumerli con dei colloqui scuola per scuola, tarati sulle particolari esigenze, come accade con lo scouting dei professionisti nel mondo reale. Se invece devono essere immessi in una scuola burocratizzata e stantia, avvitata su formalismi didattici e progettualità tanto per, in cui non viene adeguatamente riconosciuto il merito né fra gli studenti né fra i docenti, be’, forse questo concorso pieno di errori è il modo migliore per mostrare loro cosa li aspetta.

(25/6/22) L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali” (STEFANO STEFANEL ) L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel defnire orientamenti ormai a tutti già noti.

Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame fnale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa fnta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verifcati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.

Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro. Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo- ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualifcanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).

L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifca – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fne valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé.

Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno. Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fco dell’operazione di superfcializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di afrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria)

Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio fnale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifca in un modo, l’esame fnale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.

In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fne di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codifcate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il fusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami fnali fatti sulle “varie ed eventuali”.

Cultura umanistica, materie umanistiche, digitale (di Stefano Stefanel)

​​Prendiamo una grande squadra di calcio: ad esempio il Milan che ha vinto lo scudetto. Facciamo finta che, dopo il primo tempo, la squadra sia sotto di due gol per errori palesi della difesa. A quel punto l’allenatore pensa: “dato che i difensori hanno sbagliato devo mettere in difesa i più forti che ho” e così sposta due attaccanti (diciamo Giroud e Ibrahimovic) al centro della difesa. A occhio e croce dovrebbe finire sette a zero per gli avversari.  Ognuno deve giocare nel suo ruolo: se sei attaccante attacchi, se sei difensore difendi.

​Mi è venuto in mente questo piccolo paragone dell’assurdo pensando alle modalità con cui la cultura umanistica e le materie umanistiche affrontano la questione del digitale a scuola. Il digitale è una “tigre” e, come tutte le tigri, è molto indifferente alle sue vittime. Sta nella sua natura essere interessato a sé stesso, avendo una statura, un peso e una capacità aggressiva che difficilmente si possono mitigare. Davanti ad una tigre abbiamo grosso modo due strade: la prima è cercare di addomesticarla, di non farla arrabbiare, di non impaurirla; la seconda di cavalcarla. Poi qualcuno tenta la fuga, ma la tigre è più veloce e la fuga, di solito, non riesce. La cultura umanistica e le materie umanistiche non sembra intendano “addomesticare” o “addestrare” il digitale, ma lo hanno semplicemente cavalcato, quando era necessario, ed ora non sanno come scendere dalla tigre digitale, perché gli è venuta fame e in groppa ad una tigre non si mangia.

​Il digitale è la nuova grande, inattesa e imprevista possibilità per la cultura umanistica, ma questa, invece di capirne le potenzialità, combatte il digitale dopo averlo utilizzato, per lo più per fare conferenze o lezioni frontali. La cultura umanistica italiana non sta facendo granché per capire le possibilità del digitale e si limita e produrre lunghi PDF, cioè libri di carta fotografati. Già questa questione del poter fotografare i libri è interessante, ma ancora più interessante è sapere in che modoagire con le biblioteche virtuali, ma anche con tutta la lingua scritta e pubblicata sul web, ogni giorno nuova, ogni giorno in aumento. Questo mio articolo ha una modesta possibilità di circolazione attraverso il digitale, quasi nessuna possibilità di circolazione tramite meccanismi cartacei. Fatto banale, ma evidente.

​Non è mai accaduto nella storia dell’umanità che si leggesse e scrivesse tanto come oggi: si scrive e si legge dappertutto, sia dove lo si può fare (seduti su un treno, seduti su un aereo, seduti su una metropolitana, nella propria camera da letto, sul banco della scuola, in spiaggia), sia dove non lo si può fare (su un aereo quando lo si pilota, su un’auto quando la si guida, al lavoro quando si deve lavorare ecc,.), sia dove lo si può fare oggi ma non lo si poteva fare una volta (camminando, nuotando, ballando, mangiando, ecc.). Ogni giorno escono miliardi di pagine scritte da qualcuno e messe sul digitale. Dunque, la cultura umanistica dovrebbe vedere il digitale come il suo grande e possibile futuro (è comunque molto più facile mettere in rete una propria poesia piuttosto che una complessa formula matematica).

​La risposta della scuola è, invece, preoccupante: dopo essersi messa mani e piedi in mano alle multinazionali e ai loro server, ora che tutto dovrebbe essere tornato normale (ma invece nulla è tornato normale) si sta accorgendo che scendere dalla tigre è un problema, ma è un problema anche restarci in groppa. Tentativi di addomesticamento non se ne vedono. Così la cultura umanistica ha pensato bene di prendere i suoi intellettuali (gli estrosi attaccanti da pochi o tanti gol, ma comunque gente che sta all’attacco) e metterli in difesa contro il digitale, i suoi guasti sulla scuola, sugli adolescenti, sul mondo. Il “ritorno alla carta”, però, avviene in un solo modo: attraverso l’adozione dei libri di testo, unico libro che entra in molte famiglie. I danni che “gli attaccanti” stanno facendo alla scuola e alla cultura umanistica sono enormi, ma nessuno pare accorgersene. Dovrebbero attaccare e convincere le persone a leggere e invece lanciano invettive contro il digitale e la sua invasività anticulturale.

​E qui passiamo dalla cultura umanistica alle materie umanistiche: il digitale le contamina, le integra, le rende multi e interdisciplinari, soffre le divisioni nette. Per cui da un lato si fanno comprare alcuni chili di libri di carta e dall’altro si lascia che il web faccia scuola da solo. Come ha detto di recente il mio amico Roberto Maragliano: l’insegnante per sapere se uno studente sa o non sa deve interrogarlo, il digitale per saperlo basta che segua il modo in cui ognuno di noi (e ogni studente) lavora sul web (e – dopo averlo tracciato – valuta se ha capito o meno).L’insegnante del mattino insegna a espandere la lingua, quello del pomeriggio (lo smartphone) insegna a contrarre la lingua: quello del mattino si disinteressa di quello che fa quello del pomeriggio, quello del pomeriggio, invece, sa benissimo come combatterequello del mattino. Lo studente studia sui libri quando è obbligato, ma poi usa il web. Gli insegnanti fanno lo stesso, ma insegnano a fare altro.

Nelle scuole italiane ci sono migliaia di biblioteche che stanno facendo un immane lavoro di catalogazione per libri che pochi chiedono, pochi leggono, nessuno ruba. Chiedere, leggere e rubare non sono tre sinonimi, però al giorno d’oggi che motivo c’è per rubare un libro se non lo si vuole leggere? Io penso che se noi lasciassimo le biblioteche scolastiche aperte e sguarnite nessuno ruberebbe niente, primo perché i libri di seconda mano non li vuole nessuno, secondo perché se voglio leggere un libro me lo compro, terzo perché l’interesse a leggere i libri è diminuito. Quindi non c’è pericolo di furto e si potrebbero mettere i soldi della catalogazione in attività di sensibilizzazione alla lettura, coinvolgimento, lavoro sulla scrittura.

​Invece la risposte della scuola alla crisi della cultura umanistica è una ulteriore parcellizzazione delle materie umanistiche e dei libri di testo di accompagnamento. Chi ama le materie umanistiche e la cultura umanistica dovrebbe fuggire dai libri di testo come si fugge dalle pandemie: bisogna far leggere libri “veri” non manuali, bisogna far conoscere il suono, la parola, la suggestione. Una delle cose che non ho mai compreso (tenete conto che ho fatto per vent’anni il professore di italiano, storia, geografia) è come possano appassionarsi alla Divina Commediastudenti costretti a seguire le spiegazioni di versi che, letti, nessuno capisce. E dico nessuno, senza controprova, perché ho sempre avuto il dubbio che molti insegnanti se non avessero le note o non avessero studiato il testo non saprebbero spiegare cosa Dante scriveva. Certi canti del Purgatorio e del Paradiso sono troppo complicati: che senso ha leggerli, non capire nulla ed ascoltare uno che te li spiega? La poesia è un’altra cosa e se qualcosa resta, deve restare perché ti è entrato dentro non perché qualcuno ti ha spiegato quanto è bello. Questo vale anche per le canzoni, vedi il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan.

Stessa cosa dicasi per I promessi sposi: vanno letti, non spiegati. Vanno letti e commentati, non riassunti. E così per Leopardi, Calvino, Moravia, Ariosto e per tutta la filosofia e la cultura sociologica e umanistica in genere. Invece la scuola procede per riassunti (i manuali), come se il riassunto ti spiegasse la metrica, mentre si limita a raccontarti la storia, anche se spesso – in Hemingway sempre – la storia è molto meno bella di come ci viene raccontata dallo scrittore.

​Il digitale dovrebbe essere il grande alleato della cultura umanistica e delle materie umanistiche, che però vivonol’ossessione della copiatura. Il problema non è copiare, ma saper dire precisamente da dove lo si è fatto. Nei libri che ho pubblicatoho sempre citato la fonte da cui ho “copiato” alcuni passaggi che ho virgolettato. E ho sempre citato i libri a cui ho fatto riferimento: qualcuno ha mai letto un saggio in cui l’autore non citi (copi) qualche altro autore? San Tommaso d’Aquino quando faceva un Quodlibet all’Università di Parigi si inferociva se un suo studente esponeva una tesi e non sapeva chi fosse l’autore del passato che l’aveva elaborata. Riteneva il comportamento dello studente che pretendeva di aver inventato qualcosa un affronto a Dio, che aveva dotato di saggezza alcuni uomini perché ne tramandassero il suo messaggio. Lo studente doveva saper copiare, non doveva inventare. Se leggesse i temi dei nostri studenti scritti su carta (spesso attraverso il gesto “solo scolastico” di piegare un foglio a metà e scrivere solo a sinistra) San Tommaso inorridirebbe davanti a tanta arroganza di ragazzini che sdottorano su argomenti aulici senza alcuna autorità e senza alcuna competenza. Per imparare a scrivere bisogna scrivere (perché non digitalmente?) e bisogna leggere, non fare esercizi.Perché non far comprendere la centralità della citazione? Perché non abituare gli studenti a fare abstract e montaggi di testi citati chiaramente e commentati? Perché non lasciare che scrivano consultando il web, copiando dal web, citando dal web? Scrivere quello che si sente e si sa, leggere quello che di bello è stato scritto: il web in questo è un aiuto formidabile per la cultura umanistica.

​Il libro di carta sta benissimo ma è un bene di nicchia: mettere i centravanti in difesa, cavalcare l’affamata tigre del digitale, far scrivere tutto su carta al mattino (e poi nel pomeriggio nessuno lo fa più) significa condannare la cultura umanistica a chiudersi nella riserva della scuola, lasciando che la culturascientifica la faccia da padrona nella società. Le Facoltà umanistiche dovrebbero smetterla di inventare corsi strani per rubarsi studenti tra loro e aprire spazi per studenti che cercano una strada, la scrittura del web deve essere presidiata, non è più possibile lasciarla alla didattica dello smartphone. 

Se un allenatore vista la mala parata mette ottimi attaccanti in difesa cavalca una tigre da cui non scende più. Se gli intellettuali per difendere la cultura umanistica dicono pubblicamente scempiaggini su una scuola che non conoscono il tasso di analfabetismo culturale e di ritorno che vogliono combattere semplicemente aumenterà. E d’altronde sono in arrivo 800 milioni sul digitale a scuola, ma la scuola tenderebbe a vietarlo quel digitale a scuola: non tenta di addomesticarlo, ma cerca ora di scendere dalla groppa della tigre. Però, giustamente, ha paura di farlo: le fauci del digitale, più o meno, le conosce e sa che non perdonano. Ma d’altronde, come ha scritto Eschilo, “Giove acceca chi vuole perdere”. (12/6/22)

SULLA SCUOLA MEDIA In medio (non) stat virtus di Stefano Stefanel (27/4/22)  Ho insegnato per vent’anni nella Scuola media e poi per altri vent’anni ho diretto Scuole medie, sia inserite in Istituti comprensivi, sia aggregate orizzontalmente. Quindi la mia conoscenza dell’argomento è piuttosto professionale e non completamente culturale, probabilmente debole rispetto ai pareri che stanno affollando stampa e social sull’argomento. Purtroppo, tutto quello che so della Scuola media mi influenza molto nelle letture sull’argomento, portandomi ad individuare immediatamente chi scrive (a volte anche con argomenti interessanti) su un argomento che non conosce, rifacendosi spesso alla sola esperienza in suo possesso, che è quella che risale si tempi della sua adolescenza.

                  Per analizzare il momento critico e irreversibile del segmento di scuola che si occupa di adolescenti dagli 11 ai 14 anni è importante avere in mente due elementi distintivi:

  1. La Scuola media viene giustamente chiamata Scuola secondaria di 1° grado in quanto il sapere viene insegnato e appreso attraverso la sua secondarizzazione, cioè collegando la divisione dei tempi alla divisione dei saperi in “rigide” discipline autonome l’una dall’altra, aggregate in classi di concorso che fanno ritenere a molti docenti di appartenere al secondo e non al primo ciclo dell’istruzione;
  2. La Scuola media viene giustamente collocata nel primo ciclo dell’istruzione, anche se è una scuola secondarizzata, perché le manca la base strutturare dell’apprendimento superiore: l’elettività degli studenti. Quando entrano secondo ciclo dell’istruzione gli studenti si collocano dentro contenitori rigidi e scelti personalmente (chi va al liceo lo fa insieme ai liceali, chi va negli istituti professionali fa scuola con chi vuole professionalizzarsi, ecc.) e queste affinità elettive (spesso sbagliate e prodromiche di disastrosi percorsi scolastici) non esistono nella Scuola media, dove convivono nella stessa classe gli studenti destinati ai licei e alla laurea con gli studenti condannati alla dispersione, alle bocciature o a percorsi interrotti.

I due elementi sopra riportati sono elementi fortemente critici, vissuti, invece, come naturali da chi insegna nella Scuola media: la propensione dei docenti di Scuola media a prendere sul serio la verticalità curricolare con la Scuola primaria e dell’infanzia è bassissima e l’idea che la divisione dei saperi possa creare una grande confusione mentale a una fetta di studenti non crea alcun allarme. La tendenza della Scuola media è quella di addebitare l’oggettiva crisi a colpe familiari, ad una debolezza crescente dello studente, al digitale, alla mancanza di rispetto per la scuola, ma molto poco al corto circuito di saperi obsoleti trasmessi con metodi arcaici e valutati con metodi artigianali sbagliati.

Un altro elemento sottovalutato dalle scuole, dal ministero e dall’opinione pubblica è il problema della disomogeneità delle classi, ritenuta a priori un valore, ma che attualmente presenta diversificazioni eccessive nelle competenze degli studenti. Quando insenavo io nella Scuola media diciamo che su base 100 il divario era, di norma, di 20/30 punti tra i vari studenti inseriti nelle classi. Oggi in moltissime classi il divario può oscillare anche di 70-80 punti e la convivenza tra chi tende al massimo delle competenze culturali di un adolescente e quello che sopravvive dentro una cultura retta dall’uso del cellulare è la stessa che c’è tra un semi-analfabeta e un professore universitario: umanamente non ci sono problemi, didatticamente ci sono solo problemi perché i bisogni sono troppo lontani tra loro. Dentro l’estrema disomogeneità delle classi bisognerebbe prendere sul serio quello che dice l’ONU nell’Agenda 2030, laddove  si parla di “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”  e non ritenere che l’egualitarismo (stessi contenuti, stessi, metodi, stessi compiti, stesse interrogazioni, stessi obiettivi, ecc.) porti da qualche parte, perché – come diceva inascoltato allora come oggi don Milani – “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi.” L’attuale didattica dell’uguaglianza produce soltanto dispersione scolastica, magari non situata nella Scuola media, ma pronta ad esplodere nel biennio delle superiori. I fautori delle bocciature e della selezione (praticamente tutti gli intellettuali che hanno accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa) paiono non comprendere come la convivenza di 16-17enni con ragazzini di 13-14 anni porti soltanto al degrado della convivenza dentro crescite che vanno accompagnate e non sfidate.

Le avvisaglie della grande crisi della Scuola media c’erano anche quando insegnavo io, ma il riordino dei cicli pensato da Luigi Berlinguer fu osteggiato da tutti e la sua cassazione dal dibattito e dalla norma, operata da Letizia Moratti, fu accolta da tutti con grande sollievo. Ripartire da lì oggi sarebbe un grave errore e creerebbe solo ulteriore caos. In realtà il punto da cui partire è evidente da oltre vent’anni: la costruzione di una vera verticalità nel primo ciclo, facendo comprendere a tutti gli insegnanti della Scuola media che sono la parte conclusiva del ciclo primario e non la parte introduttiva del ciclo secondario. Questo vuol dire lavorare sui saperi e non sulle materie, redigere veri curricoli e non scimmiottare i programmi pensati da Giovanni Gentile. Su questa strada ci sono due avversari formidabili: le case editrici che coi libri di testo sedimentano strutture rigide e trasmissive di saperi disciplinari; i sindacati che difendono le classi di concorso e la loro rigidità applicata all’occupazione, senza tenere in minimo conto esigenze curricolari specifiche collegate a possibili variazioni necessarie, che dovrebbero portare, oltre a modificare il sapere di chi insegna, anche a modificare le materie da insegnare sia nella qualità che nella quantità. Tutto questo porta a mantenere intatta l’idea gentiliana che siano italiano-matematica e inglese a dover reggere il gioco, non comprendendo come, invece, musica, arte e tecnologia avrebbero, dentro strutture didattiche multidisciplinari e trasversali, la possibilità di sviluppare competenze non semplicemente trasmissibili.

Un altro elemento che supporta l’attuale crisi delle Scuola media è la convinzione di gran parte della classe docente di quel segmento di scuola che la valutazione debba essere realizzata sempre con strumenti misurativi (compiti e interrogazioni) anche per quei saperi dove l’attenta osservazione è molto più utile. Inoltre, il numero di ore di ogni materia viene confuso con il quantum di apprendimento possibile: il mantra delle poche ore a disposizione non fa venire a molti il dubbio che più ore si fanno e più la dispersione aumenta per gli studenti deboli e che le ore aggiuntive devono essere fatte per quelli bravi, non per quelli che arrancano nell’ordinario. Invece si attivano recuperi che portano studenti stanchi a stancarsi ancora di più, lasciando quelli capaci in tempi scuola per loro troppo limitati. La Scuola media scambia l’aumento del tempo scuola con il miglioramento degli esiti, mentre il miglioramento degli esiti comincerà quando verranno abbandonate le metodologie didattiche che hanno portato alla situazione attuale. Per battere la dispersione nella Scuola media bisogna attivare risorse e progetti che ricadano sulla didattica ordinaria, non che ne siano avulsi e che non abbiano peso nella valutazione (come accade oggi).

Danni notevolissimi alla Scuola media la stanno facendo anche gli Istituti superiori ed Eduscopio, diventata la bussola più gettonata per l’orientamento. Eduscopio con le sue classifiche devasta il sistema percettivo delle famiglie italiane, che nella Scuola media pianificano il futuro cercando di agganciare il figlio alla “scuola migliore” e non alla “scuola elettiva”. Così avviene che la classifica pensata da una Fondazione privata su parametri autodecisi diventi l’elemento che orienta verso errori pacchiani, alimentando una dispersione che inizia quando non si guardano più agli esisti del presente dello studente nella Scuola media (che cosa sa realmente fare), ma lo si proietta già verso un futuro che spesso sarà collocato dentro la dispersione. In tutto questo il ruolo delle Scuole superiori è molto negativo in quanto puntano ad aumentare il numero degli iscritti in una sorta di “favola di Cappuccetto Rosso dark”: “caro studente di scuola media vieni da me anche se questa non è la scuola che fa per te, così io posso bocciarti meglio”. Mi sfugge perché il Ministero permetta che molte scuole superiori accolgano le iscrizioni di tanti studenti nelle classi prime pur avendo un altissimo tasso di bocciature. A dire il vero Eduscopio ha anche una classifica (avulsa) dove si vede il tasso di bocciatura delle scuole superiori, ma è una classifica che non interessa a nessuno, anzi se quel tasso è troppo basso i genitori e l’opinione pubblica pensano che lì le cose non si fanno seriamente.

Io penso che la Scuola media debba riprendere ad agganciare gli adolescenti nel loro momento di crescita e che debba organizzarsi per azioni collegiali e non per singole materie. In tutto questo un ruolo molto forte (in senso negativo) lo ha la docimologia applicata da chi non la conosce e non l’ha studiata (all’Università si studiano i contenuti disciplinari non le metodologie didattiche o i sistemi di verifica-valutazione-misurazione-certificazione). Diciamo che nella scuola italiana avviene lo strano fenomeno per cui si pratica qualcosa che non si è studiato: quando vado dal dentista voglio essere certo che il dentista abbia studiato e si sia specializzato in quel settore della medicina, non che sia un generico “dottore”. A scuola invece valutano professionisti specializzati culturalmente, ma senza alcuna competenza valutativa. In questa sacca si insinua la dispersione in quanto gli studenti sono spinti alla realizzazione di prodotti valutabili docimologicamente e non verso competenze spendibili e certificabili. Infatti, la certificazione delle competenze alla fine del ciclo primario non interessa a nessuno, mentre i “voti” vengono vissuti come una certificazione di livello. Questi meccanismi valutativi sono tutti sbagliarti e producono negli studenti, troppo spesso, uno studio teso verso la perfromance valutativa e non verso l’apprendimento duraturo.

Esiste poi il problema della formazione in ingresso dei docenti, che molto spesso vivono la Scuola media come un semplice momento di passaggio prima di approdare alle Scuola superiori. Quando fu il momento io scelsi la Scuola media e benché abilitato e vincitore di concorso nelle Scuola superiori decisi comunque di rimanere ad insegnare nella Scuola media perché mi ha sempre appassionato la costruzione delle competenze e del sapere in quei tre anni di crescita convulsa. Anche da Dirigente quando sono passato al Liceo nel 2012 ho sempre chiesto e ottenuto una (e un paio di volte me ne hanno date due) reggenza nel primo ciclo, perché ritengo che la professione si debba sviluppare nella gestione di studenti dai 3 ai 19 anni per vedere come cresce il sapere. Questi motivi personali-professionali alimentano la mia diffidenza verso chi parla senza conoscere l’argomento di cui parla, facendo ricadere sugli studenti colpe che non hanno.

         La strada per uscire è oggi quella di venti o trenta anni fa: lavorare per obiettivi e non per materie, costruire competenze e non percorsi per superare prove di verifica obsolete (compiti in classe e interrogazioni), verticalizzare i curricoli per cementarie i saperi e le metodologie, comprendersi come “scuola di mezzo” che chiude un ciclo senza essere attratta da quello successivo. Ragionando in questo modo alcuni nodi vengono subito a pettine: la verticalità dell’inglese richiede competenze diverse nella scuola primaria e un presidio di chi insegna inglese nella Scuola media su tutto l’istituto comprensivo; l’insegnamento della matematica affidato a non matematici (quasi tutti gli insegnanti di matematica della Scuola media non sono laureati in matematica) richiede competenze didattiche forti e non trasmissioni di meta-spiegazioni che spesso sono più complicate dei teoremi e delle operazioni che cercano di spiegare; la lingua italiana deve essere presidiata da tutto il sistema e diventare una vera competenza alfabetica funzionale e quindi padroneggiare libri, articoli, informazioni, istruzioni, social, web ecc. e non chiudersi dentro l’umanesimo del tema; quelle che una volta erano chiamate educazioni (arte, musica, educazione fisica, tecnologia) devono verificare per osservazione e non per prodotti, senza alcuna docimologia per definirsi dentro obiettivi di apprendimento e non contenuti disciplinari; le materie di studio devono affinare metodi di apprendimento non affastellare contenuti.

Ripartire da dove? Direi proprio da tutto: lo si doveva fare vent’anni fa, lo si deve fare ora. Ma ora è troppo tardi? Rispondo come fece Nereo Rocco, quando allenava il Padova, a cui dissero prima di Milan-Padova: “Vinca il migliore”, e lui rispose: “Ciò, speremo de no”.

CONTRO I PONTI SCOLASTICI (Antonio Gurrado, 26/4/22 Il Foglio) Cito. “L’anno scolastico deve essere intenso, breve, non frazionato da carnevali, pasquette, santi e santini, ponti di vario senso e invenzione, celebrazioni di date storiche che non dicono più niente al cittadino contemporaneo e che costituiscono solo occasione di rimandare a domani ciò che poteva essere fatto benissimo ieri”. Oggi – un altro giorno in cui non si va a scuola per celebrare una data storica eccetera eccetera – conviene rileggere questo pezzo che Giovanni Arpino consegnò a Il Tempo del 20 ottobre 1965 e far due conti sull’evenienza che la situazione, in oltre mezzo secolo, sia o meno migliorata. Settimana scorsa, niente scuola da prima del giovedì santo al martedì successivo. Un mesetto prima, un bel lunedì e un bel martedì persi nel nulla dai sei ai diciannove anni perché alcuni bambini andavano in giro in maschera. E prima ancora due settimane a Natale a spezzare asimmetricamente il primo quadrimestre, una celebrazione mariana nel bel mezzo della settimana, e un mesetto prima un’altra interruzione del quadrimestre per un’altra festa in cui alcuni bambini andavano in giro in maschera.

E fra un mesetto – per fortuna il primo maggio cade di domenica – aridagli con la festa repubblicana, poi magari ancora ponte venerdì 3, weekend il 4 e il 5, sui banchi il 6 e il 7, ultimo giorno di scuola l’8 giugno. Ha senso? Mica tanto. Sarebbe forse meglio compattare l’anno scolastico in tre intensi periodi – autunnale, invernale, primaverile – senza tutti questi ponti e ponticelli ma con tre lunghi periodi di pausa da dedicare al recupero di forze e conoscenze. Spiegando ai ragazzi che la Resistenza, il lavoro, la Repubblica, ma forse anche la Madonna e i Santi, si onorano meglio imparando qualcosa anziché stando a casa a poltrire.

ANDREA GAVOSTO LA SCUOLA BLOCCATA (22/4/22) Il sistema scolastico italiano è grande e complesso. Anche se ci limitiamo alla fascia d’età fra i 6 e i 19 anni, esso coinvolge ben 7 milioni di studenti e oltre un milione di insegnanti e altro personale; si articola su 8.300 istituti e 40.000 edifici. Al di là delle dimensioni ragguardevoli, è il ruolo che gioca nello sviluppo civile, economico e sociale a rendere la scuola uno degli architravi della nostra collettività. Studiare – è ormai assodato – ci rende più sani, più ricchi individualmente e come paese, più aperti al mondo: chi possiede un titolo di studio elevato in media vive più a lungo; trova lavoro più facilmente e guadagna di più; è più aperto al confronto con gli altri. È, insomma, un cittadino migliore. In maniera analoga, i paesi che investono di più in istruzione crescono più degli altri e sperimentano una maggiore mobilità sociale.

Sarebbe ingiusto non riconoscere che, dal dopoguerra a oggi, l’istruzione italiana ha compiuto passi da gigante nel raggiungere fasce sempre più ampie della popolazione: ma non basta. Se, infatti, non ci limitiamo a osservare la media degli anni di istruzione o i titoli di studio ottenuti, ma consideriamo anche la qualità dell’istruzione ricevuta dagli studenti e dalle studentesse, la situazione italiana appare tutt’altro che rosea. Da quando, dall’inizio del millennio, si sono diffusi strumenti oggettivi per misurare quello che gli studenti conoscono e comprendono, simili in tutti i paesi, si è scoperto che, dietro la facciata dei titoli di studio, in Italia vi è spesso una drammatica carenza di competenze.

Il dato che meglio di tutti la sintetizza è che, alla vigilia della maturità, ovvero al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, uno studente su due non raggiunge un livello accettabile di apprendimenti in matematica; e la quota supera addirittura il 70% in alcune regioni del Sud. Simili sono i risultati in italiano. Si potrebbe ritenere che questi dati siano legati alla contingenza e dipendano dall’enorme perdita di apprendimenti causata dalle chiusure scolastiche dovute al Covid-19 e al conseguente ricorso alla didattica a distanza: in realtà non è così.

La scuola italiana, come ogni altra in tutto il mondo, ha vissuto un passaggio drammatico: ad aprile del 2020 1,3 miliardi di allievi, pari al 75,4% del totale mondiale, sono rimasti a casa e, da allora, hanno conosciuto una stagione scolastica molto frastagliata. Nemmeno durante i due conflitti mondiali il sistema di istruzione ha subìto una battuta d’arresto di questa portata: le conseguenze sugli apprendimenti non potevano essere lievi e non lo sono state. Ma anche se il prezzo pagato dalla scuola alla pandemia è stato altissimo, la situazione in Italia era già drammatica in precedenza: nel 2019 le percentuali di studenti che non raggiungevano una soglia adeguata di competenze erano altissime.

Da anni ormai, le prove di apprendimento sono il termometro di una profonda crisi della nostra scuola: molti studenti, soprattutto quelli che provengono da ambienti sociali svantaggiati, non possiedono un bagaglio di conoscenze e competenze che consenta loro non solo di trovare un lavoro soddisfacente, ma di essere cittadini in grado di partecipare pienamente alla vita della comunità. Siamo dunque di fronte al rischio di un fallimento senza appello della scuola italiana. Oggi la nostra scuola non garantisce efficacia ed equità nell’apprendimento.

Ma l’istruzione è un processo cumulativo: se gli studenti e le studentesse manifestano lacune in una determinata fase del loro percorso, questo renderà più difficile la prosecuzione degli studi e l’entrata nel mondo del lavoro. Si corre quindi il pericolo di accentuare, a tutti i livelli, la deriva rispetto agli standard scolastici degli altri paesi europei, proprio nel momento in cui il nostro paese è impegnato a riacquisire un ruolo centrale, economico e politico, in Europa. Portare all’attenzione dei lettori le fragilità del nostro sistema educativo e le possibili misure per porvi rimedio è l’obiettivo di questo libro.

La principale argomentazione del volume è infatti che, alla luce del fallimento dei numerosi tentativi di riforma, solo se famiglie e opinione pubblica sono pienamente informate dei risultati della singola scuola e dell’intero sistema si può realizzare un miglioramento. Senza una pressione mirata da parte delle famiglie e dell’opinione pubblica sugli aspetti meno soddisfacenti, i decisori politici non dispongono di chiare indicazioni su che cosa fare e finiscono per intervenire più per assecondare gli interessi del loro elettorato che per risollevare il sistema.

Naturalmente, lo sforzo per migliorare la scuola non può esaurirsi nello spazio di un singolo governo (soprattutto in Italia!): la strategia di intervento deve essere lungimirante, sapendo che la modifica di un piccolo ingranaggio condurrà a cambiarne un altro e così via, superando le molteplici resistenze che hanno finora impedito una profonda revisione del sistema scolastico.

La sfortuna che si abbatte sulla scuola non è quella che pensate (di Antonio Gurrado, il Foglio, 28/2/22) Questione di sfortuna, certo, la storia della giovane insegnante milanese che, dopo anni di precariato, ha finalmente l’opportunità di passare di ruolo ma deve rinunciare perché la prova di concorso cade nello stesso giorno in cui presumibilmente partorirà. Circostanza che ha sollevato più di un giusto interrogativo su ciò che effettivamente si faccia per tutelare le lavoratrici; ma che, secondo me, dovrebbe condurre a riflessioni ancora più ampie. Poniamo il caso di un insegnante che, dopo anni di precariato, il giorno della prova di concorso subisca un lutto. Oppure un incidente domestico o stradale. O magari un attacco di emicrania, la febbre, la dissenteria, una piaga d’Egitto.

Anche in tal caso sarebbe una sfortuna, anzi, anche in tal caso sarebbe un’ingiustizia che lo Stato non permettesse altre opzioni rispetto al concorso-ordalia che viene convocato neanche tanto spesso. Più paradossale ancora appare l’ingiustizia se si pensa che il concorso pubblico viene visto come il metodo più efficace per garantire equità, a differenza di tutte le alternative che sono via via state proposte, dall’abilitazione automatica per chi detiene determinati titoli di studio all’assunzione diretta da parte di dirigenti pienamente autonomi e chiamati a rispondere del proprio operato. C’è solo da sperare che a subire sventure assortite nei giorni delle prove di concorso siano quelli che hanno sempre protestato contro il benché minimo progresso nella selezione degli insegnanti; purtroppo però non accade mai.

LAVORANO 36 ORE A SETTIMANA (Salvo Intravaia, 25/1/22 Repubblica) Trentasei ore settimanali. Ecco l’impegno orario di una professoressa di Latino alle prese con la correzione delle versioni e la programmazione annuale, oltre ad altre mille incombenze, o di un prof di Matematica della scuola superiore italiana. Questa volta a fare i conti delle ore effettivamente lavorate, comprese le 18 di cattedra previste dal contratto di lavoro, è un autorevole istituto: l’Osservatorio dei conti pubblici italiani, guidato dall’economista Carlo Cottarelli, in forza al Fondo monetario internazionale. La pubblicazione di un paio di settimane fa, scandaglia le diverse le ore lavorate a casa dai professori che nessuno quantifica.

“I docenti italiani – esordisce lo studio – lavorano in media 36 ore settimanali, il 50 per cento in più rispetto alle ore di insegnamento diretto previste dal contratto”. Il risultato emerge un sondaggio cui hanno risposto 166 insegnanti di liceo, istituto tecnico e professionale. “Sarebbe però utile – continua il lavoro – avere maggiori informazioni ufficiali su questo tema, anche alla luce dell’opportunità di fissare un orario di lavoro complessivo ben definito per i docenti”. Il tema delle ore effettivamente lavorate dagli insegnanti italiani viene alla luce periodicamente. In particolar modo alla vigilia di un passaggio contrattuale.

Il contratto del personale scolastico è scaduto da oltre tre anni. Nei mesi scorsi, governo e sindacati hanno iniziato l’iter per avviare la nuova fase di contrattazione che, alla luce delle novità scaturite dai due anni di pandemia da Covid-19, potrebbe essere più complessa delle precedenti. Infatti, oltre agli aspetti puramente economici, si parla di risorse sufficienti per assicurare poco più di 80 euro lordi di aumento mensili, le parti potrebbero mettere le mani sulla parte giuridica: diritti e doveri, mansioni obbligatorie e da retribuire a parte. Tra gli obblighi rientrano le lezioni in classe, la correzione dei compiti, la partecipazione agli organi collegiali e i rapporti con le famiglie.

Restano tuttavia una serie di altre attività vitali per la scuola (compilazione del registro elettronico, la stesura di rapporti sull’attività di insegnamento, coordinamenti di classe, di dipartimenti e di commissioni, oltre alle riunioni delle stesse commissioni, organizzazione di tutte le attività scolastiche ed extrascolastiche organizzate annualmente dalle scuole, orientamento, referente Covid, mobility manager scolastico, responsabili del Pcto, referenti dell’Educazione civica e tutte le figure di cui la scuola necessita per portare avanti l’anno scolastico) che non vengono quantificate esattamente, ma spesso solo forfettariamente e retribuite con compensi di poche decine di euro al mese. Lo studio di Cottarelli & Co si riferisce proprio a queste attività, sovente di tipo organizzativo quando non puramente burocratico.

“Il peso delle ore extra-insegnamento nella vita degli insegnanti è elevato indipendentemente dal tipo di scuola”. Si va dalle 16 per i prof degli istituti tecnici alle 19,5 dei colleghi che lavorano nei licei. In media, altre 18 ore settimanali aggiuntive. L’impegno extra dipende anche dalla materia insegnata. “I docenti – spiegano dall’Osservatorio – che insegnano materie in ambito umanistico e linguistico lavorano circa 19 ore settimanali in più rispetto a quelle dedicate all’insegnamento; chi insegna in aree scientifiche ed economiche, invece, lavora mediamente 17 ore aggiuntive”.

Una differenza attribuita al fatto che i docenti di “matematica, fisica e discipline simili” vengono coinvolti meno in attività aggiuntive rispetto a colleghi che insegnano in ambito umanistico. E, sempre secondo il sondaggio, i docenti più anziani lavorano in media più ore rispetto ai colleghi più giovani. “Il nostro sondaggio – ammettono gli esperti dell’università del Sacro Cuore di Milano – potrebbe sovrastimare le ore extra insegnamento, in quanto compilato dai diretti interessati. È però strano – osservano – che non esistano rilevazioni ufficiali in merito”. La quantificazione del lavoro svolto serve, a parere del gruppo di esperti che ha condotto il sondaggio, per migliorare la gestione del lavoro. All’estero molti contratti di lavoro quantificano tutte le attività svolte dagli insegnanti “assicurando maggiore trasparenza all’intero sistema scolastico”.

ANDREA GAVOSTO- IL LICEO IN 4 ANNI (Lavoce.info, 21/12/21) (…)In Italia, nell’anno scolastico 2018-2019 è stata avviata una sperimentazione in 192 scuole superiori, di cui 65 paritarie (con 144 licei e 48 istituti tecnici), che prevede il completamento della scuola secondaria di secondo grado in quattro anni. Di questa sperimentazione si sono perse le tracce, nel senso che non sono mai stati pubblicati risultati intermedi, in attesa del completamento a giugno 2022. Sarà comunque difficile ottenere indicazioni precise sull’efficacia della contrazione degli anni: non è stato infatti previsto dall’inizio un piano di valutazione di impatto scientificamente rigoroso che evitasse il rischio, molto concreto, che gli studenti che si sono iscritti al liceo di quattro anni costituiscano un gruppo selezionato per abilità o retroterra famigliare. Prima che la sperimentazione termini e ne vengano in qualche modo monitorati gli esiti, il ministro Bianchi ha comunque annunciato la volontà di estenderla dal prossimo anno scolastico ad altre mille scuole: decisione che suscita qualche dubbio di metodo e di merito, in una fase in cui avrebbe più senso concentrarsi sulla perdita di apprendimenti causata della pandemia.

UNA VALUTAZIONE POSSIBILE DEGLI INSEGNANTI ITALIANI SULLA BASE DELLE ESPERIENZE STRANIERE di Francesco Scoppetta (13/11/21)

Nel nostro paese il SNV (Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) è stato istituito dall’art. 1 del d. lgs. 286/2004, con l’obiettivo di valutare l’efficienza e l’efficacia dello stesso sistema, ai fini del progressivo miglioramento e dell’armonizzazione della qualità. Si è proceduto, attraverso varie sperimentazioni, ad instaurare la valutazione dei dirigenti scolastici ma senza finora collegarla alla “retribuzione di risultato” (per cui l’unico effetto positivo si è rinvenuto soltanto sul piano culturale) ma nessun ministro, nessuna forza politica sono persuaso si spingerà mai sino a voler valutare gli insegnanti. Il tono può sembrare “apocalittico” ma è il confronto con gli altri paesi occidentali che è impietoso e che lascia interdetti per il ritardo. A voler essere “realisti”, immaginando che prima o poi in Italia anche gli insegnanti verranno valutati così come i dirigenti scolastici, lo faremo almeno un quarto di secolo (o di più) dopo gli altri. Ma su questo come su tanti altri argomenti noi seguiamo il precetto che nessuno ci deve insegnare nulla e che la famosa gita a Chiasso di Arbasino la fanno gli stupidi perchè da noi è troppo bello. La valutazione del merito, hanno scritto Boeri e Perotti, “è un problema che può essere affrontato, e anche se non è una scienza esatta, una valutazione buona ma necessariamente imperfetta è meglio di nessuna valutazione”.

Valutare il merito sembra una di quelle imprese titaniche ma anche impopolari e inutili che non è esagerato definirla come un vero tabù per la politica italiana. Non il solo, perché il lavoro nero o l’evasione fiscale sono problematiche altrettanto impossibili da risolvere. Nella nostra società, paragonata a quella di paesi europei dove la valutazione degli insegnanti è pienamente operante da decenni, esiste una forte proibizione a toccare l’argomento, per cui è come se la questione fosse diventata per la politica “sacra e proibita”. Sette insegnanti su 10 sono contrari ma non è questo dato a sorprendere. Quel che dovrebbe interessare è che i contrari considerino la valutazione in una scala da inutile a ripugnante.

Dagli anni novanta (in cui si è sviluppata l’autonomia scolastica) in poi la valutazione dell’operato degli insegnanti è stata sviluppata in molti paesi europei nonostante l’opposizione degli interessati. Sono stati introdotti vari modelli di accountability, che vanno dalla tradizionale ispezione esterna individuale basata sui processi alla valutazione individuale interna effettuata dal capo di istituto oppure all’autovalutazione della scuola, che include la valutazione standardizzata degli apprendimenti degli alunni.

Non esiste in Europa un modello omogeneo di valutazione dei docenti e non esiste neppure un modello prevalente.

Il fatto più rilevante però è “che le diverse modalità di valutazione tendono sempre più ad intrecciarsi tra loro per cui la valutazione in diversi paesi è diventata una rete che mette assieme valutazioni interne ed esterne, individuali e collettive. Dal 2005 in poi la tendenza vede le valutazioni individuali prevalere su quelle collettive, perché si procede lungo la differenziazione delle carriere e le promozioni stipendiali. Prima la valutazione individuale si imponeva soprattutto come controllo dei processi. Oggi, le nuove modalità di valutazione pongono più l’accento sui risultati.

Invece di esaminare paese per paese le diverse modalità, forse è più suggestivo immaginare subito un modello italiano che possa mettere assieme esperienze differenti, un patchwork politicamente accettabile. La premessa del discorso che faremo è riassumibile ne  “il meglio è nemico del bene”: piuttosto che non far nulla come in Italia, vediamo di cominciare a fare qualcosa (prendendo spunto da esperienze estere) che sia politicamente accettabile da una maggioranza, mettendo nel conto i No-Valut che nessuno potrà convincere mai in nessuna parte del mondo terrestre,

  1. Una prima modalità consigliabile per l’Italia è la Valutazione individuale svolta da ispettori, cioè da un corpo di specialisti esterni all’istituto che dipendono dalle autorità nazionali, come in Francia, o sono sotto la tutela delle autorità regionali incaricate dell’istruzione, come in Germania, Spagna o Austria,

In Francia, per esempio, gli ispettori del Ministero (Inspecteur de l’Education Nationale – IEN) valutano gli insegnanti che vengono ispezionati ogni 4 anni circa. Spesso sono gli stessi insegnanti che chiedono di essere valutati per far progredire la loro carriera. L’ispettore attribuisce all’insegnante un voto basato su criteri sia didattici che amministrativi.

In Spagna, le autorità educative delle singole Comunità Autonome sono responsabili della creazione di piani per la valutazione dell’insegnamento nel settore pubblico. Questi piani, che devono essere resi pubblici, definiscono gli obiettivi e i criteri di valutazione, così come le modalità con cui gli insegnanti, la comunità scolastica e le autorità educative stesse partecipano al processo di valutazione. Le autorità educative, assimilabili a corpi ispettivi, promuovono pertanto anche la valutazione degli insegnanti su base volontaria e sono responsabili per la definizione delle modalità della valutazione stessa.

  • 2) La valutazione esterna (e didattica) degli insegnanti svolta dagli ispettori sarebbe utile che venisse integrata da una valutazione interna (però amministrativa) svolta dal capo di istituto.

Il modello più efficace è quello della Francia dove nei collèges (secondario inferiore) e nei lycées (secondario superiore), gli insegnanti sono valutati ogni 6/7 anni, anche se si tenta di ridurre il tempo tra una valutazione e l’altra, dagli ispettori pedagogici regionali (Inspecteurs Pédagogiques Régionaux). L’ispezione si svolge sul campo, mentre l’insegnante tiene la sua lezione, e consta di un’osservazione di una sequenza didattica, seguita da un colloquio individuale con l’insegnante. La valutazione degli insegnanti si articola attorno a una doppia votazione: una “didattica” (su 60 punti), effettuata dall’ispettore competente ogni 6/7 anni, l’altra “amministrativa” (su 40 punti), effettuata ogni anno dal capo di istituto in base a criteri quali l’assiduità, la puntualità, l’autorità e l’ascendente sugli alunni e sui colleghi. La votazione didattica è oggetto di un’armonizzazione annuale da parte di un collegio di esperti valutatori appartenente al corpo superiore del personale ispettivo. Questa armonizzazione permette di equilibrare le scale di votazione tra i diversi valutatori e di aggiornare le votazioni didattiche più vecchie. La votazione amministrativa può variare a seconda delle diverse académies (sorta di USR). Di conseguenza, una perequazione del voto amministrativo va a compensare gli scarti di voti tra insegnanti posti in una stessa situazione (stesso scaglione, stessa posizione amministrativa) da un’académie all’altra. L’aggregazione finale di due votazioni produce il voto globale su 100 punti che misura il valore professionale di ciascun insegnante e gli permette di far valere i suoi diritti in materia di avanzamento di scaglione. Di fatto, le diverse tappe della progressione di carriera degli insegnanti (promozione di scaglione, di grado, o di corpo) si basano tutte, più o meno in larga misura, su questo voto.

Anche in Germania, gli insegnanti vengono valutati dagli Ispettori scolastici (Schulaufsichtsbeambten) del Land e dal capo di istituto.

In base alle linee guida sulla valutazione degli insegnanti delle scuole del settore pubblico, predisposte dai Ministeri dell’educazione dei Länder, la valutazione deve basarsi su: colloqui con l’insegnante; rapporti sul suo rendimento predisposti dal capo di istituto; ispezioni durante le lezioni da parte del capo di istituto e degli ispettori scolastici, e valutazione dei risultati degli alunni. La valutazione si conclude con un rapporto finale che include solitamente una proposta relativa alla futura carriera.

Il discorso potrebbe finire qui perché già questa procedura che mette assieme ispettori e capi d’istituto in Italia sarebbe facilmente attuabile purchè il corpo degli ispettori venisse adeguatamente rinforzato. Per la scuola italiana sarebbe una vera rivoluzione in quanto il docente che non funziona sarebbe presto individuato, aiutato con ulteriore formazione quando è possibile oppure accompagnato alla porta nei casi più impossibili. Si instaurerebbe una carriera docente con aumenti per i migliori e i sindacati che hanno fatto dell’appiattimento salariale e corporativo la bandiera dell’arruolamento cambierebbero prospettiva e cultura.

  • 3) La Valutazione individuale svolta dal capo di istituto sulla performance professionale degli insegnanti come avviene in Polonia non appare politicamente praticabile in Italia. Colà per tutti i livelli di istruzione si svolge su sua iniziativa, o su richiesta dell’insegnante, dell’autorità educativa regionale, del consiglio di istituto o su richiesta del consiglio dei genitori.

Però dalla Polonia si potrebbe importare nel nostro sistema la valutazione descrittiva, che si conclude con una valutazione generale (Eccellente, Buono, Negativo). Tre semplici fasce che renderebbero il corpo insegnante intellegibile dall’utenza differenziando di conseguenza carriera e stipendi. Nel caso di una valutazione negativa, l’insegnante ha il diritto di richiedere una revisione della valutazione all’ente di supervisione pedagogica entro 14 giorni dal ricevimento del rapporto di valutazione. Il capo di istituto è obbligato a valutare la performance degli insegnanti entro 3 mesi dalla data della richiesta. Nel caso in cui questa risulti negativa, è possibile effettuare un’altra valutazione solo se l’insegnante segue una formazione aggiuntiva della durata di nove mesi (su richiesta dell’insegnante e con il consenso del capo di istituto).

In Olanda, in cui gli istituti scolastici godono di una forte autonomia, gli insegnanti sono nominati dal consiglio di istituto, che è responsabile del personale, e anche del reclutamento, della formazione e della valutazione del suo staff educativo. Quindi sarebbe corretto dire che gli organi di valutazione degli insegnanti sono le scuole stesse.

4) Un altro modello impraticabile in Italia è la valutazione delle scuole (autovalutazione) anziché dei singoli docenti

Ciò perché è un modello dei paesi del Nord in cui la selezione (accurata) di qualità sui docenti avviene già a priori al momento dell’assunzione che viene fatta dalla municipalità o dalla scuola stessa. Successivamente, le scuole definiscono i compiti dei docenti in una programmazione annuale, e poi rendicontano dei propri esiti alla municipalità e questa, a sua volta, allo Stato. Si osservi come in Finlandia non esiste neppure un corpo ispettivo e gli insegnanti non vengono valutati come tali. Tuttavia, molte scuole hanno un sistema di qualità, che prevede colloqui annuali di sviluppo tra docenti e capi di istituto. Questi colloqui sono organizzati per valutare il raggiungimento degli obiettivi fissati nel precedente anno e gli obiettivi dello staff educativo o i bisogni individuati per l’anno successivo. Anche nel caso della Svezia, la valutazione degli insegnanti non è regolamentata dalla legge. Tuttavia, tutto il personale della scuola ha regolari colloqui individuali con il capo di istituto sulla base degli obiettivi stabiliti annualmente a livello di scuola.

  • 5) Infine cosa potrebbe suggerirci il modello inglese. Essocostituisce un modello a sé in quanto paese che più si è spinto verso un modello di gestione delle scuole di tipo manageriale e privatistico. Gli organi responsabili della valutazione degli insegnanti sono:

– Capo di istituto + consulente esterno nominato dallo school governing body + 2 o 3 membri di quest’ultimo.

– Teacher’s team leader1: insieme al capo di istituto svolge la review (revisione della performance).

La performance degli insegnanti deve essere verificata annualmente. La normativa prevede che le scuole sviluppino una politica di gestione degli stipendi e della performance (pay and performance management) che:
· stabilisca quali sono i risultati attesi e come devono essere misurati;
· mostri come le disposizioni della scuola per la gestione delle performance degli
insegnanti siano collegate a quelle per il miglioramento della scuola, per
l’autovalutazione di istituto e per il piano di sviluppo scolastico;
· mostri come la scuola cercherà di applicare coerenza di trattamento ed equità tra  gli insegnanti con esperienza o livelli di responsabilità simili;
· stabilisca la tempistica del ciclo di valutazione;
· includa un protocollo di osservazione in classe;
· fornisca la necessaria formazione in caso di bisogno;

Seguendo l’Inghilterra potrebbe il nostro parlamento stabilire con legge standard professionali che definiscano compiti, conoscenze e competenze degli insegnanti ad ogni tappa della loro carriera. In Spagna esistono i piani per la valutazione dell’insegnamento nel settore pubblico. Confrontando tali piani e gli standard inglesi con le generiche formule adoprate nei contratti collettivi di lavoro italiani circa la funzione docente, è facile capire come un sistema scolastico debba stabilire precisamente in cosa consiste la professionalità docente. Le libere soggettive interpretazioni del ruolo degli insegnanti italiani abituati a considerare ancora la lezione frontale come unica modalità di trasmissione delle nozioni, la cultura dell’”ho sempre fatto così e mi sono trovato bene”, non vanno correlate tout court ad una mitica esigenza dell’innovazione ma per l’appunto inserite in un confronto internazionale perché non è che l’Italia sia la patria della libertà di insegnamento e gli altri paesi non la riconoscono, come spesso si crede.

NOTA: cit. da: MODELLI DI VALUTAZIONE INSEGNANTI IN UE (INDIRE Unita’ italiana Di Eurydice) nov. 2009

LA VALUTAZIONE? SI PUO’ MA NON SI VUOLE di Francesco Scoppetta (ex dirigente scolastico)

 “La valutazione degli insegnanti è questione mai risolta e forse irrisolvibile” scrivono Paola Mastrocola e Luca Ricolfi su Repubblica («Valutare gli insegnanti? Non si può. Ma rimuovere gli incapaci si deve»). Poi affermano una cosa molto risaputa:

“C’è un solo modo sicuro per capire se uno è un bravo insegnante o no: ascoltare ciò che di lui pensano gli allievi, le famiglie e i colleghi. In una parola, conta la fama. Vox populi, vox Dei. Tutti sappiamo quali sono i bravi insegnanti in una scuola e in ogni sezione, infatti al momento delle iscrizioni le segreterie vengono invase da richieste specifiche: tutti vogliono che i propri figli vadano nella sezione dove quel docente insegna. Verità tanto lapalissiana quanto indicibile, e soprattutto inutile”.

E’ proprio così, e tutti quelli che in Italia lavorano con vari ruoli nelle scuole sanno perfettamente che ogni preside sarebbe in grado di indicare i docenti migliori che ha. Basterebbe creare una “carriera” per i docenti, con avanzamenti di merito e di stipendio, sulla base di proposte del dirigente convalidate (o respinte) da nuclei di valutazione dove siano presenti i genitori. Naturalmente un dirigente deve essere a sua volta valutato e così facendo il sistema attraverso l’Invalsi metterebbe a terra un Sistema Nazionale di Valutazione dove gli attori principali dell’offerta formativa vengono remunerati bene a fronte di una professionalità ri-conosciuta.

Insomma, il dilemma è presto detto: o una scuola dove agli insegnanti illicenziabili dai poco ma in cambio chiedi loro poco; oppure una scuola dove i migliori vengono pagati bene e così ristabilisci un’ attrattività sociale del ruolo di insegnante per laureati brillanti. 

Questo modo di affrontare il problema è in Italia politicamente impossibile, mentre in altri Paesi esiste da tempo la valutazione del corpo docente e dirigente (v.: Valutazione dei prof e premi/Così si fa nel resto d’Europa).

Intendiamoci, essere valutati non piace a nessuno in nessuna azienda del mondo, ma soltanto la scuola italiana è costruita su un egualitarismo così finto e burocratico e dannoso con il pretesto tutto ideologico che la scuola non sia un’azienda. E infatti non lo è, perché, come spiegava l’indimenticabile Piero Romei, è un’impresa, un sistema complesso basato sull’organizzazione di gruppi di lavoro. La valutazione degli insegnanti da noi è questione che nessun politico ha mai ritenuto importante, e neppure per i dirigenti scolastici (nominati sin dal 2000) si è riusciti a trovare un modo oggettivo e scientifico di valutarli. Però quantomeno ci si sta provando pur senza arrivare mai al dunque, a definire cioè la retribuzione di risultato sulla base di una valutazione esterna.

Per i dirigenti persiste nell’indifferenza generale in ogni caso un dato giuridico abnorme: a parità di fascia di scuola lo stipendio mensile ha variazioni tra le regioni  talvolta di oltre mille euro. Insomma, la retribuzione dei dirigenti, pur ancora non valutati, viola il principio che chi fa lo stesso lavoro debba di sicuro ricevere lo stesso stipendio.  

Per i docenti la valutazione non è stata mai all’odg tant’è vero che anche Mastrocola e Ricolfi non ritengono realistico immaginarla e si accontenterebbero di poter quantomeno, attraverso i dirigenti, liberare le nostre scuole dai cattivi insegnanti. Lasciando al ministero l’onere di pensare dove collocarli una volta tolti dalle classi.

Ciò che i due studiosi, e non sono i soli, fanno rilevare, concerne l’oggetto della valutazione, che dovrebbe riguardare la qualità dell’insegnamento. La prestazione che concerne l’orario di cattedra. Se infatti, come è già avvenuto per l’attribuzione del recente bonus a coriandoli e come avviene attraverso la distribuzione del fondo d’istituto, il dirigente attribuisce salario accessorio ai proff che fanno progetti, recupero, extrascuola, in pratica un docente che in classe non funziona viene retribuito annualmente di più del suo collega bravo ( e dal quale dipende la credibilità della scuola o istituto) sulla base delle ore aggiuntive e delle funzioni che ricopre. La quantità cioè viene remunerata sulla base di dati oggettivi (le ore), i dirigenti così sono più tranquilli e non vengono contestati, ma le differenze qualitative tra gli insegnanti non emergono anche se, come ripeto sempre, in ogni scuola gli alunni sanno bene chi sono i docenti bravi. In realtà lo sanno tutti, finanche i muri se potessero parlare.

Il nostro sistema scolastico preferisce da sempre non vedere e non sentire, per cui il nostro raffazzonato sistema nazionale di valutazione è basato sul principio “mal comune mezzo gaudio”: ogni dirigente saggio ogni anno cambia sezione al docente che non funziona in modo che non faccia danni sempre agli stessi studenti. A me tale pratica è sempre sembrata la prova provata che la scuola-azienda sia una invenzione furbissima (storytelling) di menti raffinatissime che non pensano per nulla al diritto di ogni studente di avere un insegnamento di qualità per l’intero percorso di studi. Un SNV e una carriera docente non si vogliono perché la scuola italiana non ri-conosce più i capaci e meritevoli di cui pur parla la Costituzione. Per don Milani il padrone lo era perché conosceva 1000 parole, oggi ci direbbe che lo è perché sa scegliere i docenti migliori per i propri figli. Vedete come sarebbe facile conoscere i docenti migliori? Basterebbe chiederlo ai padroni piuttosto che ai dirigenti.

STIPENDI A CONFRONTO (27/10/21) Al pari delle influenze stagionali, torna di questi tempi il periodico tormentone del divario tra lo stipendio dei dirigenti delle scuole e quello dei docenti.

Questa volta è il Rapporto Eurydice 2021 Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe – 2019/20 a proporre elementi di riflessione che conducono, con taglio semplicistico, alla medesima conclusione: il docente italiano ha una retribuzione mortificante mentre il dirigente scolastico naviga nell’oro. 

Per evitare inutili guerre sante e per non alimentare l’odio sociale – da taluni invece accanitamente ricercato – è necessario ragionare correttamente e fare chiarezza, fornendo al dibattito spunti di riflessione più approfonditi. 

Sulla base dei dati proposti dal Rapporto stesso, osserviamo quanto segue: 

  • le retribuzioni dei docenti italiani, al lordo della tassazione, sono inaccettabilmente basse 
  • le retribuzioni dei dirigenti italiani, sempre al lordo della tassazione, sono il doppio di tali valori  
  • le retribuzioni dell’area contrattuale dei dirigenti di scuola, università e ricerca sono di gran lunga più basse di quelle delle altre aree dirigenziali statali 
  • all’interno di tale area, a loro volta, le retribuzioni dei dirigenti scolastici sono inaccettabilmente inferiori a quelle dei dirigenti delle università e degli enti di ricerca 
  • la progressione di carriera di un docente di scuola secondaria di primo grado, per quanto insoddisfacente, aumenta del 48,7% tra il livello d’entrata e quello di uscita, dopo 35 anni di servizio 
  • la progressione di carriera di un dirigente scolastico è inesistente 
  • in tutte le regioni d’Italia, il pagamento delle voci retributive di parte variabile (posizione e risultato) è in ritardo di almeno tre anni a causa dell’incapienza cronica del fondo che le alimenta, proveniente da risorse diverse da quelle che alimentano la parte fissa; il risultato è che i dirigenti scolastici italiani attendono arretrati dal 2018/19 
  • la fiscalità incide in modo profondamente diverso sullo stipendio di dirigenti e docenti: i primi vedono la loro retribuzione tassata al 41%, i secondi al 27%. 

In sintesi: in Italia i dirigenti delle scuole sono molto meno retribuiti degli altri dirigenti pubblici –pur avendo maggiori responsabilità ed essendo preposti a organizzazioni di particolare complessità come le scuole – e il loro stipendio, al lordo della tassazione, è il doppio di quello dei docenti che, però, è ai minimi della scala salariale europea.  

Risultano dunque pretestuose, oltre che infondate, le polemiche di chi confronta lo stipendio dei docenti con quello dei dirigenti scolastici: i confronti devono essere fatti a parità di mansioni e, soprattutto, a parità di responsabilità. 

È evidente come i docenti abbiano il sacrosanto diritto di ottenere incrementi sostanziali che riconoscano la loro professionalità. Lo stesso, peraltro, deve dirsi anche del personale ATA. 

La scuola tutta, infatti, ha reagito all’emergenza pandemica con prontezza e impegno. La sua funzione centrale nello sviluppo del Paese è altresì affermata all’interno delle previsioni del PNRR. È ora che i suoi lavoratori vedano concretamente valorizzato il loro ruolo, anche in termini di riconoscimento economico e sociale.  

UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA PER LA SCUOLA (Marco Ricucci, Corsera, 18/10/21) Mentre per le maestre esiste ormai da vent’anni una laurea dedicata, per i professori no. Il governo vuole riformare il sistema di formazione iniziale, ma ci vorrà coraggio per vincere le tante resistenze del mondo della scuola e dell’università
Quando ci si ritrova, in una delle tante o poche «ore buche», in sala professori di una qualunque scuola dello Stivale, da Trieste in giù, come diceva la compianta Raffaella Carrà, per rompere il ghiaccio, ci si chiede: «Sei di ruolo? O supplente? Sei entrato con il concorso, la SISS e il TFA, o il FIT?». Questi acronimi nascondono le «scuole degli aspiranti docenti», che nel corso degli ultimi venti anni si sono susseguite senza di fatto trovare una formula condivisa e stabile per formare in maniera adeguata i professori della scuola media e superiore. Se infatti per diventare maestro (qualche caso) o maestra (la quasi totalità) vi è un percorso ben strutturato di cinque anni, cioè la Facoltà di Scienze della Formazione Primaria, non è così per chi vuole insegnare negli ordini e gradi successivi. Un tentativo maldestro era previsto nella cosiddetta Buona Scuola di Renzi, che nel 2015 si era inventato un complicato marchingegno denominato FIT (Formazione Iniziale Tirocinio), che alla fine non è mai entrato in vigore: si trattava di tre anni, di matrice teorico-pratica da svolgere dopo 5 anni di università (3+2)!

Cosa è rimasto del FIT ai nostri giorni? Il «pezzetto» sopravvissuto alla scure del Ministro Bussetti, si chiama in gergo 24 CFU/CFA come è previsto dal D.Lgs. 59/2017 attuativo della Buona Scuola della legge 107/2015: si tratta di crediti, in discipline «antropo-psico-pedagogiche» e in metodologie e tecnologie didattiche. La definizione è di per sé sconcertante oltre che difficilmente pronunciabile, ma ha ancora un prezzo calmierato per le gli atenei pubblici, che possono «offrirlo solo» al prezzo massimo di 500 euro.

C’è chi evoca ancora i PAS, altra ennesima sigla che sciolta suona: Percorsi Abilitanti Speciali, che si erano svolti a metà degli anni Duemila, per i precari storici, che o non avevano passato l’ultimo concorso ordinario svoltosi nel 1999/2000 oppure non erano riusciti a entrare nella SISS (Scuola di Specializzazione Insegnamento Secondario), superando un test di ingresso altamente selettivo.

Che ci rimane da dire di fronte a questa cronistoria così desolante, e necessariamente semplificata? Col senno di poi, una risposta possibile è data dai risultati degli INVALSI e dai docenti di materie scientifiche bocciati all’ultimo concorso, ma la situazione è più proteiforme. Nemmeno l’ultimo libro della coppia Mastrocola-Ricolfi pare centrare la questione centralissima della formazione iniziale degli aspiranti docenti (nonché del reclutamento): Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo). Ci focalizziamo sempre sulle nostre allieve e sui nostri allievi, che diventano, nella propaganda della «scuola-che-non-funziona», il capro espiatorio di un sistema politico-accademico-sindacale che non vuole oppure non può funzionare così e così. La scuola non può essere trattata come un ammortizzatore sociale del precariato intellettuale…

Ci vuole coraggio, e anche tanto, per fare una rivoluzione copernicana in cui al centro sia veramente il sole dell’apprendimento e la luna dell’insegnamento, in quanto la scuola non è più la fonte unica della formazione e dell’istruzione, anzi non ha quasi più nemmeno tale ruolo nella società liquida e ipertecnologica e globale: spesso diventa una sorta di agenzia educativa, peraltro mal finanziata. Il poeta latino Orazio ricordava il suo maestro plagosus Orbilus, che con la frusta gli aveva fatto studiare la lingua latina e la letteratura, e così aveva, in un certo senso, contribuito a renderlo un grande poeta. Oggi le cose sono più complicate, però l’acquisizione delle competenze, disciplinari, pedagogiche, didattiche, psicologiche, metodologiche, tecnologiche e riflessive a cui i futuri docenti dovranno essere formati sono un punto fondante per un rinnovamento reale della scuola italiana. Non è un caso che si stiano svolgendo da settembre 2021 alcuni incontri tra il Ministro dell’Istruzione Bianchi e la Ministra della Ricerca e Università Messa. Ce la faranno a delineare un percorso serio, strutturato, stabile e condiviso per la formazione iniziale dei docenti? Con la scusa degli obblighi europei imposti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza…

Prima di tutto, sarebbe utile, come i «Discorsi demolitori» di Protagora, vincere le resistenze di gran parte del mondo accademico, che è ancora convinto che sapere i contenuti implica già saperli trasmettere: basterebbe andare a zonzo per alcuni siti di vari dipartimenti per constatare che chi insegna «didattica di….», non ha messo mai piede in una scuola! Nemmeno in gioventù, prima di essere incardinato nell’olimpo della ricerca. Sarà dunque questa la volta buona, o assisteremo all’ennesimo parto di una delle sigle prima menzionate? In una scena di un vecchio film in bianco e nero , «Totò al giro d’Italia» del 1948, un passante – Renato- chiede: “Lei è granoso?”. Il prof. Casamandrei, interpretato da Totò, risponde: «No, veramente io sono professore!». I miei «predecessori», a parità di stipendi sempre bassi, rispetto ad esempio alle media europea, avevano il lusso di poter essere e fare il professore, insegnando e non essendo «soffocati» dalla burocrazia, come lo siamo noi, «vittime», per certi versi, di una scuola che ancora deve trovare, nel terzo millennio, una propria identità e vocazione. I docenti dovrebbero imparare a interrogarsi su questo, prima di lamentarsi.

*professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano

IL DANNO SCOLASTICO di Ricolfi e Mastrocola Dunque, eccoci alla fine. L’ipotesi da cui è partita questa ricerca, ovvero che l’abbassamento dell’asticella accrescesse le diseguaglianze, pare pienamente confermata dai dati. E probabilmente lo sarebbe ancora di più se fossimo stati in grado di misurare la qualità dell’istruzione in modo più accurato.

Ora sappiamo che, sul destino sociale di un ragazzo, non influiscono solo l’origine sociale, il contesto economico, la lunghezza degli studi, ma anche altri due elementi cruciali: la qualità dell’istruzione ricevuta e il grado di indulgenza nella valutazione. A parità di altre condizioni, una scuola indulgente e di bassa qualità riduce le chance di successo, ma soprattutto – qui sta il punto cruciale – una cattiva istruzione amplifica il vantaggio dei ceti alti nei confronti dei ceti bassi. La scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza.

Ed ecco il paradosso. Chi ha voluto, o perlomeno permesso, l’abbassamento dell’asticella della valutazione? Chi si è battuto perché certe materie fossero alleggerite, o addirittura scomparissero? Chi ha combattuto contro gli sbarramenti – esami, propedeuticità, requisiti di ingresso – che un tempo proteggevano gli studenti dall’intraprendere studi per cui non avevano le basi?

Se abbiamo un minimo di lucidità, dovremmo dire: quasi tutti lo abbiamo voluto, o almeno permesso, o quantomeno ne abbiamo usufruito. A pochi genitori piace che i propri figli siano bocciati, o che debbano scegliere troppo presto un indirizzo di studi, o che non possano frequentare qualsiasi università, o che una volta scelta una facoltà non ottengano l’agognato titolo di dottore.

Ma se dal piano generale, quello delle responsabilità collettive, ci spostiamo a quello delle responsabilità politiche e culturali, lì il discorso cambia. Solo un cieco non vedrebbe come sono andate le cose: è la cultura progressista che si è battuta per la democratizzazione della scuola; è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come “diritto al successo formativo”; è la cultura progressista che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente erano contrari a rilasciare falsi attestati.

Bollati come reazionari, o più benevolmente come nostalgici, liquidati come incapaci di stare al passo con i tempi, i contrari alla finta democratizzazione della scuola hanno perso la loro battaglia. Ora non provano più nemmeno a dire la loro, perché sanno che le cose non possono cambiare, o meglio possono cambiare in una direzione sola: quella di un ulteriore abbassamento, naturalmente travestito da modernizzazione.

Quanto alla cultura progressista, alle legioni di pedagogisti, linguisti, intellettuali più o meno impegnati che hanno promosso la distruzione della scuola e dell’università come luoghi di cultura, non hanno nemmeno più bisogno di sostenere le loro idee, perché quelle idee hanno vinto. Anzi stravinto. Sono nelle cose stesse, e probabilmente anche nello spirito dei tempi.

Che poi queste idee abbiano reso sempre più difficile, in questo paese, la formazione di una vera classe dirigente, preparata e responsabile; che quelli che nonostante tutto ce l’hanno fatta siano perlopiù costretti a emigrare all’estero; che la mancanza di basi impedisca alla stragrande maggioranza dei giovani di completare gli studi universitari (in Europa solo la Romania ha meno laureati di noi); tutto questo non sembra importare molto a nessuno.

Eppure dovrebbe importare, almeno ai veri progressisti. Chi crede nell’uguaglianza delle condizioni di partenza, chi pensa davvero, come recita la Costituzione, che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, dovrebbe battersi perché tutti possano cimentarsi con successo in studi alti, non abbassare il livello perché tutti possano vincere. E invece è precisamente questo – abbassare per democratizzare – che è stato fatto, proprio da coloro che proclamavano di avere a cuore le sorti degli umili.

No, cari finti progressisti, su questo avete toppato. È stato uno sbaglio enorme. Il danno che avete inferto al nostro paese è grande, ma il danno che avete inferto ai ceti popolari è ancora più grave, e non scusabile. Perché l’abbassamento degli standard ha aumentato, non ridotto, le diseguaglianze sociali. Ricevere un’ottima istruzione era l’unica vera carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, cui molti di voi appartengono. Gliela avete tolta, e avete avuto il becco di farlo in nome loro.

Imperdonabile.

da “Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza”, di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, La Nave di Teseo, 2021, pagine 272, euro 19

UNO SGUARDO ALL’ESTERO PER CAPIRE LE SCUOLE DEGLI ALTRI

REGNO UNITO Come è organizzato il sistema scolastico del Regno Unito? Innanzitutto, l’istruzione pubblica è gratuita. Le scuole inglesi si dividono in maintained (scuole statali) e independent (scuole private). Sin dal XIX secolo il sistema scolastico del Regno Unito crede fortemente nella decentralizzazione delle decisioni. Sono infatti le Local Education Authorities (LEAs), 96 in tutto il paese, che amministrano tutto il sistema e si occupano di garantire che l’istruzione pubblica gratuita venga fornita in modo adeguato.

Non è quindi il Ministero della Pubblica Istruzione (Department for Education & Skills, fondato soltanto nel 1964) a occuparsi in maniera diretta delle scuole, nonostante esegua costantemente controlli.
Nel 1988 l’Education Reform Act ha introdotto un programma comune a tutte le scuole per quel che concerne le materie fondamentali; a 7 e 11 anni gli studenti sostengono esami di inglese, matematica e scienze. Sono le singole scuole a decidere metodologie e libri da adottare. Le scuole private sono esentate dal seguire le direttive della scuola pubblica, ma solitamente adottano anch’esse quello che viene definito il National Curriculum.

Il National Curriculum è formato da diverse fasi chiave (key stages) e 10 materie: 3 materie chiave (inglese, matematica e scienze) e 7 materie propedeutiche (informatica, storia, geografia, musica, arte, educazione motoria, lingua straniera).

A 11 anni c’è il passaggio dalla scuola primaria inglese alla scuola secondaria, ma non si sostengono esami in questa occasione, perchè lo Standard Assessment Task (SAT) stabilito dal National Curriculum prevede che gli studenti vengano valutati nel corso del loro percorso scolastico. a 7,11 e 14 anni. I SAT sono esami nazionali che vogliono stabilire la preparazione degli studenti con parametri standard per tutta la nazione, e vengono stilate annualmente classifiche per confrontare voti, media, miglioramenti e variazioni tra le diverse scuole.
L’istruzione superiore è strutturata secondo un sistema stabilito nel 1938, e poi ovviamente migliorato e perfezionato nei decenni successivi. Si tratta di un sistema tripartito: ci sono le Grammar School (i nostri licei), le Technical School (gli istituti tecnici) e le Modern School (gli istituti professionali). Quelle che invece sono chiamate Public School di pubblico hanno ben poco, perchè sono scuole private solitamente destinate solo a un’elite.
Non esistono in Inghilterra le classi così come le intendiamo noi. Come vedremo, gli studenti sostengono esami diversi a seconda del percorso post-diploma che intendono seguire. Non si studiano, né si hanno pertanto esami di tutte le materie (anche se ci sono alcune materie fisse). Un sistema flessibile quindi, al punto che non si ha tutti i giorni lo stesso orario. A differenza del nostro paese, dove le dinamiche dell’immigrazione e della conseguente società multietnica sono un fenomeno recente, la scuola inglese è caratterizzata da un elevato livello di integrazione multiculturale. Solitamente nella scuola inglese non esistono interrogazioni orali e la valutazione degli studenti si basa su test scritti e compiti in classe. Nella scuola secondaria i libri di testo sono solitamente scelti dal capo di ogni dipartimento dopo aver consultato tutti i colleghi.
Sono le scuole che singolarmente decidono quanti insegnanti tenere nel proprio organico. Il Board of Governors (Consiglio di Amministrazione) si occupa delle procedure selettive: non esiste infatti una graduatoria degli insegnanti.
L’abilitazione all’insegnamento non garantisce automaticamente un posto di lavoro. Dopo un periodo di prova solitamente gli insegnanti hanno contratti a tempo indeterminato.
E’ la scuola stessa che paga i professori. Gli stipendi sono regolati da un contratto nazionale, ma ci sono retribuzioni supplementari in base ai risultati. Le scuole possono dare premi, incentivi e gratifiche per trattenere i professori più bravi. Gli aumenti di stipendio per gli insegnanti vengono decisi dai singoli istituti e dai consigli di amministrazione. Il contratto di base degli insegnanti prevede 1265 ore di servizio annuali, che le varie scuole gestiscono a seconda delle necessità. Le ore settimanali di lavoro sono circa 37. La busta paga annuale di un insegnante del Regno Unito è di circa 32 mila euro, in Italia invece un insegnante guadagna circa 23 mila euro all’anno.
In Inghilterra c’è un sistema di valutazione scolastica molto dettagliato e le valutazioni ricevute dai professori vengono ampiamente pubblicizzate, in modo che le famiglie abbiano in mano il maggior numero possibile di informazioni per decidere in quali istituti iscrivere i propri figli. Il Performance management in base al quale viene valutato il lavoro degli insegnanti è composto da tre fasi: pianificazione degli obiettivi, monitoraggio dei progressi, valutazione finale dell’insegnante.

GERMANIA  Gran parte del futuro del bambino, sia sul piano didattico che su quello lavorativo, viene stabilito molto presto. All’età di 10 anni, infatti, dopo soli 4 anni di scuola, il bambino verrà valutato in base ai risultati raggiunti e viene indirizzato così al percorso di studio che dovrà seguire e che potrebbe anche penalizzarlo molto.

Al termine della scuola elementare non ci sarà un esame ma il bambino verrà comunque valutato e in base alle capacità che ha dimostrato nei 4 anni di scuola, verrà indirizzato verso il percorso di studi più adatto per lui.

Ciò significa che gli insegnanti, insieme ai genitori, dovranno decidere le sorti del bambino quando questo ha appena 9/10 anni, e qua sta la grande differenza rispetto all’Italia, dove la scelta dell’indirizzo di studi viene fatta normalmente dal ragazzo stesso all’età di 13 anni in base ai propri interessi più che alle sue competenze.

In Germania il sistema scolastico viene controllato dai singoli Stati Federali (Länder) che prendono le proprie decisioni educative e didattiche in piena autonomia, come ad esempio per quanto riguarda le ore di lezione. I Länder si accordano poi per instaurare alcuni caratteri che saranno comuni a tutta la Germania, come ad esempio il calendario didattico o l’intera durata della scuola dell’obbligo. Esistono anche delle scuole private, in genere a numero chiuso e di numero assai inferiore rispetto alle scuole pubbliche, e anche queste si devono uniformare alle normative ufficiali del Land in cui sono situate. Generalmente l’obbligo scolastico inizia all’età di 6 anni e durerà per 9 o 10 anni a seconda del Land. Prima di questo periodo i bambini possono frequentare l’asilo nido e/o la scuola materna (Kindergarten). Da ricordare inoltre che la scuola statale è obbligatoria fino ai 16 anni ed è gratuita per tutta la durata dell’obbligo scolastico.

Spesso viene fornita una sorta di tutoraggio per guidare i ragazzi all’inserimento scolastico. È molto frequente perdere un anno, che servirà a recuperare le carenze linguistiche.

In Germania l’istruzione è obbligatoria per almeno 10 anni. La struttura del sistema educativo e scolastico, che suddivide i percorsi formativi in categorie ben precise e abbastanza rigide, viene stabilita dai singoli stati federali (Länder). Anche il sistema tedesco prevede l’esistenza di scuole sia pubbliche sia private, ma queste ultime devono comunque conformarsi alle normative ufficiali del rispettivo Land. Gli stati federali si accordano su punti comuni generali che devono risultare identici in tutta la Germania, come ad esempio la durata della scuola dell’obbligo o il calendario. L’obbligo scolastico inizia a 6 anni di età e prevede 9-10 anni di frequentazione scolastica. Dopo quattro anni di scuola elementare gli alunni vengono ridistribuiti in vari tipi di scuole medie a seconda delle loro abilità. Quello tedesco è un sistema scolastico molto rigido, spesso accusato di voler determinare il futuro del bambino già in tenera età.

Tendenzialmente i tedeschi preferiscono mandare i figli a scuola il più tardi possibile, al fine di non rubare loro tempo prezioso per giocare e per prepararli psicologicamente alla scolarizzazione. Alla Grundschule,scuola elementare, si può accedere dai cinque anni e mezzo ai sei anni e mezzo, a seconda del mese di nascita. La Grundschule dura normalmente quattro anni; a Berlino e nel Brandeburgo sei. Alla scuola elementare si studiano materie base come scrittura, lettura, aritmetica, arte, musica, sport, religione e scienze naturali/sociali, lingua straniera. Obiettivo della Grundschuleè fornire a tutti gli allievi i requisiti necessari per il proseguimento degli studi. Il numero delle ore di lezione varia da 20 a 30 a settimana, in relazione alla classe e all’età del bambino. Il sabato è solitamente libero. Non sono gli insegnanti a cambiare classe al cambio dell’ora, ma gli studenti. Perciò vi sono intervalli di 5/10 minuti fra due ore consecutive e due o tre pause più lunghe di 15/20 minuti. Ogni docente insegna due o tre materie. All’anno sono previsti 200 giorni di scuola, esattamente come in Italia. Le ferie estive vanno dai primi di luglio a metà agosto; quelle autunnali durano due settimane. Altre vacanze sono previste per Pasqua (tre settimane), la Pentecoste (una settimana) e Natale (due settimane). La distribuzione e la durata delle vacanze varia comunque da Land a Land. Per i bambini con difficoltà di apprendimento esistono scuole speciali, che vengono normalmente raccomandate dagli insegnanti. Un esempio è la Allgemeine- Forderschule/Sonderschule (dove si può raggiungere anche la licenza media) riservata a bambini con handicap fisici. Vi sono inoltre scuole per ciechi, sordomuti e portatori di sindrome di down. Esistono infine istituzioni a tempo pieno dove i bambini con difficoltà vengono seguiti maggiormente e dove possono poi imparare un mestiere ed esercitarlo concretamente. Di rado i bambini diversamente abili vengono inseriti nelle scuole comuni. Alla fine della Grundschule non è previsto alcun tipo di esame, ma in Germania lo studente deve scegliere il percorso futuro già all’età di 10/11 anni. In caso la famiglia del bambino scelga una scuola di ordine superiore rispetto a quanto consigliato dagli insegnanti, l’alunno dovrà sostenere un test d’ammissione per poter accedere alla struttura.

Tra le scuole secondarie di primo grado si può scegliere tra HauptschuleRealschule e Gymnasium. I primi due anni di ciascuna di queste scuole rappresentano una Orientierungsstufe, ovvero un biennio di orientamento in cui le differenze tra i tre tipi di scuole sono ancora ridotte. Il periodo serve ad aiutare gli studenti a trovare la strada giusta.

L’insegnamento al Gymnasium (fino al dodicesimo o tredicesimo anno di istruzione) si basa su standard molto alti e prevede dalle 32 alle 40 ore a settimana e molte esercitazioni a casa. Si tratta della forma di istruzione più elevata e dura ben nove anni. Oggi questo indirizzo si propone di fornire competenze sia in ambito letterario sia economico. In Baviera si distingue tra ginnasio umanistico, delle lingue moderne e matematico-scientifico.

Nelle classi superiori del Gymnasium (due o tre, a seconda della regione) si abbandona la tradizionale organizzazione del percorso scolastico in classi a favore di un sistema strutturato in corsi, che permette allo studente di scegliere, entro certi limiti, alcune materie e altre no. Le materie obbligatorie sono tedesco, matematica e due lingue straniere. In molti licei si può scegliere durante gli ultimi anni fra vari indirizzi, ma la scelta circa la combinazione delle materie varia da scuola in scuola. Di solito all’inizio del triennio ogni studente deve scegliere almeno 10 materie e collaborare almeno ad un Projekt (progetto) che figurerà nello Studienbuch, il piano di studi, ma senza voto. Questo impegno corrisponde ad un minimo di 30 ore settimanali. 

Al termine del Gymnasium si deve sostenere l’Abitur, equivalente del nostro esame di maturità, per conseguire l’Allgemeine Hochschulreife, il titolo necessario per accedere all’università. In quanto alla valutazione, gli studenti non ricevono più la pagella (Zeugnis) a cadenza semestrale, ma si fanno accreditare i singoli corsi con rispettivo punteggio raggiunto nello Studienbuch. Sempre più ragazzi scelgono il Gymnasium. Chi non riesce a completarlo, lascia la scuola dopo il decimo anno ottenendo così la Mittlere Reife.

In Germania la responsabilità degli insegnanti è enorme, sia nei due anni di orientamento nella quinta e sesta classe, sia nella Gesamtschule (un tipo di scuola unificata), perché sono loro ad indirizzare gli studenti verso il percorso formativo che ritengono più adatto. I voti nelle scuole tedesche vanno dall’1 al 6: 1 è ottimo, 2 buono, 3 discreto, 4 sufficiente, 5 insufficiente, 6 gravemente insufficiente.

Con due discipline insufficienti si ripete l’anno.

Solo gli studenti che ottengono una votazione davvero buona all’Abitur, che come abbiamo visto in modo dettagliato nei paragrafi precedenti può essere paragonato alla nostra maturità, possono decidere in modo del tutto autonomo a quale università iscriversi. Soprattutto per le iscrizioni alla facoltà di Medicina è necessario un voto medio-alto. A decidere a quali università si iscriveranno gli studenti con votazioni meno buone è invece l’Ufficio Centrale per il Collocamento degli studenti negli Istituti Universitari (Zentralstelle für die Vergabe von Studienplätzen, ZVS). Se sei uno studente italiano e vuoi iscriverti in un ateneo tedesco solitamente non ci sono problemi nel riconoscimento del titolo di maturità.

FRANCIA Se prima succedeva solo alle elementari e in parte alle medie, la tendenza si sta diffondendo anche nelle scuole superiori francesi: la valutazione degli studenti è fatta non con voti e giudizi su una singola prova, ma sulle competenze acquisite.

All’università invece si è mantenuto il sistema di valutazione da 1 a 20 e ogni esame, come in Italia, prevede il conseguimento di un determinato numero di crediti.

Un ulteriore elemento da considerare è che, man mano che si prosegue nel proprio percorso di formazione, i ragazzi vengono valutati quasi esclusivamente su compiti scritti e non su esposizioni orali o interrogazioni.

Infine è bene ricordare che, nonostante esista, la bocciatura è poco praticata. Si preferisce orientare i ragazzi a un altro percorso formativo invece di far ripetere l’anno.

GLI ESAMI FINALI NELLE SCUOLE FRANCESI

In Francia, come in Italia, gli studenti devono sostenere l’esame alla fine delle scuole medie e quello alla fine delle superiori.
L’esame di maturità si chiama Bac, abbreviazione di Baccalauréat. A differenza di ciò che succede in Italia si svolge una prima parte alla fine del penultimo anno e una seconda parte alla fine dell’ultimo anno. Alla fine della Première è previsto il test scritto per tutte le materie facoltative, la prova scritta e orale di francese e quella di scienze per gli indirizzi L ed ES; invece alla fine del Terminale si devono dare tutte le altre materie (orali delle obbligatorie e delle facoltative).

Gli esami si tengono nel mese di giugno e occupano circa una settimana. Il voto è in ventesimi. In linea di massima le valutazioni comprese tra il 12 e il 14 corrispondono a un Assez Bien, quelle tra il 14 e il 16 a Bien, tra il 16 e il 18 a Très Bien. Chi prende un voto compreso tra il 18 e il 20 può ricevere anche la Félicitations du jury.

Sia alle medie che alle superiori il voto che si ottiene all’esame finale si definisce valutando le varie prove e tenendo in considerazione la media ottenuta durante gli ultimi tre anni di studio.

QUANTO GUADAGNANO I DIRIGENTI SCOLASTICI? Pietro Persiani (16/5/21)

E’ uscito recentemente su Orizzontescuola.it un apprezzabile articolo sugli stipendi dei Dirigenti Scolastici che richiede qualche puntualizzazione.

La struttura della retribuzioneIniziamo dalla struttura della retribuzione; Orizzontescuola.it indica tre voci:

-trattamento fondamentale, che comprende lo stipendio tabellare, eventuali assegni ad personam o la RIA, retribuzione di posizione parte fissa

-trattamento accessorio, che comprendela retribuzione di posizione parte variabile, la retribuzione di risultato, i compensi per la reggenza di altre istituzioni scolastiche

-trattamento economico per incarichi aggiuntivi, che comprende leindennità previste per le attività aggiuntive del dirigente, sia obbligatorie, come gli esami di stato, sia facoltative, come la direzione dei progetti PON/POR.

A nostro avviso, nella struttura della retribuzione appena riportata c’è un errore, che riguarda la retribuzione di posizione.

La retribuzione di posizione costituisce un’unica voce stipendiale, come chiaramente detto nell’art. 52, comma 1 del CCNL 2016/2018:“La retribuzione di posizione è definita, per tutte le posizioni dirigenziali, ivi comprese quelle prive di titolare, sulla base della graduazione delle stesse effettuata ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b).”

Il CCNL fissa poi, al comma 2 del medesimo articolo, il valore minimo e il valore massimo della retribuzione di posizione: La retribuzione di posizione di cui al comma 1 è definita entro i seguenti valori annui lordi per tredici mensilità: da un minimo di € 12.565,11, coincidente con la retribuzione di posizione parte fissa, come rideterminata ai sensi dell’art. 39, c. 4, fino ad un massimo di € 46.134,81.”

Il valore minimo costituisce la parte fissa della retribuzione di posizione, il minimo cioè che spetta a tutti i Dirigenti Scolastici, mentre l’intervallo tra 12.565,11 e 46.134,81 euro costituisce la parte variabile; si potrebbe dire che si tratta di un’unica voce stipendiale che si articola in due parti.

Non è quindi corretto, a nostro avviso, inserire la retribuzione di posizione/parte variabile nel trattamento accessorio: si tratta di un elemento fisso e continuativo della retribuzione, al pari dello stipendio tabellare o della retribuzione di posizione/parte fissa: non per niente viene corrisposta mensilmente, come la altre due voci.

La retribuzione di posizione/parte variabile non va quindi confusa con la retribuzione di risultato, che costituisce una voce aleatoria della retribuzione, come chiaramente stabilito dall’art. 50, comma 1 del CCNL 2016/2018: “La retribuzione di risultato è attribuita sulla base dei diversi livelli di valutazione conseguiti dai dirigenti, fermo restando che la sua erogazione può avvenire solo a seguito del conseguimento di una valutazione positiva.”

In caso di valutazione negativa la retribuzione di risultato non viene corrisposta, anche se finora non è mai successo, anche per il semplice motivo che il sistema di valutazione…non esiste!

La struttura della retribuzione indicata da Orizzontescuola non è quindi completa, va inserita una quarta voce: la retribuzione variabile, che spetta a tutti i Dirigenti Scolastici, anche se con importi variabili a seconda delle regioni e della fascia della scuola che si dirige.

Non stiamo parlando di questioni di lana caprina; la distinzione tra elemento fisso e continuativo della retribuzione ed elemento aleatorio è fondamentale soprattutto ai fini pensionistici e ai fini del TFR, dato che gli elementi fissi e continuativi della retribuzione costituiscono la base di calcolo per la quota A della pensione e del TFR.

Proprio in questi giorni, stiamo seguendo la vicenda di un collega siciliano andato in pensione nel settembre del 2019: nel famoso “ultimo miglio” è stato inserito solo lo stipendio tabellare e il collega si è quindi perso più di mille euro al mese di pensione! Per la verità, lo stesso è successo a chi scrive quando è andato in pensione e ci sono voluti molto tempo e pazienza per rimettere le cose a posto.

Questo ci fa capire il danno che i Dirigenti Scolastici italiani hanno subito con il taglio del FUN, non solo in termini di taglio dello stipendio, ma anche di taglio futuro della pensione e del TFR.

Quanto guadagna un Dirigente Scolastico

Ma quanto guadagna un Dirigente Scolastico italiano?

Per rispondere, a nostro avviso bisogna tener conto solo degli emolumenti che spettano a tutti, includendo tra questi anche la retribuzione di risultato, che in teoria potrebbe non essere corrisposta a qualcuno, come detto, ma finora non è mai successo.

Non teniamo quindi conto degli incarichi aggiuntivi, ivi comprese le reggenze, che riguardano solo alcuni e non sono in ogni caso una gran cosa, così come non teniamo conto della RIA e dell’Assegno ad Personam, dato che vengono ormai percepiti da pochissimi dirigenti.

Vediamo allora quanto guadagna in un anno il Dirigente Scolastico italiano “più ricco” e quello “più povero”:

FRIULI VENEZIA GIULIA
I FASCIA
45.260,73
stipendio tabellare
TOSCANA 3 FASCIA45260,73
stipendio tabellare
Posizione fissa12.565,11 Friuli
12.565,11 Toscana
IVC316,81 Friuli
316,81 Toscana
Posizione variabile e risultato24.570,49 Friuli
9.101,39 Toscana
Totale82.713,14 Friuli
67.244,04 Toscana

Le prime tre voci sono uguali per tutti, perché le prime due derivano dal CCNL 2016/2018 o la terza da disposizioni di legge, la diversificazione dipende dalle voci che derivano dal FUN e dalla sua suddivisione tra le diverse regioni: la retribuzione di posizione/parte variabile e la retribuzione di risultato, in base ai CIR relativi all’a.s. 2016/2017, tutt’ora vigenti.

Il Dirigente “più ricco” guadagna circa 15.500 euro l’anno del Dirigente “più povero”; al vertice della piramide troviamo i Dirigenti Scolastici del Friuli Venezia Giulia preposti ad una scuola di prima fascia e alla base i Dirigenti Scolastici della Toscana preposti ad una scuola di terza fascia.

4 TABU’ DA INFRANGERE PER EVITARE ALLA SCUOLA IL DECLINO (F. Luccisano e M. Campione-il foglio)
Mobilità dei docenti che alimenta il precariato, valutazione dei presidi, contratti. E una struttura che ha dimenticato la centralità dello studente

Tanto rumore per nulla? Mai come in questo biennio pandemico si è parlato di scuola. Abbiamo ripetuto a memoria il ritornello della scuola come strumento di eguaglianza. Abbiamo snocciolato il rosario della preoccupazione per il crollo dei test Invalsi. Ci siamo scontrati su riorganizzazione in salsa europea del calendario scolastico e green pass più o meno obbligatorio. Ma il cuore della questione scuola resta intangibile, racchiuso da un guscio di ideologia e pregiudizi. Abbiamo provato a riassumerlo in quattro tabù che, se non avremo il coraggio di toccare, ci condanneranno al declino.

Mobilità
Gli insegnanti italiani cambiano troppo spesso scuola. Ma non lo si può dire, tantomeno impedirlo. Ogni tentativo di limitarne la mobilità, rendendola simile a quella di ogni altro dipendente pubblico, è stato finora inefficace perché non è mai andato al cuore del problema. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: didattica spezzettata tra un supplente e l’altro, danni agli apprendimenti, mortificazione di talenti, spreco di denaro. Un caso specifico ma emblematico è quello degli studenti con disabilità: secondo un dossier di Tuttoscuola, l’Italia spende per i docenti di sostegno quasi 8 miliardi di euro l’anno e quasi due terzi degli studenti con disabilità cambia il docente ogni anno.

Perché la mobilità è un tabù? Perché alimenta il precariato (ogni docente che si sposta viene sostituito, il sostituto non sarà mai valutato e chiederà prima o poi di essere stabilizzato ope legis), perché consente di prendere servizio lontano da casa “tanto è solo per un anno”, perché affrontarlo implicherebbe mettere un faro sulle inefficienze del sistema. Il circolo vizioso della mobilità è un disastro per gli studenti, un’umiliazione per gli aspiranti insegnanti, un mercato per chi ne approfitta. Un precario avrebbe bisogno di formazione iniziale, affiancamento da parte di colleghi esperti, formazione sul campo. Il sistema si è invece organizzato per dargli aiuto nelle intricatissime graduatorie per le supplenze, corsi che servono solo per “fare punti” e salire in queste graduatorie, uffici legali senza scrupoli che boicottano i concorsi con ricorsi di massa. Chi offre questi tre servizi, ha trovato la gallina dalle uova d’oro.

Che fare? Uniformare le regole per la mobilità dei docenti a quelle di tutta la Pa, fare concorsi a livello di scuola o reti di scuole, introdurre (sul modello della provincia di Trento) il periodo di prova per i docenti precari.

Carriera
Gli insegnanti neoassunti italiani guadagnano mediamente quanto i loro colleghi europei. Ma già a metà carriera sono tra i meno pagati in Europa e al momento della pensione il gap arriva a circa 10 mila euro lordi annui. Nessuno, però, pronuncia la parola magica che cambierebbe le cose: carriere. Ogni proposta di far crescere in responsabilità e in retribuzione una parte del corpo docente sulla base del merito, delle responsabilità assunte, della permanenza in contesti difficili, si infrange contro il solito leit motiv: la scuola non è un’azienda, la competizione rovinerebbe l’armonia della comunità, le gratifiche al massimo le decidiamo in contrattazione scuola per scuola. Risultato? Fare l’insegnante è una scelta poco appetibile per i giovani laureati, la scuola non attrae i migliori talenti. Non solo: senza “quadri intermedi” tra dirigente scolastico e insegnanti, la governance delle scuole è più difficile e la capacità di una scuola di essere al passo con i tempi – formando i suoi docenti, dialogando con il territorio, progettando percorsi innovativi – è fortemente indebolita.

Che fare? Facile: il contrario di quello che si fa oggi. I percorsi di valorizzazione professionale non devono essere né contrattati di anno in anno, né a pioggia. L’obiettivo è quello di passare dal riconoscimento informale delle diverse funzioni che operano in ogni scuola, a quello formale. Il Pnrr sembrava andare in questa direzione, temiamo che quel treno sia stato indirizzato su un binario morto.

Valutazione
Abbiamo tutte le informazioni che servono per migliorare la scuola. Non le usiamo. Aprite il sito “Scuola In chiaro” del ministero e cercate una scuola qualsiasi. Ci troverete di tutto: il numero di laboratori, l’età media degli insegnanti, lo scostamento dai risultati Invalsi di quella regione, il numero di ragazzi che cambiano scuola durante l’anno, il numero di alunni per classi, il turn-over dei docenti…

Grazie al lavoro silenzioso di una parte del mondo della scuola, oggi disponiamo di un’infinità di dati per aiutare le famiglie a scegliere, e per spingere ogni istituto a migliorare. Ma non lo facciamo: i presidi non sono valutati (e pagati) per come muovono in meglio gli indicatori più rilevanti della propria scuola. Il ministero dispone di un numero di ispettori ridicolo (meno di 200 in pianta organica, in servizio poche decine). E le famiglie scelgono ancora sulla base del passaparola, ignorando ad esempio che spesso le differenze maggiori non sono tra le scuole, ma tra le classi. I finanziamenti non premiano le scuole che migliorano di più, né rafforzano quelle più in sofferenza. L’allergia alla valutazione ci consegna una scuola senza strumenti e senza direzione, in cui il successo formativo è interamente dipendente dalla buona volontà del suo personale. E quindi, se la guardiamo dal punto di vista dello studente, dalla buona sorte.

Che fare? Valutazione dei presidi, che incida sulla loro carriera; progressivo incremento del corpo ispettivo che lo porti in 5 anni almeno a 1.000 unità; piani di miglioramento per le scuole più vulnerabili.

Autonomia (e parità)
Autonomia e parità vanno insieme non solo perché sono figlie della stessa stagione riformatrice, quella che si è compiuta nella seconda metà degli anni Novanta e che trae la sua fonte di ispirazione dalla Conferenza sulla scuola organizzata nel 1990 dall’allora ministro Mattarella. Le leggi che introducono l’autonomia e la parità tra il 1997 e il 2000 si ponevano in forte discontinuità con la visione prevalente sia nelle forze che venivano dalla tradizione comunista che in quelle figlie di quella democratico-cristiana: una visione che tende a sovrapporre Repubblica e Stato. Autonomia e parità rompono quello schema, ben radicato anche nella prassi delle burocrazie ministeriali, e sanciscono che “scuola della Repubblica” e “scuola di Stato” non sono affatto sinonimi.

Per abbattere questo tabù è necessario rilanciare: dal concetto di autonomia scolastica (il focus è sull’organizzazione) si passi a quello di scuole autonome (il focus è sulle organizzazioni); si valorizzino le scuole come luogo delle autonomie (degli studenti, dei docenti, dei dirigenti e delle scuole stesse); si torni all’impianto della Conferenza del 1990. Sabino Cassese in quella sede disse: “Non si può attribuire a una comunità scolastica autonomia didattica se non le si concede in qualche misura autonomia di organizzazione, di destinazione delle risorse e anche di ricerca di risorse finanziarie, di scelta del personale”. Per strada si sono perse la scelta del personale e la ricerca autonoma di risorse finanziarie.
L’autonomia e la parità scolastiche non vanno trattate come una delle tante possibili modalità di organizzare l’amministrazione del sistema di istruzione, ma come la condizione per realizzare fino in fondo una scuola dove al centro sono i bambini e i ragazzi.

E veniamo così all’ultimo tabù, quello trasversale a tutti gli altri: gli studenti. E’ un tabù un po’ diverso perché si nasconde – come la lettera di Edgar Allan Poe – molto bene in vista. Tutti si riempiono la bocca della centralità dello studente, ma niente nella scuola è organizzato attorno alle sue esigenze. La classe, l’orario, il calendario, la lezione, la valutazione, la bocciatura (come per gli altri aspetti ai quali abbiamo accennato in questo articolo) sono tutte costruzioni degli adulti volte a favorire una razionale gestione del tempo e dei tempi, dello spazio e degli spazi, degli adulti: siano essi il professore, il preside o il provveditore. Ribaltiamo questa prospettiva, e forse anche gli altri tabù verranno giù come un castello di carte.

La terrificante sensazione che sulla scuola un altro anno sia passato invano (marco campione Linkiesta luglio 2021) Ha ragione l’onorevole Lucia Azzolina: sul Foglio di mercoledì sostiene che per il rientro a scuola in presenza siamo in ritardo. Possiamo pensare quello che vogliamo dell’operato dell’ex ministra e chi scrive ne pensa bene per alcune cose e non proprio benissimo per altre, ma sul punto ha ragione. Forse è poco opportuno che a parlare sia una persona che aveva responsabilità dirette solo fino a pochissimi mesi fa, ma purtroppo il vizio di dare la colpa sempre e solo a chi è venuto prima o dopo è duro da sradicare.

A prescindere da questo, però, è forte la sensazione che un altro anno sia passato invano. L’unica novità significativa è – per nostra fortuna – il successo della campagna di vaccinazione del Generale Figliuolo, ma per il resto siamo davvero in ritardo su troppi fronti perché tutto sia posto a settembre. Mi limiterò ai ritardi della scuola in senso stretto, ché se ci mettiamo a parlare di trasporti, tempi delle città, rafforzamento della medicina di base e potenziamento delle attività di tracciamento da parte delle ASL facciamo notte.

Siamo in ritardo, checché se ne dica, sui vaccini del personale scolastico, visto che la cifra tanto propagandata dell’85%, anche a causa del pasticcio comunicativo con Astra Zeneca, ha alcuni problemi che raramente vedo sottolineare: è una percentuale che non cresce da settimane, si riferisce a chi ha fatto solo una dose ma nessuno sa se faranno anche la seconda, non è chiaro se e quanto tiene conto del personale non di ruolo, non è omogenea su tutto il territorio nazionale (si va dal 100% o quasi della Campania al 50% scarso dello Sicilia).

Siamo in ritardo sull’adeguamento delle regole di ingaggio a un contesto che sembra essere mutato; sono quelle stesse regole che nel 2020 hanno dato l’alibi per chiudere tutto o quasi all’arrivo della seconda ondata autunnale. Al momento le procedure per mettere o meno in quarantena le classi sono le stesse dell’anno scorso, ma se il docente che risulta positivo (o contatto stretto) lavora in classi dove gli studenti e i colleghi sono tutti vaccinati? E se solo alcuni non lo sono?

Siamo in ritardo sulla copertura di tutti i posti vacanti e disponibili entro il 1 settembre (non solo docenti ma anche ATA). E lo siamo nell’indifferenza generale visto che l’unico argomento toccato da chi parla di personale è che ne servono millemila in più! Ma se facciamo fatica a coprire i posti ordinari, che senso ha continuare a buttare soldi ed energie su organici aggiuntivi? Siamo in ritardo sui sistemi di areazione, nonostante si sappia che la criticità sono proprio gli ambienti chiusi. In compenso però si danno soldi ai comuni e alle ex province per affittare appartamenti non si sa sempre bene da chi. Questi ultimi due ritardi hanno una cosa in comune: l’alibi del distanziamento usato per portare a casa altri risultati che nulla hanno a che fare con il Covid (più personale, più aule, più lavoro da casa per chi insegna lontano dalla stessa, meno classi cosiddette pollaio…).

Siamo in ritardo sulla formazione dei docenti per valorizzare la didattica integrata distanza-presenza. È la cosa su cui a detta di molti la scuola avrebbe fatto più passi avanti grazie alla pandemia e sui quali molti potrà farne grazie alla tecnologia, ma state certi che tornerà indietro velocemente se non si agirà in fretta sulle leve della formazione e dell’introduzione di nuove competenze a ogni livello dell’amministrazione scolastica.

Siamo in ritardo, ha scoperto il Sole 24 Ore, perfino sui banchi. Quelli a rotelle? No. Ma ci torno, prima lasciatemi dire una cosa su ’ste benedette rotelle. Troppa ironia si è fatta e si continua a fare su quei banchi, che in realtà – tornata la scuola in presenza – saranno utilissimi per fare didattica innovativa sfruttando la possibilità di modificare agevolmente gli ambienti di apprendimento. A questo servono. Se le scuole hanno richiesto quei banchi senza avere intenzione di usarli, solo per moda o per compiacere la ministra di turno che li sponsorizzava in TV, il problema non è dei banchi e solo in parte della ministra. Se li stanno tenendo a marcire nei corridoi è questo comportamento (o in alternativa quello di averli richiesti) a dover essere stigmatizzato, non l’utilità di quei banchi.

Ma – se la denuncia del Sole sarà confermata – se siamo in ritardo, le rotelle non c’entrano, le scuole non c’entrano: la responsabilità è altrove. Scrive Giovanna Mancini che spenderemo altri 6 milioni di euro per comprare 50.000 banchi e 50.000 sedie tradizionali «consegnate l’anno scorso nell’ambito del discusso bando Arcuri»; «si tratterebbe – continua l’articolo – dei lotti prodotti da una delle aziende vincitrici», che non sono adeguati «perché non conformi agli standard di qualità e alle richieste delle scuole, che perciò li hanno rifiutati». Una denuncia molto circostanziata sulla quale spero che il ministero saprà far luce e che, se confermata, si faccia restituire i soldi dalla ditta (sempre che il bando Arcuri prevedesse verifiche di conformità tra quanto richiesto e quanto consegnato…).

Siamo in ritardo sulla infrastrutturazione digitale di scuole e famiglie, sul recupero disteso degli apprendimenti colpiti da due anni scolastici disastrati, sulla analisi puntuale di cosa ha funzionato e cosa no, sulla rimodulazione del calendario scolastico…

Siamo in ritardo. O meglio: il ministero è in ritardo, perché i dirigenti scolastici e i loro collaboratori stanno dando tutto (anche in questi giorni di teorico riposo) per fare al meglio ciò che deve essere fatto. Per tessere la tela della ripresa a settembre in presenza, che però in assenza d’indicazioni (o, peggio, in presenza d’indicazioni dell’ultimo minuto) rischia di essere la tela di Penelope.

Un aforisma attribuito a Churchill recita: «Nessun problema può essere risolto congelandolo». È estate, fa caldo, approfittiamone per scongelare lo scongelabile.

DONATELLA PULIGA (La bellezza da sola non salva il mondo della scuola -La lettura) Già i racconti antichi non lasciano adito a dubbi: l’arte di insegnare non è appannaggio di tutti e, quando si tratta di formare un giovane, perfino gli dèi si affidano al personaggio, capace di attraversare mondi e nature diverse, che ritengono dotato di uno specifico carisma: il centauro Chirone, che educò, tra gli altri, Achille e Asclepio.

Oggi il mito sembra sbiadito: quella del docente è una professione che richiede titoli specifici, non in possesso di chiunque, ma pare del tutto normale tempestare gli insegnanti di consigli e appelli provenienti dai fronti più vari. Le considerazioni sul mondo della scuola — quasi si trattasse di un «grado zero» della riflessione sulla società — affollano i quotidiani, si fanno spazio nei talk-show per bocca di opinionisti brillanti: lo school-speech è ormai davvero un genere di moda, praticato da scrittori, psichiatri di grido, politologi, economisti… «La società chiede alla scuola sempre di più, ma non riconosce ai docenti alcun ruolo all’interno del dibattito pubblico. Perciò si ascolta il parere di chi non ha esperienza diretta, ed è il trionfo dei cliché», osserva Fabrizio Loffredo, dall’Istituto Alberghiero di Riccione dove insegna portando avanti un progetto, nato già quando era tra i miei studenti, sulla cultura classica nelle scuole non liceali. E continua: «I maître-à-penser di turno ripetono a noi insegnanti: “Portate a scuola la bellezza!”, come se la celebre frase, peraltro del tutto decontestualizzata, pronunciata dal principe Myškin nell’Idiota di Dostoevskij (“la bellezza salverà il mondo”) fosse il toccasana di tutti i mali che affliggono la scuola».

È il genere di suggestione — ammettiamolo — che proviene da chi non vive a contatto con gli studenti. L’uso «terapeutico» della bellezza in classe si scontra con una realtà dura. Immaginiamo di servire in tavola una cena elaborata e squisita a un avventore piegato dal mal di stomaco, che può ingerire a stento due cucchiai di riso bollito. Se non toccherà il cibo più appetitoso non sarà certo perché non gli è stato offerto. I classici della letteratura e dell’arte, come pure l’incontro con un autore, la visita a un museo, la visione di un film, che nutrono nel profondo l’umanità, non sono dotati di poteri taumaturgici: la terapia della bellezza a scuola si riduce a un patetico luogo comune, se non si considera la realtà con cui deve misurarsi l’insegnante del 2021. Per la media degli studenti di una secondaria superiore è semplicemente impossibile seguire il filo di una narrazione articolata: si deconcentrano, dimenticano i nomi dei personaggi e dei luoghi, si annoiano. Usano un lessico ripetitivo e ancorato al primo livello del quotidiano, e orientarsi nella complessità di un testo risulta per loro impresa titanica. La versione degli school-speaker, invece, ritrae i giovani del terzo millennio come bon sauvage cresciuti lontano dalla civiltà, ignari degli amabili doni delle Muse, ma solo perché nessun adulto acculturato si è mai degnato di spiegare loro che la bellezza, semplicemente, esiste.

Educare alla bellezza — e attraverso di essa — è oggi, piuttosto, la sfida che chiede di sporcarsi le mani, scendere dalla cattedra restando autorevoli, accettare che si stia combattendo una lotta impari contro un nulla che è già avanzato di parecchio. Prima ancora di chiamare in causa Dostoevskij, Omero, Seneca, Dante, Flaubert, Magritte o Mozart, bisogna rimboccarsi a lungo le maniche intorno alle «a» con o senza «h», alle regole sociali di base, all’alfabeto emotivo di cui molti ragazzi e ragazze sanno pronunciare solo qualche storta sillaba. Senza tutto questo, infatti, l’educazione al bello diventa uno slogan intellettualistico e decisamente elitario.

La bellezza non salverà i nostri studenti se pretendiamo che lo faccia nello stesso modo in cui ha toccato noi: dobbiamo accettare la diversità e la trasformazione. La bellezza, da sola, non salverà il mondo della scuola se non saremo pronti a riconoscere — anche operando necessari distinguo — l’autorevolezza delle figure professionali che lavorano al suo interno.

In occasione dei grandi appuntamenti calcistici — come gli Europei che stanno per cominciare — gli italiani diventano tutti allenatori; a proposito di scuola, sembra altrettanto forte la tentazione di sentirsi tutti un po’ Chirone. Che sia una prova della tenuta del mito?

(marco campione, linkiesta) Brunetta ha torto sulla scuola ma ragione sulla pubblica amministrazione In un articolo di qualche giorno fa scrivevo che le norme contenute nel decreto 44/2021, non solo tagliano fuori le giovani generazioni dalla scuola (tesi sostenuta anche pochi giorni dopo da Boeri e Perotti su Repubblica) ma soprattutto non hanno lo stesso impatto sulla scuola e sul resto della Pubblica amministrazione.

Decidere di sostituire la prova pre-selettiva con la sola valutazione dei titoli se ha senso per una amministrazione che non fa concorsi da tempo, è invece folle per la scuola, dove i concorsi si fanno più o meno regolarmente da una decina d’anni e gli ultimi sono stati banditi nel 2020.

La norma Brunetta diventerebbe semplicemente una seconda occasione per i bocciati al concorso straordinario, a maggior ragione se fossero riaperti i termini per partecipare. Sarebbe stata comunque una seconda occasione, ma con questa novità lo diventerebbe a scapito di tutti gli altri, che verrebbero esclusi ancor prima di partecipare per la sola colpa di essere giovani o di non aver mai insegnato prima. Non credo sia un caso che lo stesso ministro Brunetta, nel replicare molto duramente alle critiche, non abbia proferito parola sulla specificità della scuola.

Chi ha ragione dunque tra Boeri-Perotti e Brunetta? Parafrasando la gaffe di un calciatore di alcuni anni fa: sono completamente d’accordo a metà con tutti i mister. Sulla scuola hanno ragione i primi, sul resto della Pubblica amministrazione (con qualche riserva che tralascio per brevità) il secondo.

A proposito di specificità della scuola, due ulteriori considerazioni. Primo: abbiamo visto qui come i docenti siano gli unici dipendenti pubblici o privati che per fare carriera devono smettere di insegnare, vedremo tra poco come siano anche gli unici che possono cambiare sede con pochissime restrizioni. E altri esempi potrebbero essere fatti: il contratto collettivo nazionale del personale docente e non docente è il medesimo, le ferie sono di fatto obbligatorie in determinati periodi, l’organizzazione delle attività funzionali all’insegnamento è poco disciplinata e la loro retribuzione forfettizzata… l’elenco è lungo.

Secondo: di questa specificità si è per lo più tenuto conto, prevedendo norme per la scuola diverse da quelle del resto della Pubblica amministrazione. Niente in contrario a usare le stesse regole per tutti, anzi, ma allora siano le stesse per tutto. Guardate le reazioni quando qualcuno propone di distribuire il calendario scolastico su 12 mesi come avviene in gran parte d’Europa, o di far uscire dall’indeterminatezza il mare magnum delle attività funzionali all’insegnamento, o di applicare ai docenti le stesse regole degli Enti Locali per la mobilità…

A proposito di mobilità, è questo un altro ambito nel quale le norme volute da Brunetta, per la scuola avrebbero un effetto distorsivo. È di questi giorni la discussione sul vincolo quinquennale, che soprattutto Lega, parte del Partito democratico e i sindacati vorrebbero rimuovere.

Il vincolo impedisce al neoassunto di chiedere il trasferimento per almeno cinque anni, visto che ha chiesto lui di lavorare lontano da casa. La rimozione del vincolo quinquennale avrebbe però ricadute sulla qualità del sistema nel suo complesso e quindi sull’intero paese. Perché la ministra Azzolina ha introdotto il vincolo? Perché i trasferimenti hanno sempre un po’ penalizzato gli studenti, ma da qualche anno la penalizzazione è maggiore e non riguarda solo loro.

Prima Ugo (trasferitosi dopo la laurea a Cuneo da Catania) dopo qualche anno di precariato entrava in ruolo e quando si liberava il posto a Catania sceglieva se restare a Cuneo o avvicinarsi a casa. Questo avveniva a scapito della continuità didattica dei suoi studenti, è vero, ma Ugo veniva sostituito da Lia, che era nella maggior parte dei casi anch’essa precaria, ma quasi sempre abilitata all’insegnamento.

Negli ultimi anni cosa è cambiato? Tre cose. La prima: il fenomeno è diventato di massa e non più limitato a poche regioni del nord. Ogni anno ottengono il trasferimento definitivo circa 50 mila docenti, triplicando l’effetto del turnover fisiologico dovuto ai soli pensionamenti. La seconda. I tanti Ugo d’Italia non sono più sostituiti da una Lia che è sì precaria, ma per lo meno abilitata all’insegnamento, ma da docenti non specializzati sul sostegno (circa il 50% dei 150 mila docenti di sostegno in servizio non è specializzato!) e sui posti comuni da docenti non solo non abilitati, ma sempre più spesso non laureati.

Terza differenza: la mobilità di massa non è più un male necessario che penalizza “solo” gli studenti del centro-nord, ma è sempre più uno svantaggio anche per quei docenti del sud che vedono occupare da chi chiede il trasferimento i pochissimi posti che si liberano ogni anno vicino casa. Esodo e controesodo sono sempre meno conseguenza di una scelta, seppur sofferta, e sempre più un calvario obbligato.

Bisogna dunque intervenire sulla mobilità se si vuole togliere il vincolo quinquennale senza fare troppo danno al sistema. Ne sono consapevoli i responsabili scuola di due partiti di maggioranza, Manuela Ghizzoni del Partito democratico e Gabriele Toccafondi di Italia Viva (qui e qui due loro interviste, che sostanzialmente sul punto dicono la stessa cosa: vanno contemperate le esigenze dei docenti e degli studenti).

Mentre si interviene per tappare la falla che fa uscire l’acqua, si deve anche riaprire il rubinetto che riempie la vasca. Fuor di metafora, è necessario fare in modo che i posti da docente al centro-nord siano coperti da personale di quelle regioni, ovvero disposto a trasferirvisi definitivamente. Si può fare in due modi, non alternativi: agire sulla retribuzione, aumentando quella iniziale e introducendo le carriere per i docenti; superare il concorsone nazionale per sostituirlo con concorsi di scuola o di rete di scuole.

E nel frattempo? Nel frattempo evitare di peggiorare le cose aprendo altre falle, come rischia di fare il decreto 44. Complici forse la crisi economica, certamente la necessità di aprire il concorso anche a chi non è abilitato, il concorso ordinario per medie e superiori ha visto 430 mila domande di partecipazione e il 43% di queste proviene dal centro-nord.

Con le nuove regole, la maggior parte di questi, che ha poco servizio, non potrà nemmeno partecipare al concorso vero e proprio. In questo modo la maggior parte dei vincitori rischia di entrare in ruolo lontano da casa e, rimosso il vincolo quinquennale, chiederanno subito il trasferimento, costringendo a loro volta i precari del sud a spostarsi al nord per poi chiedere il trasferimento… e così via in una perversa spirale infinita che avrebbe fatto invidia a Escher. Fermate questa giostra: i docenti e gli studenti italiani hanno diritto di scendere.

(antonio gurrado, il foglio) Riaprire le scuole va benissimo. Il problema è cosa ci troveremo dentro: il solito sistema bloccato e stantio, sindacalizzato allo stremo, impiccato al formalismo, colto di sorpresa all’inizio di ogni anno scolastico. Propongo cinque innovazioni drastiche per far seguire alla riapertura un’effettiva ripartenza, evitando che la pandemia diventi tempo sprecato.Allungare l’anno scolastico. L’idea di anticipare l’inizio delle lezioni o di posticiparne la fine è circolata solo in termini emergenziali. Diventerà la norma: lo svolgimento ordinario delle lezioni resterà da metà settembre a inizio giugno ma nelle settimane estive si sperimenterà la scuola liquida: non solo sporadici corsi di recupero ma uno spazio per approfondire, esplorare, scoprire nuovi campi del sapere. Consentirà di comprendere che la cultura non è ciò che uniforma tutti ma ciò che distingue ciascuno dagli altri, e che il programma è solo la base di conoscenze minime necessarie, non il paradigma massimo da conseguire a fatica. Ogni scuola differenzierà la propria offerta estiva in base alle capacità specifiche dei docenti, e a ogni studente verranno certificate competenze diverse. Crollerà l’ideale ipocrita che un istituto valga l’altro e che gli studenti siano tutti uguali.Favorire la chiamata diretta. Lo hanno visto i dirigenti scolastici durante l’emergenza: l’autonomia è effettiva quando ci sono rogne, solo nominale per l’ordinaria amministrazione. Basta pensare ai lacciuoli che ogni santo anno mettono in moto il valzer delle cattedre vacanti. Ogni dirigente disporrà di una percentuale di insegnanti da scritturare direttamente, tramite colloquio. Per evitare arbitrii satrapici, le chiamate dovranno essere coerenti coi contenuti del Piano dell’Offerta Formativa che ogni scuola stila ogni tre anni. Se un Piano prevede l’insegnamento della chimica in inglese, il preside potrà convocare docenti che sappiano praticarlo, anche se a rigor di graduatoria il posto spetterebbe a un insegnante di chimica che non sa l’inglese. Gli insegnanti saranno fidelizzati alla scuola, garantendo la continuità didattica e minimizzando l’imbarazzo delle cattedre vuote fino a ottobre.Normalizzare la didattica a distanza. Avete capito bene. L’odio montante per la Dad è dovuto alla sua identificazione con la didattica di emergenza, surrogato delle abituali lezioni rivelatosi insostenibile alla lunga. Col ritorno alla normalità la Dad sarà inoculata pacificamente nel sistema scuola: ore asincrone in cui l’insegnante fornirà materiale su cui gli studenti lavoreranno quando vorranno/potranno; giorni (tipo il sabato) in cui si farà lezione ciascuno da dove gli pare; partecipazione di docenti guest star, specialisti in un determinato campo, che interverranno in forma virtuale direttamente sugli smartphone degli allievi. Gli studenti verranno preparati a un mondo in cui, qualsiasi lavoro faranno, non sarà né tutto in presenza né tutto a distanza.Uniformare gli esami. Due anni di emergenza hanno squarciato il velo di Maya: gli esami di Stato (alle medie e alle superiori) non esaminano nessuno, sono un evento sociale a metà strada fra il ballo dei debuttanti e un’amnistia giubilare. Per rimettere al centro il sapere, la scuola renderà altrettanto centrale la credibilità della verifica rassegnandosi alla crudeltà della selezione, prima che gli studenti la scoprano sulla propria pelle nel mondo reale. Gli esami delle medie fungeranno da prova d’ingresso per le superiori, con commissioni composte da insegnanti di liceo, vincolando i candidati alla scelta successiva in base a inclinazioni e capacità comprovate. La maturità si svolgerà interamente per iscritto e sarà valutata anonimamente durante l’estate da una megacommissione centralizzata che assegnerà voti in modo univoco. Gli studenti faranno un bagno di realtà e ciascuna scuola capirà davvero se funziona o no.Interagire con l’Università. In molte grandi società di calcio le giovanili, dai pulcini alla primavera, giocano con lo stesso schema della squadra di Serie A. La scuola invece è un mondo a sé stante fino alla quinta liceo e il salto verso l’Università è abissale. Per favorire l’interazione in modo pragmatico le Università segnaleranno ai presidi i propri laureati eccellenti, i dottorandi, gli assegnisti, i ricercatori temporaneamente senza contratto, mandandoli a scuola per tenere lezioni ordinarie o corsi estivi straordinari. Sarà un’ottima palestra per entrambe le parti. Diranno che sono proposte irrealizzabili e irricevibili ma vi svelo un segreto: sono necessarie proprio perché la mentalità che ingabbia la scuola le rende irricevibili e quindi irrealizzabili. Lo ha spiegato Draghi stesso: quando l’emergenza passerà, non sarà come se tornasse la luce dopo un blackout. Nulla sarà più come prima, bisogna prenderne atto e trasformarsi. Perché non dovrebbe valere anche per la scuola?

Appello promosso da “Condorcet. Ripensare la scuola” (Marco Bollettino, Marco Campione, Paolo Fasce, Simone Pacini, Mauro Piras, Francesco Rocchi) NON PERDIAMO ALTRO TEMPO: salviamo il futuro dei nostri studenti #nuovocalendario #tempoperlascuola #ripensarelascuolaLa scuola è di nuovo nell’emergenza. Tutti gli studenti e le studentesse delle scuole superiori sono tornati alla didattica a distanza; nelle regioni “rosse”, che aumentano con il passare dei giorni, seguono le lezioni da casa anche gli alunni e le alunne delle seconde e terze medie; regioni e comuni in alcuni casi dispongono in modo autonomo di lasciare a casa anche le bambine e i bambini di infanzia e primaria. Il nostro timore è che possano prevalere, nei governi nazionale, regionali o locali, quelle forze politiche che si sono più volte espresse per un lockdown generalizzato che includa anche la scuola. In ogni caso, la chiusura delle scuole rischia di durare fino a dopo Natale.

A pagare le conseguenze di tutto questo saranno come al solito i ragazzi e le ragazze, in particolare quelli e quelle più fragili o con un contesto familiare o sociale critico. Aumenteranno fenomeni purtroppo già presenti prima del virus: povertà educativa e diseguaglianze. La posta in gioco è il futuro di intere generazioni: le stesse alle quali stiamo chiedendo in prestito i soldi per affrontare l’emergenza.

Siccome il segmento più in sofferenza è quello dei bambini e delle bambine la prima cosa che chiediamo con forza è di considerare solo come extrema ratio la chiusura della scuola dell’infanzia e della primaria. Si investano quindi tutte le risorse necessarie in termini di supporto sanitario (priorità alla scuola per i tamponi) e logistico (spazi e trasporti per prima cosa).

La seconda richiesta è di iniziare da subito a programmare il recupero del tempo scuola perso. Il tempo scuola in presenza perso è enorme: dal 5 marzo al 10 giugno 2020, 75 giorni, che diventano 84 per quelle regioni in cui il lockdown è iniziato il 25 febbraio. A questi vanno sommati i giorni persi in questo anno scolastico almeno a partire dal 24 ottobre, cioè da quando è iniziata la riduzione al 25% del tempo scuola in presenza alle superiori. Se si aggiunge la pausa estiva, che è stata troppo lunga anche in questo anno di emergenza, il quadro è molto grave.

Questa situazione non è più sostenibile. La didattica a distanza di questi mesi è uno strumento di emergenza, che ha permesso, grazie all’impegno e alla professionalità di molti docenti e dirigenti, di alleviare la sofferenza del sistema di istruzione, ma non è adeguata per periodi prolungati. Va continuata, migliorata, resa socialmente equa, ma non può essere l’unica risposta.

La nostra proposta è questa: iniziamo a calendarizzare settimane per il recupero del tempo scuola perso a causa di queste interruzioni, pensiamo cioè a rimodulare i periodi di vacanza e allungare l’anno scolastico molto oltre il 10 giugno. Va fatto in modo flessibile e differenziato, a seconda delle regioni, anche interrompendo quando occorre l’attività a distanza, per consentire a studenti e docenti di prendere un po’ di respiro. Un calendario «europeo», caratterizzato da vacanze estive più corte (quando il virus è meno aggressivo) e sospensioni dell’attività di alcuni giorni durante l’anno. Aiuterebbe ulteriormente far sì che il personale in servizio rimanga il più possibile nelle stesse classi anche per il prossimo anno scolastico, in modo da consentire una programmazione dei recuperi più distesa e che includa per lo meno anche i primi mesi del prossimo autunno.

Ci sono mille problemi tecnici e organizzativi, ma dobbiamo farlo. Altrimenti anche quest’anno scolastico sarà perso.

Questo è un appello rivolto a tutti i soggetti che hanno responsabilità in ambito scolastico: rappresentanti politici, partiti, sindacati, associazioni, tecnici ecc. A tutti chiediamo di promuovere una campagna nazionale per salvaguardare il più possibile infanzia e primaria e per il recupero del tempo scuola perso, perché non solo il Governo e il Parlamento, ma tutta la società, si facciano carico della priorità di salvare il futuro del paese.

ANDREA GAVOSTO (intervista, il Foglio, 14/3/21)
Didattica, edilizia scolastica e Invalsi, sono questi i punti salienti per un’efficace riforma della scuola
. Questo il pensiero di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che abbiamo incontrato per fare il punto di una situazione molto complessa e decisiva per il futuro del paese. Gavosto ha le idee chiare perché da anni con la Fondazione Agnelli studia l’emergenza educativa che ora è sotto gli occhi di tutti. Con lui affrontiamo alcune tematiche, prima tra tutte l’annosa questione scuola chiusa – scuola aperta. “Non sono un esperto sanitario – ci dice – ma credo che la pericolosità delle nuove varianti, più contagiose anche per i più giovani, giustifichino la prudenza di questo provvedimento. Semmai, ci si può chiedere se abbia senso tenere le scuole chiuse e i centri commerciali aperti. Peraltro, credo che la scuola a singhiozzo di queste ultime settimane – aperta, chiusa, sempre nell’incertezza – non sia stata molto più efficace del lockdown”.

Sicuramente questo ultimo anno lascia delle ferite nella scuola  che andranno sanate. “Tutti dobbiamo recuperare qualcosa in termini di apprendimento e di socialità – continua – in particolare i più fragili per ragioni socioculturali o perché disabili”. I dati parlano chiaro e ci dicono che la frattura tra nord e sud si è esasperata e la scuola diventa sempre meno un ascensore sociale. Come fare? “Migliorare la qualità della didattica, immaginare in alcune zone le scuole aperte tutto il giorno (per fare questo occorre un piano per l’edilizia scolastica) offrendo a ciascuno studente un percorso personalizzato per superare le difficoltà. Ma questo richiede anche insegnanti ancora più bravi e preparati”. Il tema dei docenti è un punto spinoso. Nell’ultimo anno si sono spesi, affrontando con generosità questa nuova situazione. E’ pur vero però che le esigenze formative del nostro corpo docente erano già evidenti prima della pandemia e lo sono ancor più chiaramente ora. “Occorre – dice Gavosto – una migliore qualità dell’insegnamento, che si può ottenere attirando nella professione docente i migliori laureati, formandoli bene, selezionandoli in modo rigoroso e dando loro incentivi di carriera. Il contrario di quel che si è fatto finora: ti do poco, ti chiedo poco”.

Per attuare quella rivoluzione copernicana che la scuola tanto attende, potrebbero aiutarci i fondi di Net Generation Euu con i quali impostare un grande piano per l’edilizia scolastica e la formazione. Ne ha parlato qualche giorno fa in Parlamento proprio Gavosto: “Le nostre scuole sono, in media, vecchie e hanno bisogno di interventi sia sulla sicurezza sia sulla sostenibilità, in particolare, energetica. Ma sicurezza e sostenibilità non bastano. Serve intervenire contemporaneamente sulla qualità degli spazi scolastici, sugli ambienti di apprendimento, per renderli più adatti a una didattica più ricca e moderna. Ma anche a una più lunga apertura come accennato prima”. Nel mezzo, ci sono i prossimi esami e le prove Invalsi. I primi avranno luogo in presenza con la discussione di un elaborato scritto; le prove Invalsi, che l’anno scorso sono state eliminate, si effettueranno ma non saranno obbligatorie per essere ammessi all’esame finale. “Spero che quest’anno si facciano perché sono l’unico strumento a disposizione per conoscere l’entità delle perdite di apprendimento causate dalla pandemia. Per quanto concerne la maturità così com’è non serve, perché non dà esiti affidabili, in quanto non confrontabili. Per una riforma bisogna guardare fuori dall’Italia, dove in molti paesi – soprattutto con il modello del central examination – è possibile avere esiti confrontabili da classe a classe, da scuola a scuola, da città a città. Questo sarebbe utile allo studente, come pure all’università dove egli vuole immatricolarsi o al datore di lavoro che consideri di assumerlo”.

FATE DEGLI INSEGNANTI GLI EROI DELLA RIPRESA di Valentina Chindano e Francesco Luccisano (su il Foglio 15/2/21) Medici e infermieri sono stati gli eroi della pandemia. Il governo di Mario Draghi dovrebbe lavorare affinché gli insegnanti siano gli eroi della ripresa. Per farlo non basteranno più risorse. Serviranno soluzioni organizzative e strutturali. Serviranno riforme, a partire da una carriera docente che non appiattisca il percorso professionale di chi forma le nuove generazioni. La pandemia ha fatto male alla scuola, per almeno due ragioni. La prima è sostanziale: ha aggravato tutti i mali esistenti del nostro sistema educativo. Ha accentuato l’abbandono dei più vulnerabili, ha bloccato per un anno i test invalsi, ha acuito il problema della gestione del personale (per cui ci troviamo con classi troppo numerose anche se abbiamo più docenti per studente di tutti i grandi paesi occidentali). La seconda ragione è reputazionale: mentre il giudizio degli italiani sul sistema sanitario cresceva, spinto dallo spirito di sacrificio di medici e infermieri, non altrettanto è successo con la scuola. Il numero di giorni di scuola persi tra i più alti in Europa, le polemiche sugli effetti della Didattica a distanza, le dure reazioni alle proposte di prolungare l’anno scolastico, hanno fatto perdere l’occasione di rilanciare la reputazione degli insegnanti nella società italiana. Leggi anche:

Per non sprecare un’altra occasione, occorre dare dinamismo e responsabilità alla professione docente. Serve fare in modo che diventare insegnante non sia più la terza scelta di un laureato. Dove l’accesso alla professione insegnante è facile come da noi, questa spesso diventa l’ultima spiaggia a cui ricorrere e la prima alternativa da abbandonare appena trovato qualcosa di meglio. La scarsa considerazione che la società ha verso gli insegnanti deriva anche dal fatto che in Italia la maggior parte delle persone crede che tutti possano insegnare. Ad oggi, il sistema di assunzione e crescita dei docenti dovrebbe essere totalmente ripensato, per il bene dei docenti stessi ma anche per l’istituzione che la scuola rappresenta. Basta alzare gli stipendi? No. Il governo, prima dell’atto di indirizzo di gennaio che ha aperto positivamente alla carriera docente, proponeva di farlo a pioggia sulla base della sola anzianità e del grado di scuola. Il risultato sarebbe misero: le paghe, per quanto grande sia l’investimento, salirebbero di poco, dovendosi spalmare su quasi 800.000 dipendenti. E come sempre si premierebbero ugualmente meritevoli e non, formati e ignoranti, faticatori e assenteisti.

Serve un colpo di reni. Serve uscire da un unicum: solo la scuola italiana è un’organizzazione con un dirigente e cento impiegati; solo nella scuola italiana un insegnante per crescere in retribuzione deve limitarsi a invecchiare (con gli scatti d’anzianità) o deve smettere di insegnare (facendo il preside). Il risultato è sotto gli occhi di tutti, nelle tabelle che annualmente lo studio Education at Glance dell’Oecd ci offre. I docenti italiani guadagnano poco in ingresso, ma pochissimo anche a seguire, perché non hanno progressione di carriere. Qualche dato: a seconda del grado di istruzione, un insegnante italiano inizia a guadagnare tra 22 e 28 mila euro lordi l’anno, e per avere un aumento di stipendio del 50 per cento impiega almeno 35 anni di servizio. In Germania già entro i primi 10 anni lo stipendio può aumentare del 16,1 per cento. Nei Paesi Bassi gli stipendi iniziali possono salire del 76 per cento nei primi 15 anni e l’aumento si attesta del 105 per cento negli anni successivi. Anche in Francia i salari sono in progressione più elevati: lo stipendio iniziale per un docente è di 26 mila euro lordi l’anno (mediamente più bassi di quelli italiani), ma a fine carriera si può arrivare a guadagnare fino a 46 mila euro.

Per crescere così non basta invecchiare: serve formarsi e partecipare alla crescita dei propri studenti e della propria scuola. L’assetto ideale di una carriera docente italiana non può nascere da un articolo di giornale, ma deve essere alimentato da un confronto che il prossimo ministro avrà il dovere di aprire, e i sindacati di alimentare. Ma che non può rimanere chiuso nelle stanze di un ministero. Deve nutrirsi delle esigenze delle famiglie e degli studenti, e essere guidato dalle voci della ricerca educativa. Qui ci limitiamo a fissare qualche paletto. Primo, la selettività, sia in ingresso sia nella crescita. Per rendere attrattiva la carriera, non serve una crescita lenta per tutti, ma la possibilità di premiare chi fa di più. Serve creare i quadri della scuola, una porzione di insegnanti che abbiano voglia di prendersi più responsabilità didattiche, formative, gestionali, e che quindi possano ambire a maggior retribuzione. Secondo paletto, la formazione continua: la carriera dovrà misurare e premiare gli insegnanti che continuano lungo tutta la carriera a migliorare le loro competenze educative. Rendere obbligatoria la formazione in servizio, come già fatto con la Buona Scuola di Renzi e riproposto nella bozza di Recovery Plan, non basta. Senza carriera la formazione diventa esercizio burocratico, o nella migliore delle ipotesi una semina speranzosa che solo pochi coglieranno.

Terzo paletto, l’impatto effettivo sulla scuola di appartenenza. Il nostro sistema soffre enormemente dell’eccessiva mobilità dei docenti. Va invece premiata, anche economicamente, la fedeltà a una scuola (specie se complessa) e la capacità di muoverne i risultati formativi. Per un insegnante la continuità in una determinata classe è un fattore determinante che spinge a prendersi le proprie responsabilità, sia nei confronti dei propri studenti sia nei confronti dei genitori. L’occasione di mettere in campo un pensiero ambizioso sul docente del ventunesimo secolo è oggi a portata di mano. Il via possono darlo i sindacati, mettendo sul tavolo del negoziato sul rinnovo del contratto una proposta coraggiosa. Serve la vivacità intellettuale di rinunciare allo schema classico degli aumenti a pioggia. I nostri ragazzi hanno subito i problemi di una classe docente non formata, non valutata e comprensibilmente demotivata. E’ il momento di dare loro, in pochi anni, una classe docente scelta, misurata e pagata coerentemente all’alto ruolo che le si assegna in un’economia della conoscenza. (fine)

Il dirigente riflessivo di Stefano Stefanel (ds Liceo Marinelli Udine)

Il ruolo del dirigente scolastico è molto cambiato negli ultimi anni, assumendo connotazioni, anche pubbliche, che non erano state previste da nessuno dei legislatori che si sono  occupati di normare la materia. Chiuso l’anno scolastico finora più difficile, se ne sta per aprire un altro che sembra essere ancora più difficile di quello precedente e chi, come me, entra nel suo ventesimo anno da dirigente scolastico si trova davanti alla necessità di aumentare il grado di riflessione in rapporto ad avvenimenti e novità impreviste, che di giorno in giorno stanno cambiando scenari già fragili. Mi accorgo, però, che il raggio della riflessione è diventato così ampio, che è difficile anche soltanto mettere in ordine le cose, sia sulla scrivania fisica dell’ufficio, sia sulla scrivania virtuale del proprio computer, sia sulla scrivania mentale, che è quella più importante. Soprattutto perché il dibattito sulla scuola va in direzioni opposte a quelle che dovrebbero animare il dibattito: pedagogia e apprendimenti, non sanificazioni e mascherine. In questo breve contributo mi permetto di sollevare alcune questioni e di cercare di riflettervi sopra.

EDILIZIA SCOLASTICA, MES, RECOVERY FUND

            Con mia grande sorpresa vedo che il problema dell’edilizia scolastica è stato improvvisamente rimosso.  Durante la chiusura delle scuole è apparso evidente a tutti che gli edifici scolatici italiani hanno tali e tante carenze, che non possono essere considerati un patrimonio adeguato alle esigenze della scuola italiana. Mi sono illuso che almeno dieci miliardi del MES sarebbero stati spesi quest’estate per costruire, creare, progettare nuovi spazi per garantire quel distanziamento che ha una certa ricaduta sanitaria ( e che quindi autorizza l’uso del MES). Invece si è andati nella direzione delle misure e dei beni mobili (banchi) senza che ci fosse da parte dei dirigenti scolastici, degli insegnanti, del personale ata, degli enti locali, delle regioni, dei parlamentari, delle opinioni pubbliche una richiesta di costruire subito nuove scuole leggere, adattabili, eco compatibili capaci di entrare nell’emergenza e di aprire possibilità per il dopo. Addirittura sono andati avanti progetti già finanziati, ma assolutamente obsoleti, pensati per scuole vecchie prime e diventate improvvisamente vecchissime.

            Tutta la progettualità nazionale prescinde dalla scuola e, infatti, di uomini di scuola non se ne sono visti nella “Commissione Colao”, ma non se ne vedono neppure oggi nelle varie commissioni che stanno sorgendo per il Recovery Fund. Forse sarà solo il Ministero dell’istruzione a parlare per conto delle scuole autonome. Questo è grave perché se c’è un soggetto che non ha il polso della situazione nazionale è proprio il Ministero dell’Istruzione, capace di attivare monitoraggi che cercano di far stare le grandi diversità della scuola italiana dentro una semplice modalità numerica e che comunque da un centro così lontano, situato in una grande metropoli, non conosce le realtà degli ottomila istituti autonomi statali. E non la conoscono neppure gli Uffici periferici del ministero, occupati ad applicare norme generali e a richiedere di non manifestare alcun dissenso.

NORME COVID E DIDATTICA

            Un altro fronte molto sorprendente è quello che tende a ridurre il problema della scuola agli ingressi, alle uscite e alle permanenze negli spazi comuni, ma non a che cosa insegnare o apprendere in quegli spazi e in quei tempi. La questione delle mascherine sta tutta qui: è possibile imparare con la mascherina addosso? è possibile insegnare con la mascherina? Legato a questo problema c’è quello di una scuola statica a fronte di una gioventù dinamica. Ma l’importante pare sia solo garantire distanze che permettano di ritornare tutti a scuola e procedure che siano a prova di giudice. Qui si apre il fronte del grande equivoco italiano, ingigantito dall’emergenza, ma presente da molto tempo: scambiare il diritto allo studio per il diritto a fare tutti le stesse cose, con gli stessi orari, dentro gli stessi edifici e tutto contemporaneamente.

            Dopo le esperienze traumatiche della Didattica a distanza, dell’esame di stato modificato dalle necessità e della promozione generalizzata, si è entrati in un’estate in cui tutti hanno cominciato a fotografare (in senso metaforico e non) la realtà modificata delle scuole al fine di far tornare tutto come prima. Il distanziamento è necessario per diminuire la pericolosità del virus e limitare i contagi: a questo distanziamento non è stata legata alcuna riflessione sulle modifiche necessarie alla didattica, ma solo un serrato dibattito sulle procedure da adottare in attesa del vaccino.

            Il curricolo che si insegnava prima non era molto efficace (visti gli esiti delle rilevazioni internazionali e nazionali) e quindi questa inattesa emergenza poteva aprire un vero “cantiere” analitico su contenuti, metodologie, valutazioni. Invece si è cominciato a misurare e a organizzare quella che sarà probabilmente una grande attesa statica di tornare tutti alla dinamica e spesso caotica normalità precedente.

            Scuole vecchie e didattica vecchia: tutti lo diciamo, ma tutti, alla fine, non facciamo niente per cercare di cambiare quel “vecchio” in “nuovo”, anche perché se il “vecchio” produceva risultati non esaltanti, magari col “nuovo” qualcosa si migliora. Questo bloccarsi davanti al progetto pur in presenza di ingenti risorse economiche (MES e Recovery Fund) mi ha molto sorpreso, ma mi ha portato alla riflessione per cui il mondo della scuola e l’opinione pubblica sono molto più interessati a rientrare a scuola, piuttosto che a discutere su cosa fare una volta rientrati.

PERSONALIZZARE IL PERCORSO

            La necessità del distanziamento, le nuove norme igieniche, le precondizioni per ritornare a scuola (assenza di problemi respiratori e febbre), lo smart working, la derubricazione dell’importanza della didattica rispetto alle norme di prevenzione, i lavoratori deboli, i mezzi di trasporto, le nuove potenzialità del web, avrebbero potuto portare ad una sospensione dell’idea di una scuola uguale per tutti, contemporanea e ripetitiva per portare verso un’idea di Curricolo dello studente, in cui ogni studente certifichi il suo reale percorso, fatto di competenze proprie, di tempi non omogenei, di presenze e assenze bilanciate dall’aiuto del web, di un’integrazione tra Didattica in presenza e Didattica a distanza, di una personalizzazione assoluta che tenga conto delle reali esigenze di tutti. Questo avrebbe potuto portare ad un’azione di verifica e valutazione interessata al processo e all’esito e non agli stanchi e stantii riti dei compiti in classe e delle interrogazioni.

            Per gli Istituti professionali qualcosa del genere è nato l’anno scorso, ma mi sembra che questa giusta modifica non sia stata colta nella sua reale portata. Siamo tutti diversi e abbiamo tutti esigenze diverse, ma dentro queste esigenze i curricolo hanno spazio per ognuno di noi. Si tratta di diversificare per non disperdere, di personalizzare per non bocciare.

            Dentro un’idea moderna di personalizzazione poteva trovare spazio il rapporto tra obiettivi della scuola ed esigenze delle famiglie: spesso le due cose non coincidono, perché le famiglie vogliono che i figli possano passare 5-8 ore al giorno a scuola, mentre le scuole vogliono ottimizzare il processo di apprendimento degli studenti dentro quelle 5-8 ore. Classi troppo numerose, studenti troppo disomogenei, orari troppo rigidi, necessità della scuola sottomesse a quelle delle parrocchie, dello sport, dell’associazionismo, degli enti locali, delle mense, del mondo del lavoro hanno reso difficile strutturare un servizio così vasto in maniera veramente efficiente ed efficace. Ma, invece di usare l’emergenza per intervenire su almeno alcuni di questi problemi, li si è tutti aggregati dentro un’idea di ripartenza in cui leggi, note, linee guida, faq, ordinanze andassero a costruire un coacervo di norme spesso inapplicabili, sulla cui applicazione, però, risponde alla fine solo il dirigente scolastico.

            Per cui sembra che lo scopo sia quello di riaprire per far entrare tutti contemporaneamente a fare le stesse cose il più fermi possibile e non quello di individuare obiettivi didattici ed educativi, strutturare alleanze locali, creare dei meccanismi di personalizzazione del curricolo che integra il lavoro a scuola con quello casalingo, con quello on line e con quello delle agenzie che sul territorio si possono occupare di operare con bambini e ragazzi quando la scuola e la famiglia non ce la fanno. Qui non sto parlando di sorveglianza, ma proprio di contenuti: quelli che la scuola deve trasmettere al fine di migliorare gli apprendimenti, quelli educativi che la famiglia deve dare in piena serenità, quelli che i vari soggetti sociali devono poter elargire a supporto o in aggiunta e che a questo punto possono essere pagati perché i soldi ci sono e ci saranno.

            Sto pensando (ma elenco in maniera semplice a livello di esempio) a scuole dell’infanzia con meno bambini e più maestre supportate da centri comunali di supporto che agiscano in parallelo in modo da operare su più spazi; parlo di scuole primarie che si colleghino al territorio e possano sdoppiarsi all’esigenza (più organico, quindi), parlo di scuole secondarie collegate al territorio in forma omogenea e complementare, con ampie possibilità di diversificare. Per fare questo servirebbe uscire dalla logica del tutto uguale per tutti ed entrare in quella personalizzazione dei tempi, delle metodologie, degli spazi che porterebbero ad un vero Curricolo dello studente, che rispetterebbe le necessità dell’apprendimento, collegherebbe queste alle esigenze delle famiglie e alle offerte della società civile. Però bisognerebbe abbandonare l’idea degli orari rigidi, dei tempi scuola obbligatori uguali per tutti, della didattica frontale come base fondativa dell’azione scolastica. I soldi ci sono, ma la volontà mi pare non ci sia.

            Un rinnovamento della scuola passa dal transitare dall’orario settimanale ripetitivo ad un monte ore annuale mobile e personalizzato per studenti e lavoratori della scuola, in cui la funzione docente accompagni i tempi di apprendimento e non li condizioni. Dentro l’idea di Curricolo dello studente va rivista completamente anche la procedura valutativa, che attualmente vuole agire per standard e non per azioni valorizzanti. Un esempio lo abbiamo avuto sia nella valutazione di fine anno, sia nell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo: tutti promossi e in complesso con voti migliori e un esame di stato interessante e meno oppressivo del precedente. Il flebile dibattito sull’argomento ha sottolineato che l’emergenza ha creato un aumento delle valutazioni, senza però far venire in mente a nessuno che fossero sbagliate quelle di prima, non quelle di quest’anno. Come è noto qualunque misurazione altera l’oggetto o il soggetto misurato e noi scambiamo la misurazione per valutazione. E una volta tanto che, a causa dell’emergenza, abbiamo dovuto valutare e  non misurare, poi storciamo il naso perché abbiamo dato più valore ai nostri ragazzi. Da professionista riflessivo dico: se un metodo di valutazione mi da risultati migliori forse è il caso di verificare se non era il metodo di valutazione precedente (mnemonico, ossessivo, nozionistico) ad alterare il sistema.

GIORNALISMO ADDIO

            Credo che mai come in riferimento alla scuola il giornalismo abbia mostrato la sua crisi strutturale, nella sua disperata rincorsa ai social. Tra titoli scandalistici, argomenti affrontati con superficialità, ossessione nel cercare il negativo, accentuazione degli elementi generali partendo da situazioni particolari, spazio dato ai molti narcisismi (mio incluso), sintetizzazione di documenti corposi in poche righe e disegni impropri, rapporto non mediato con esperienze estere, predilezione per lo scontro e non per il confronto tutto è scivolato nel gossip, nello sconto, nella polemica, nella trasformazione del problema pedagogico italiano in una questione di banchi e centimetri. E qui la scuola è caduta nel tranello, fidando su giornalismo e social e aprendosi con parti di comunicazione ad un’opinione pubblica che della scuola e dell’istruzione non capisce nulla, dentro terminologie sbagliate, richieste inapplicabili, proteste in cui alla fine si chiede solo più rigidità, disinteresse per i risultati modesti del sistema. Tutto questo ci ha portati qui, nel punto in cui solo la riflessione ci può salvare dalla confusione.

Non i migliori ma i più adeguati: formare e scegliere i docenti
di Mauro Piras (tratto da Il Post)

2.1 Scegliere di insegnare
La scelta per l’insegnamento deve essere una scelta professionale consapevole, non una seconda scelta. Per troppo tempo la scuola italiana ha assunto come docenti, soprattutto nella secondaria, persone che avevano intrapreso altri percorsi professionali e che, avendo fallito o anche solo per le mutate esigenze familiari o personali, hanno ripiegato sulla scuola. Perché con una laurea si può sempre andare a insegnare, si pensa. Invece non è vero: insegnare è una professione che richiede competenze specifiche, non ci si può improvvisare.

Per il paese intero questa è diventata una sfida cruciale, perché l’Italia è arrivata tardi alla scolarizzazione di massa, di fatto negli anni Duemila, ma non è ancora riuscita ad affrontarla in modo adeguato: la nostra scuola non riesce a essere democratica e inclusiva, non garantisce mobilità sociale e non risponde in modo adeguato alle esigenze del mondo del lavoro. Stiamo perdendo su tutti i fronti. Accettare che vadano a insegnare persone che lo fanno solo come seconda scelta significa aggravare ancora questa situazione.

2.2. Essere maestri
Anche per la scuola secondaria deve essere riconosciuto da tutti il principio che insegnare vuol dire essere maestri, cioè sapere come insegnare, conoscere metodi e pratiche didattiche, mettere al centro la relazione didattica. Questo viene considerato ovvio da sempre per la scuola primaria, imponendo a chi vuole fare questo lavoro delle scelte professionali precoci: la scuola magistrale prima, i corsi di scienze della formazione primaria ora. Chi vuole andare a fare il maestro deve sceglierlo presto. Come del resto chi vuole fare, per esempio, il medico.

Invece, per la scuola secondaria questo semplice ragionamento non è mai stato accettato. Nella formazione e nella scelta dei docenti della secondaria si cade sempre nel modello disciplinarista: prima viene la disciplina, la competenza nella propria materia, poi l’eventuale scelta per l’insegnamento. Così capita che molte persone con un’ottima preparazione siano però pessimi insegnanti, perché l’insegnamento si è aggiunto solo in un secondo momento e per cause accidentali.

All’origine di questa situazione si trova il predominio del modello liceale: il liceo, fondato tradizionalmente sulla lezione cattedratica e un rigido disciplinarismo, stinge sulla scuola media e sulle scuole superiori attuali. E così non si riesce a imporre il principio ovvio che chi vuole insegnare deve deciderlo relativamente presto. Invece deve essere così: anche nella secondaria, non deve entrare in classe chi non sa come insegnare.

2.3. Un sapere professionale condiviso
I profili dei docenti della scuola italiana, specie secondaria, sono oggi molto vari. I canali di ingresso sono stati i più diversi, e la selezione è avvenuta troppo spesso sanando situazioni di fatto piuttosto che formando nuovi docenti. È successo quindi che molti, entrando in classe, si sono letteralmente improvvisati, dal punto di vista delle metodologie didattiche: o hanno ripetuto schemi tradizionali (lezione frontale, interrogazione, compito in classe), che sembrano scontati ma non lo sono affatto, oppure hanno cercato di innovare in modo del tutto artigianale.

Il risultato è che il corpo docente italiano, soprattutto nella secondaria, non ha più una cultura didattica condivisa: le pratiche sono diverse e frammentate, i metodi e i criteri di valutazione spesso divergenti. Questo è particolarmente grave perché la scuola è caratterizzata da una burocrazia professionale, le cui attività non possono essere uniformate né a partire dai risultati, né sulla base di procedure rigide, ma solo sulla base di un sapere professionale condiviso. Questo sapere si è perso, le pratiche sono disomogenee e inefficaci, e l’eccesso di formalismo procedurale che sta investendo la scuola è una risposta patologica che ne sta deformando la natura. L’unico modo per ricostituire questo sapere condiviso è un percorso omogeneo e stabile di formazione degli insegnanti.

2.4. Centralità del tirocinio e specificità disciplinari
Il come insegnare deve essere acquisito tramite un percorso di formazione iniziale e selezione degli insegnanti. Non è possibile quindi abbandonare il modello titolo valido- abilitazione-concorso; i tre termini di questo percorso si possono ordinare in modi diversi, ma non possono essere abbandonati, sono tutti e tre necessari. Tuttavia, la formazione iniziale non può dissociare la teoria e la pratica: la formazione in ambito didattico non può limitarsi all’apprendimento di nozioni generali in corsi universitari, ma deve essere soprattutto tirocinio, esperienza didattica diretta in aula; questa attività di tirocinio non deve avvenire dopo la formazione teorica generale, ma deve essere intrecciata a essa. Infine, la formazione didattica deve approfondire gli aspetti delle didattiche disciplinari: ogni disciplina ha le sue specificità, e quindi i suoi propri metodi di insegnamento; uno dei gravi errori delle esperienze passate è stato il tentativo di calare dall’alto schemi didattici generali, applicati a qualsiasi disciplina.

Una proposta
Che modello di formazione iniziale e selezione dei docenti si può proporre a partire da questi principi? Certo non quello che torna alla tradizionale successione titolo valido-concorso, perché contraddice tutti questi principi e le esigenze a essi sottesi. Assumere i docenti con un semplice concorso dopo la laurea significa continuare ad affermare il falso, cioè che chiunque può insegnare. Una proposta valida dovrebbe invece includere una scelta professionale esplicita, non troppo tardiva, e una formazione iniziale didattica di alto livello, con importanti esperienze di tirocinio non separate dalla formazione teorica generale. Si intravedono tre possibilità.

La prima è quella di un percorso che prevede, dopo la laurea triennale disciplinare, una laurea magistrale didattica a numero chiuso, con tirocinio al suo interno, che porti a un titolo abilitante. Chi ha questo titolo può accedere ai concorsi per l’immissione in ruolo dei docenti.

La seconda è invece un percorso più lungo: dopo la laurea triennale disciplinare, una laurea magistrale ancora disciplinare ma già curvata in senso didattico-pedagogico, seguita da un ulteriore anno di formazione e tirocinio che porta al titolo abilitante. Dopo l’abilitazione, il concorso.

Queste due prime proposte seguono lo schema titolo valido-abilitazione-concorso. La terza è invece il FIT [cioè formazione iniziale e tirocinio, ndr]: dopo la laurea magistrale disciplinare, solo leggermente curvata in senso didattico (24 crediti), un concorso per accedere a un corso di specializzazione seguito dal tirocinio e da un anno finale di supplenza che vale come anno di prova. Qui lo schema è modificato: titolo valido-concorso-specializzazione.

Dal punto di vista dei principi generali, tutti e tre i modelli sono adeguati. Tuttavia, ci sono alcune ragioni per preferire il secondo agli altri due.

Prima di tutto, vediamo quali sono i problemi del FIT. Quando è stato approvato, molti lo hanno criticato perché sarebbe stato un percorso troppo lungo. In realtà, questo non è un problema, perché in qualsiasi carriera che richiede un’abilitazione oltre alla laurea è normale che si vada oltre i cinque anni; in più, l’ultimo anno è in realtà già una sorta di anno di prova.

Il FIT è un percorso adeguato per garantire una buona formazione; semmai, al suo interno il problema è sempre quello di una separazione troppo rigida tra il primo anno di formazione generale e il secondo di tirocinio. Tuttavia, le obiezioni più significative che si possono muovere al FIT sono altre due: in primo luogo, poiché il concorso è previsto prima della formazione specialistica, si rischia ancora in parte l’effetto second best, cioè la tendenza a favorire la scelta per l’insegnamento come una seconda scelta dopo altri percorsi, mentre sarebbe meglio una scelta più precoce; in secondo luogo, fare il concorso prima della specializzazione rischia di produrre di nuovo, come per le SSIS, uno squilibrio tra candidati ammessi e posti realmente disponibili.

Per queste ragioni è auspicabile un modello in cui la formazione specialistica in ambito didattico avviene già, almeno in parte, all’interno del percorso universitario. In astratto, la soluzione più snella sembra la prima: la scelta per la didattica viene fatta abbastanza precocemente, dopo la laurea triennale, evitando così l’effetto second best; inoltre il tirocinio dovrebbe essere parte integrante della laurea magistrale, non venire dopo.

L’obiezione che si può muovere a questa proposta è che la formazione disciplinare in senso stretto, limitata alla sola laurea triennale, rischia di essere troppo debole.
Per ovviare a questo, una soluzione efficace potrebbe essere la seconda: qui la laurea magistrale sarebbe un misto tra una laurea disciplinare e una laurea orientata alla didattica, comprensiva anche di una parte di tirocinio, mentre la formazione e il tirocinio esclusivamente didattici si farebbero nell’anno di abilitazione post-laurea magistrale. un modello del genere è adottato in Germania. La scelta per l’insegnamento è abbastanza precoce, perché la laurea magistrale è già in parte orientata alla didattica, mentre il tirocinio è intrecciato alla formazione generale sia nella laurea magistrale che nell’anno di abilitazione.

Chi sceglie i docenti?
Resta un ultimo punto: chi deve selezionare i docenti? I concorsi italiani, finora, sono sempre stati nazionali, al massimo con gestione a livello regionale. La selezione dei docenti avviene sulla base di parametri generali e astratti che devono andare bene per tutte le scuole italiane. Questo era fondamentale finché si trattava di costruire il sistema scolastico nazionale.

Ora però questa fase è conclusa, così come quella dell’alfabetizzazione di base e di massa. Adesso, il problema della scuola è recuperare gli studenti che perde, garantire le competenze necessarie ai cittadini di una società complessa, rispondere in modo flessibile alle esigenze di una società diversificata e in trasformazione. Così come programmi standardizzati imposti a tutti allo stesso modo non sono più efficaci, allo stesso modo docenti selezionati dall’alto, da uno Stato centrale che non vede i dettagli dei problemi delle singole scuole, non sono più adeguati.

Gli insegnanti non sono intercambiabili, come cercano di farci credere l’intoccabilità delle graduatorie e il rifiuto costante, nel tempo, della valutazione individuale del lavoro docente: docenti con competenze specifiche (per esempio, sui bisogni educativi speciali o sulle tecnologie informatiche) possono rispondere a certe esigenze, ad altre no; e le scuole che hanno queste esigenze non possono prendere un docente a caso in un elenco.

Una scuola di periferia con un grande numero di casi di bisogni educativi speciali non può prendere a caso un docente che viene da scuole in cui casi del genere sono sempre stati marginali. Il concorso centrale e le graduatorie non sono la risposta giusta.
Si tratta di due livelli distinti: la selezione dei docenti, e la loro assegnazione alle scuole.

La legge 107/2015 ha cercato di mantenerli separati, preservando concorsi nazionali, ma attribuendo alle scuole la competenza di scegliere i docenti. Nonostante questo compromesso, questa soluzione è stata attaccata da tutti i lati, e non ha resistito. eppure, era fin troppo moderata. In realtà, il lavoro del docente è tale che il modo migliore per selezionarlo è il colloquio: è lì che si vede la persona, con le sue competenze e la sua motivazione. In un mondo (ideale?) senza tutte le gabbie burocratiche, corporative e giuridiche alle quali non ci dobbiamo rassegnare, sarebbe auspicabile un sistema in cui ogni scuola, quando ha bisogno di un docente, organizza una selezione concorsuale fondata su curriculum e colloquio.

È una procedura trasparente, aperta, semplice e coerente con tutti i modelli di formazione iniziale proposti nel capitolo precedente. Ogni scuola avrebbe i docenti di cui ha bisogno, i docenti andrebbero naturalmente dove credono opportuno andare, e la selezione sarebbe sulle persone, non su elaborati astratti che spesso nascondono l’incapacità di stare in classe e di affrontare i problemi reali. L’unità del sistema di istruzione nazionale sarebbe garantita dal fatto che a questi concorsi potrebbero accedere solo gli abilitati/specializzati, dopo un percorso di formazione iniziale omogeneo su tutto il territorio nazionale. Ma i concorsi sarebbero gestiti a livello di scuola. Questa sarebbe la realizzazione vera dell’autonomia scolastica, che non sarà mai tale finché le scuole non avranno la possibilità di gestire liberamente le risorse finanziarie, gli edifici e il personale.

(Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, a cura di Marco Campione ed Emanuele Contu
© 2020 by società editrice il Mulino, Bologna)

IL PROBLEMA E’ LA LEZIONE FRONTALE Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro Psico Pedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti:

«Lamentarsi di alunni distratti e che non ascoltano è inutile se si resta arroccati alla tradizionale lezione frontale, a una organizzazione della classe che isola gli alunni fra di loro, a una valutazione nozionistica. Sono i metodi di insegnamento e di apprendimento a dover cambiare»: Abbiamo tutti presenti le classi dei nostri figli o nipoti: nella maggior parte c’è ancora la cattedra, la lavagna, i banchi separati uno a uno. Sembra che l’esperienza di Mario Lodi (che aveva messo da parte la cattedra) e di Maria Montessori (che stava in mezzo ai bambini come faceva anche Alberto Manzi), sia caduta nel vuoto.

Eppure il primo atto rivoluzionario di un insegnate oggi è proprio quello di cambiare il suo modo di fare lezione. Oggi  siamo passati dal manoscritto al tablet, ma il sistema resta sostanzialmente lo stesso: l’assunto che muove comunque ancora gran parte della didattica della scuola italiana è che per far imparare qualcosa a qualcuno, e quindi per insegnare, il metodo più scontato, lineare e apparentemente efficace sia quello di utilizzare il sistema della lettura di un testo associata a una spiegazione.

Resta da chiarire che idea abbiamo di apprendimento. Si può apprendere da soli? Quanto conta la motricità nell’apprendimento? Chi insegna all’insegnante come far apprendere? Che ruolo ha il docente oggi in aula?

Sono state fatte diverse critiche alla didattica della lezione frontale, è vero, ma le garantisco anche che la realtà quotidiana in molte delle nostre scuole è ancora quella, perché ci sono pratiche implicite che permangono al di là della formalità delle programmazioni o anche delle velleità di alcuni insegnanti. La lezione frontale d’altronde è quasi connaturata alla scuola italiana, che resta una scuola basata sull’approccio idealistico gentiliano secondo cui la conoscenza e quindi l’apprendimento nasce dalla spiegazioni dei contenuti. Da lì purtroppo a livello di pratiche comuni, non scritte, non ci siamo mossi. Volete un esempio? Pensate alla disposizione dei banchi, il pomeriggio i bidelli li rimettono sempre per file. Però il superamento della lezione frontale è ciò cu sui si gioca il match point per costruire una didattica di qualità.Il background pedagogico della lezione frontale, estremamente pervasivo, è l’idea che se tu devi insegnare qualcosa a qualcuno glielo devi trasmettere attraverso una spiegazione: io so e ti spiego, tu non sai e mi ascolti. In classe abbiamo messo le LIM ma il concetto non è cambiato molto. A differenza delle scuole di altri paesi europei, il nodo da noi resta questo. possiamo fare a meno della spiegazione frontale, abbiamo centomila alternative più efficaci, per autorizzarci tutti finalmente a lasciare perdere metodi che sono deprimenti per gli insegnanti quanto per gli alunni, per toglierci di dosso questa polvere del tempo. Non abbiamo bisogno della lectio, liberiamoci da questa ossessione. La scuola non vuol dire parlare agli alunni, è qualcosa di diverso.

Scusate, ma una video-lezione cosa cambia rispetto a una lezione fatta in carne ed ossa? È la stessa minestra conservatrice, riscaldata in salsa digitale, non c’è nessun vantaggio. Per di più la flipped lascia soli i ragazzi davanti a una video-lezione ma la scuola è una comunità di apprendimento e l’apprendimento è condivisione, non restare soli davanti a uno smartphone, un tablet o un pc.

Il metodo che lei propone in alternativa alla lezione frontale quindi qual è?
Io lavoro da una vita sul metodo maieutico, che in parte ho appreso da giovane da Danilo Dolci ma poi è stato il cuore di tutta la mia ricerca pedagogica, ho inventato tantissimi dispositivi maieutici per organizzare modalità efficaci di apprendimento. La base è che l’insegnante in classe deve avere la regia: significa che deve scomparire dalla scena scolastica o comunque non avere il ruolo di prima donna. Devono essere gli alunni che lavorano, sono loro i protagonisti. Il segreto è far lavorare gli alunni, non parlargli e non fare lezioni, quello è come dicevo prima l’enorme equivoco gentiliano basato sull’idea che la conoscenza sia un corpus di idee da trasmettere: la nostra scuola superiore è impostata così e anche la scuola primaria che ne era fuori, con il ritorno ai voti numerici è ricaduta nell’equivoco. La scuola deve essere un laboratorio, non una sala conferenze: se assumiamo questa prospettiva, poi le possibilità poi sono tantissime.

Quindi l’apprendimento come un fatto esperienziale e laboratoriale, concreto. Che cosa deriva a cascata da questa partenza differente?
Ad esempio liberiamo i ragazzi e la scuola dall’ossessione che non si deve copiare, perché imparano che si apprende per condivisione, partecipando, non se isoliamo gli alunni uno dall’altro, escludendoli l’uno dall’altro. Il presupposto fondamentale è che a scuola gli alunni imparano dagli alunni, non dagli insegnanti: imparano dalla condivisione, anche dal copiarsi. Copiare non è un grande problema perché il ragazzino impara anche così: il compito dell’insegnante è verificare poi l’apprendimento nell’applicazione, a valle, non nel controllo pedissequo di tutte le procedure. Di certo l’isolamento non è una condizione vantaggiosa per l’imparare: i dispositivi maieutici sono dispositivi sociali, di mutuo insegnamento tra gli alunni, soprattutto dispositivi di problematizzazione, perché si impara dalle domande, non dalle risposte. Invece noi alleniamo i bambini a mettere crocette su presunte risposte esatte.

L’uso degli smartphone in classe. Una cosa è l’uso della tecnologia a scuola, altra l’uso di una tecnologia di carattere individuale esclusivo. Lo smartphone è un dispositivo individuale di uso esclusivo, è impensabile che averlo in aula non crei una esclusione dell’alunno dal processo di apprendimento condiviso.

La scuola come “comunità di apprendimento”. Le neuroscienze restituiscono la dimensione sociale dell’apprendimento: perché la scuola si abbarbica nell’isolare gli alunni? Un esercizio di scrittura collettiva è meglio di uno individuale, bisogna alternare sempre individuale e collettivo, mai fare solo attività individuali. La scuola è il luogo dove l’alunno può fare esperienza delle sue risorse e dove le sue risorse vengono valorizzate in funzione dei processi di apprendimento. Il cuore della scuola è la risorsa dell’alunno, non il suo deficit, la scuola guarda il bicchiere mezzo pieno, non l’errore. Per gli insegnanti sarà una gioia liberarsi dall’incubo di essere “funzionari della crocetta” e tornare al loro ruolo di essere gradi registi dell’apprendimento degli alunni, aiutandoli a lavorare insieme.

La scuola italiana  ha un problema che si perde nella notte dei tempi. Questo problema non riguarda l’architettura tradizionale del sistema scolastico, i cosiddetti cicli d’istruzione, né la distribuzione delle materie nel curriculo. Non è l’abbandono scolastico o i voti numerici e neppure la formazione degli insegnanti e il sistema di valutazione. È in realtà un vizio di forma, legato alla storia della scuola in Italia, e a tutto quell’insieme di idee, convinzioni e credenze, quelli che si definiscono gli “elementi impliciti”, su come si trasmettono i contenuti dell’insegnamento. Il problema della scuola italiana nasce da un equivoco, profondamente radicato e pervasivo, che ha un nome preciso: lezione frontale”.

Sia chiaro: il problema non è dei più semplici. Non è il parere di un singolo pedagogista estremista. La vera innovazione sta nel ripensare il nostro modo di fare lezione dando una degna sepoltura a quella frontale. Gli esempi non mancano: dalla scuola senza zaino, alla flipnet alla quale Maurizio Maglioni ha dedicato per la Erickson il suo recente “Capovolgiamo la scuola” 

Giovanni Biondi è presidente di INDIRE, l’Istituto a cui è affidata la ricerca sull’innovazione educativa.

Nel libro “Dall’aula all’ambiente di apprendimento” scrive: “L’ambiente non cambia certo per l’ingresso di qualche strumento nuovo, anzi rafforza i suoi caratteri e la lavagna interattiva multimediale (Lim) potenzia la lezione frontale”.

“Possiamo certamente dire che finché la scuola sarà basata sulla lezione frontale, qualunque tipo di difficoltà rallenta. Se l’insegnante parla, l’alunno studia sul libro e poi l’insegnante interroga, va da sé che chi per qualsiasi motivo non si adatta a questo modello, resta indietro. Tant’è che se ci si pensa l’insegnante di sostegno oggi fondamentalmente cosa fa? Sta seduto accanto all’alunno e fa da interprete di quel che l’insegnante dice. Il problema è il modello: dobbiamo cambiare il modello. Questo modello mette in difficoltà non solo gli alunni con disabilità, con BES, con cittadinanza non italiana, di famiglie fragili… ma tutti gli alunni sono in difficoltà, tutti, perché i ragazzi oggi non sono più attratti da questo modello, perché usano tecnologie diverse, imparano per immagini e suoni, hanno un altro approccio. Fra l’altro anche quelli plus dotati, che è un altro tema, con questo modello sono tagliati fuori perché si annoiano. Il tema è questo, che gli ambienti standard fatti per parlare a tutti allo stesso modo, non funzionano più. Se facciamo invece un modello laboratoriale, in cui diciamo che i ragazzi non vengono a scuola per sentire la lezione – quella la leggono a casa – ma per fare attività, se lavorano a gruppi in modo collaborativo, allora cambia tutto, anche il ruolo dell’insegnante di sostegno, anche l’atteggiamento verso chi ha qualche difficoltà. Però bisogna scombinare completamente modello: io spero che la scuola futura sarà una scuola senza aule e anche senza classi”.

Presidente, qual è la sua impressione? Sono tante le scuole che hanno questo atteggiamento classista emerso ieri, cioè che scrivono in sostanza che alunni poveri, disabili e stranieri ostacolano la buona scuola?
(L’Indire ha monitorato 3.500 Piani di miglioramento delle scuole italiane, cioè quei piani che le singole scuole predispongono dopo essersi fatte un “esame di coscienza” attraverso il Rapporto di Autovalutazione, lo strumento che dal novembre 2015 tutte le scuola hanno pubblicato ma di cui pochissimi fino a ieri avevano sentito parlare).

Il monitoraggio dei RAV lo fa l’Invalsi, ma la mia impressione è che il RAV sia vissuto dalle scuole come adempimento burocratico e non come aiuto vero alla autovalutazione e al miglioramento. Noi abbiamo valutato 3.500 piani di miglioramento delle scuole, i dati ci dicono che più che progettare un piano di miglioramento, le scuole scrivano un libretto di giustificazioni. Dico anche che la legge 10, quella che aveva disegnato il sistema nazionale di valutazione, si basava su una valutazione esterna delle scuole, fatta da ispettori autonomi che dovevano fare visite periodiche, indicare alle scuole i punti di debolezza, tornare a verificare i miglioramenti: non si è fatto. L’autovalutazione va fatta, in tutti i campi, ma non può sostituire la valutazione esterna autonoma.

Ma da un punto di vista sociologico che cosa si sente di dire?
Le scuole sono tante e varie, certo che ci sono situazioni in cui il risultato, la performance e l’apprendimento sono considerate l’obiettivo. In quest’ottica i ragazzi in difficoltà, qualsiasi essa sia, abbassano il livello della classe. Dipende tutto da come pensiamo la scuola: se pensiamo che il valore della scuola non sia misurabile solo in termini di performance e apprendimenti, ma anche di eduzione e crescita basata su valori, allora cambia tutto.

MAURIZIO TIRITICCO/LA DAD E MASSIMO RECALCATI (23/6/20) Un articolo inutile e non corretto quello di Massimo Recalcati su “la Repubblica” di oggi. L’autore afferma che la relazione è “la condizione di ogni didattica”: da ciò deduce che “non esiste didattica a distanza”. Su tale questione ho scritto tanto (si veda edscuola.it) ed ho ricordato che la DAD esiste da sempre, ed anche nella nostra scuola: i compiti a casa!!! A fronte dei quali si oppone la “didattica laboratoriale”, ovvero del “tutto in aula”, che molti insegnanti praticano e non da oggi. E liberano così genitori e figli dal flagello – in molti casi – dei compiti pomeridiani.

Recalcati afferma anche che occorre favorire l’interdisciplinarietà! Un vocabolo che, invece – come soleva ricordare Mario Alighiero Manacorda – è una vera e propria “volgarietà”. In effetti, chi se ne intende parla di interdisciplinarità, ed anche di pluridisciplinarità, multidisciplinarità, transdisciplinarità. Vocaboli che alludono ad attività di insegnamento/apprendimento diverse e non omologabili. E che sono note ai nostri migliori insegnanti. Ed ancora Recalcati insiste sulla necessità di “abolire definitivamente un uso solo sadicamente numerologico della valutazione ancora oggi tristemente diffusa anche nei licei più rinomati del nostro Paese”. E perché non anche nei meno rinomati – stando al suo pensiero – istituti tecnici e professionali?

Ma Recalcati non sa che, in materia di valutazione, le istituzioni scolastiche, in forza della loro autonomia, tra le competenze che sono loro riconosciute, “individuano inoltre le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale ed i criteri per la valutazione periodica dei risultati conseguiti dalle istituzioni scolastiche rispetto agli obiettivi prefissati”. Si veda il comma 4 dell’articolo 4 del dPR 275/99 relativo al “Regolamento recante norme in materia delle istituzioni scolastiche ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59”. Ne consegue che l’esercizio della valutazione non è una clava che si abbatte su insegnanti ed alunni, ma una varabile di una serie di attività molto articolate e complesse. Su cui ho scritto tanto!

Ma dirò di più: che, per rendere più attivo, produttivo e appagante l’insegnare ad apprendere, sarebbe anche possibile realizzare in aula con una data classe d’età una vera e propria codocenza! Che dire, ad esempio, di un insegnante di storia, un altro di lettere, un altro di tedesco e/o di francese compresenti, quando con una classe di alunni si affronta il Romanticismo? Su questa materia si veda, ad esempio, “Dalla compresenza alla codocenza”, a cura di Cosimo Scaglioso, Maurizio Tiriticco e Mario Bracci, edito dalla Tipografia. Valdarnese, di S. Giovanni V.no (AR). Si indicano attività in forza delle quali la didattica laboratoriale è più che soddisfatta! Anche per soddisfare il principio del “tutto in aula”. Mah! A volte mi chiedo: perché molte persone parlano e scrivono su tutto e di tutto? Mi piace loro ricordare quel motto latino che recita: “Sutor! Ne ultra crepidam”!

STEFANO STEFANEL: MODESTE PROPOSTE PER PREVENIRE (da Edscuola, 4/6/2020. Ecco le proposte intelligenti di un dirigente scolastico che dovrebbe fare il Ministro della P.I.) L’emergenza coronavirus non permette di vedere con chiarezza come sarà il futuro, sia quello immediato pre-vaccino, sia quello lontano post-vaccino. Alcuni concetti però si sono chiariti, di là da qualsiasi previsione si potesse fare durante la fase pre-pandemica. Riguardano punti cardine della scuola italiana, ma anche della vita sociale e richiedono un’attenta ed equilibrata progettazione per entrare a pieno titolo nel mondo scolastico. Credo possa essere utile guardare avanti e vedere, dentro tutte le possibili prospettive e soluzioni, quali innovazioni possiamo introdurre fin da subito nel sistema scolastico e quali elementi possono aiutare a curvare il sistema scolastico, anche per dare risposte sensate a un futuro vicino, ma ignoto e temibile.

Il sistema scolastico italiano ha tenuto in modo inatteso durante l’emergenza e i docenti di tutti gli ordini scolastici si sono dimostrati categoria molto più forte, resistente, resiliente, flessibile e concreta di quanto ci si potesse aspettare dall’interno del sistema, ma anche certamente di come supponeva fosse chi la giudicava dall’esterno. C’è un’opinione pubblica oggettivamente colpita dal grande senso di responsabilità e dal grande senso dello Stato dimostrato dalla scuola italiana e questo è un elemento che va giocato bene in funzione della ripartenza. Da varie parti vengono prospettate possibili soluzioni soprattutto sul rientro a settembre a scuola e, giustamente, non ci si avventura in territori più lontani, viste le grandi difficoltà a definire scenari futuribili dentro una simile e inedita pandemia. Ci sono idee che riguardano gli spazi, i materiali, i distanziamenti, i turni, la didattica, i tempi, ecc.: dentro questa enorme variabilità possono trovare cittadinanza delle considerazioni che aprono al lungo periodo, pur avviandone l’attuazione nel breve periodo. Queste “proposte” possono aiutare a gestire le emergenze immediate e anche a modificare il futuro della scuola italiana. Alcuni di questi argomenti toccano alla base proprio l’organizzazione e la struttura della scuola pre-pandemia e dunque devono essere attentamente studiati per produrre soluzioni aperte verso un futuro che, comunque vada, è incerto.

Affronto qui quattro argomenti (presenza a scuolaedilizia scolasticaorario dei docenti e degli atacatena decisionale), che dovrebbero essere inseriti dentro una nuova idea di sistema scolastico nazionale, in modo da guidare la ripartenza delle scuole a settembre, condizionando tutto il prossimo anno scolastico al fine di aprire verso scenari futuri e attuabili. Per tutti e quattro gli argomenti consiglio di lasciare un po’ da parte il passato e letto con un po’ di più di attenzione il futuro: volutamente mi mantengo dentro la sinteticità di un articolo perché intendo indicare solo l’avvio del percorso, lasciando ai decisori la possibilità di tenere conto o meno di quello che scrivo.

LA PRESENZA A SCUOLA

            L’idea che si possa apprendere solo stando fisicamente sempre a scuola è andata in crisi con l’irrompere del lockdown, della didattica a distanza, del nuovo concetto di distanziamento fisico, che purtroppo è stato spesso anche distanziamento sociale. Le Linee guida del CTS, da poco emanate, indicano comunque l’importanza di rivedere alcuni aspetti sociali legati alle piccole patologie (tosse, raffreddore, influenza, ecc.), cioè a tutto quello che veicola contagi. L’emergenza Covid-19 ha fatto comprendere come esiste una vulnerabilità sociale che va di là dalle attese e un mondo che si credeva invincibile e inattaccabile si è trovato esposto alle goccioline, capaci di veicolare una pandemia. Anche in futuro sarà meglio stare in casa più spesso, non considerare la scuola come il luogo naturale del contagio (evidenziato dalla frase, sbagliata, propria del senso comune: “A scuola mio figlio si è preso di tutto”) e bisognerà fare in modo che a scuola meno bambini, meno ragazzi, meno docenti e meno personale sia contagiato anche da piccole patologie. Non è solo questione di distanze, ma anche di igiene, di assenza di sintomi negativi quando si viene a scuola, di attenzione alle temperature, di misure che attenuino la trasmissione di germi e microbi.

            Cade così improvvisamente l’idea di eguaglianza, che ha condizionato molta parte della scuola italiana e si rende necessario posizionare il servizio scolastico dentro il concetto di equità ed inclusione, come fa l’ONU nell’Agenda 2030, che nel suo Obiettivo n° 4, dedicato alla Formazione, scrive: “Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Il passaggio dall’eguaglianza (stessi orari, stessi programmi, stessi giorni di scuola, stessi compiti, stesse interrogazioni, ecc.) all’equità e all’inclusività è già iniziato con meccanismi piuttosto farraginosi (PEI per i diversamente abili, PDP per i DSA e i BES, PAI per coloro che hanno un’insufficienza pur essendo promossi,ecc.), ma quella dell’equità sarà l’elemento caratterizzante il prossimo anno scolastico, dove chi avrà di meno avrà diritto ad avere di più. Gli studenti non saranno tutti sempre presenti, forse non saranno neppure sempre tutti insieme, molti seguiranno percorsi individualizzati o personalizzati: cadendo un’idea generica di eguaglianza, che però ha prodotto enormi disparità, ci si dovrà attrezzare per valutare lo studente dentro il suo percorso “personale” o “individuale” di apprendimento, all’interno di una revisione temporale dei curricoli e delle presenze, con un’attenzione all’uso del BYOD, della didattica a distanza, dei sussidi, dei libri, dei device, dell’intelligenza.

GLI EDIFICI

            L’emergenza coronavirus ci ha dato la fotografia di un patrimonio di edilizia scolastica fuori dal tempo, fuori dalle necessità delle scuole, fuori da qualsiasi protocollo di distanziamento fisico, difficile da igienizzare, pensato per una scuola vecchia. Per paradosso sono più attrezzati per il futuro i vecchi e giganteschi edifici dell’Ottocento o dei primi del Novecento con le grandi aule, i grandi corridoi, i grandi “spazi inutili”, piuttosto che gli edifici di ultima generazione con aule piccole per tanti studenti e tutto utilizzato oltre la capienza in classi sempre troppo numerose per spazi sempre troppo angusti.

            Quello che più mi stupisce è che non vedo partire nessuna progettualità: i soldi del MES per l’emergenza sanitaria potrebbero permettere di costruire immediatamente tante nuove scuole capaci di garantire i distanziamenti (se serve) e l’adattabilità alla didattica in modo da poter sempre tutelare la salute degli studenti. Invece vedo venire avanti richieste solo minimali di “fare lavori quest’estate”, cioè di adeguare il vecchio al vecchio, dando alle scuole, in cui sono fatti questi lavori pensati prima dell’emergenza, una dote di altri cinquant’anni di spazi inadeguati.

            Ritengo, invece, dovrebbero essere percorse due strade parallele:

a) Reperire da subito spazi pubblici e privati per dare alle scuole la possibilità di distanziare i propri studenti, rendendo meno angusta la convivenza in classe di 27,28 e più studenti dentro spazi pensati per 20 studenti, di attivare una grande alleanza sociale col territorio che metta la scuola al primo posto o e permetta di portare avanti il servizio scolastico dentro luoghi pubblici e privati capaci di contenere molte persone. Faccio due esempi “nazionali”: il Lingotto a Torino e i giganteschi Musei sempre deserti all’Eur a Roma. Ma potrei fare una miriade di esempi per tutte (dico proprio tutte) le località italiane.

b) Avviare un grande progetto di Scuole Green, ecocompatibili, con risparmio energetico, con molte possibilità di modifiche modulari interne da affiancare agli edifici tradizionali: tutto questo dovrebbe mettere fine allo scempio di scuole statali che vivono in locazioni private in edifici pensati per altro e alle scuole che continuano a stare dentro edifici non a norma. Faccio un solo un esempio: il Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Sora (Frosinone) è un Liceo di altissimo livello che sta in locazione in un edificio privato inadatto alla scuola e ci sta da moltissimi anni. Questa nuova progettazione di cui parlo non può essere realizzata dagli Enti Locali con progetti propri, ma deve avere nel team di progetto anche la rappresentanza della scuola interessata per pensare e realizzare scuole che rispondano realmente alle esigenze della didattica e della connettività legata alla didattica, argomenti che sono totalmente sconosciuti a progettisti e uffici tecnici.

            Ritengo, quindi, sia necessaria una duplice alleanza: con gli enti locali e i soggetti pubblici e privati per aumentare gli spazi a disposizione delle scuole nel prossimo anno scolastico e con gli stessi soggetti per avviare una progettazione di sistema per le scuole, aperta al futuro che ci ha travolto.

L’ORARIO DI DOCENTI E ATA

            Il dibattito che sta venendo avanti con ipotesi più o meno realizzabili (ore di 40 minuti, classi divise per due o per tre, azioni in presenza distanziati e a distanza con la multimedialità, ecc.) impongono un ripensamento dell’orario del personale, visto che quello del dirigente scolastico proprio non c’è. Credo sia il caso di dirlo che i dirigenti scolastici hanno lavorato senza pause e senza soste, anche nei giorni di festa, senza distinzione tra presenza e smart working, sempre connessi, sempre attivi.

            L’attuale spacchettamento dell’orario dei docenti (ore di insegnamento; ore funzionali obbligatorie; ore per supplenze; ore non contabilizzate per preparare le lezioni, per  correggere gli elaborati, per valutare; ore per gli esami, ore per l’accompagnamento alle uscite e ai viaggi, ecc.) mi pare sia poco funzionale sia rispetto a quanto accaduto (riunioni on line e didattica a distanza: tutto questo è stato un grande esempio di lavoro, di devozione, di impegno e di sperimentazione), sia rispetto a quello di cui ci sarà bisogno. Io penso sia arrivato il momento di riconoscere con un numero chiaro e semplice qual è l’impegno complessivo annuale dei docenti lasciando poi alla scuola la loro declinazione. Non spetta a me indicare il numero esatto delle ore annuali (a occhio e croce dico che potrebbero essere più o meno 1250), ma in questo orario senza distinzione farei ricadere tutte le ore che servono, appunto, per l’insegnamento, per la funzionalità, per gli esami, per la valutazione degli studenti, per l’accompagnamento nelle uscite e nei viaggi, per la correzione dei compiti e la preparazione degli elaborati, per le supplenze orarie, per il ricevimento genitori, ecc.).

            L’articolo 21, comma 8 della legge n° 59 del 15 marzo 1997 (Bassanini uno) spiega chiaramente come si potrebbe fare: “L’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermi restando i giorni di attività didattica annuale previsti a livello nazionale, la distribuzione dell’attività didattica in non meno di cinque giorni settimanali, il rispetto dei complessivi obblighi annuali di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi che possono essere assolti invece che in cinque giorni settimanali anche sulla base di un’apposita programmazione plurisettimanale”.

            Questo monte ore programmabile per i giorni di scuola o d’esame garantirebbe un utilizzo delle risorse dove è necessario, lasciando giustamente a casa (e in pace) i docenti quando non ci sono cogenti obblighi scolastici. Darebbe, inoltre, la possibilità alle scuole di modulare tempi e orari con progettazioni chiare che mettano il docente nella possibilità di realizzare sia attività seriali (cioè con lo stesso orario tutto l’anno), sia attività legate alle necessità della realizzazione del PTOF, sia attività progettuali. Credo che l’anno scolastico 2020/21 potrebbe essere quello sperimentale e potrebbe indicare un nuovo modo di intendere la funzione docente, legando questo nuovo modello anche ad un rinnovo contrattuale con i giusti aumenti, legati all’evidente risparmio di sistema.

            Allo stesso modo ritengo che l’orario degli ata vada declinato su base plurisettimanale a fronte di un monte ore annuale in modo da rispondere alle reali esigenze del servizio e non alla necessità della presenza comunque. Tutto questo nel rispetto dei tempi di lavoro, di una programmazione condivisa, di carichi di lavoro equi, di analisi dei bisogni, degli spazi, delle esigenze più proprie della scuola (didattica, formazione, valutazione).

CATENA DECISIONALE

            L’emergenza coronavirus ha evidenziato come la catena decisionale anche nelle scuole debba essere più snella, partecipata, effettiva, efficiente, efficace. I vecchi Organi collegiali devono andare in soffitta per fare posto a strumenti veloci che permettano di verificare le volontà collegiali e confluire in decisioni chiare e tempestive, per far fronte a tutti i problemi. E’ diventato evidente a tutti che l’assemblearismo declaratorio e la puntuale adesione a vecchie strutture decisionali poco aiuta in una situazione critica dove le responsabilità alla fine cadono su una persona sola (sicurezza, privacy, organizzazione del lavoro, attività negoziale, attività contrattuale, controllo degli orari, piani delle attività, gestione amministrativa, ecc.). Credo sia necessario che le scuole si diano una propria governance nel rispetto delle responsabilità monocratiche del dirigente e del coinvolgimento di tutta la comunità scolastica nelle decisioni comuni.

            La trita polemica sui “più poteri ai presidi” che fa il paio con quella sui “troppi poteri ai presidi” nulla riesce più a dire sulla realtà della scuola dentro l’emergenza e dentro la società. Laddove ci sono responsabilità monocratiche i poteri devono essere monocratici, laddove è necessaria una progettualità d’insieme devono essere solo fissate linee generali di organizzazione lasciando che le scuole strutturino la propria catena decisione come è necessario nel contesto in cui operano. E’ noto a tutti che i rapporti con gli enti locali, i soggetti istituzionali, i soggetti privati non sono uguali e omogenei in tutta Italia e, dunque un unico sistema di governo della scuola, pensato per la scuola e la società di cinquanta anni fa, non regge più gli avvenimenti, il loro corso, la loro velocità.
Le mie sono solo modeste proposte per prevenire, aperte al dibattito (se ci sarà) e modificabili (magari in meglio).


           

Le riflessione più interessante che a fine maggio 2020 ho rinvenuto sul web è quella di SERGIO MAISTRELLO, giornalista e genitore  

Quella che segue è la traccia di una testimonianza portata in questi giorni al consesso online di un gruppo di dirigenti scolastici del Friuli Venezia Giulia. (IL TRADIMENTO DEL PRESIDE, edscuola.it)

Io credo che ai dirigenti scolastici andrebbe richiesto non tanto un master in gestione di impresa, come suggerirebbe la pur interessante avventura dell’autonomia, ma un master in gestione della complessità. Voi siete – nella vostra scuola, ma di conseguenza nel vostro quartiere, nella vostra città, nella vostra comunità di riferimento – i custodi ultimi della complessità, i garanti della capacità del vostro ecosistema di adattarsi ai cambiamenti e di trasformare (come in questi giorni) le avversità in opportunità. Imbrigliati da mille lacci normativi, che rischiano di annullare anche la buona volontà, lo so bene, ma questo siete. O dovreste essere. E se lo fa la scuola, di sapersi adattare e trasformare, tutta la società fa un balzo in avanti, perché nelle reti che innervano una comunità voi siete un hub fondamentale, perché unite famiglie, generazioni, istituzioni, ruoli, sistemi economici e sociali.

Perché dico un hub? Un hub è un nodo che gli altri nodi riconoscono come funzionale, di livello superiore, quello più bravo a mettere gli altri in relazione e a far funzionare la società. Ragionate per aeroporti: Fiumicino è un hub perché mette in relazione Ronchi dei Legionari con Olbia o Lampedusa. La scuola è un hub perché spesso mette in relazione persone che non hanno altro in comune se non i figli nella stessa classe, e costoro con il senso dell’istituzione pubblica, primaria, essenziale, condivisa. La scuola è la culla della civiltà, se la scuola funziona è più probabile che anche la comunità funzioni.

La prima è che, su tutto, vince l’umanità. Se dovessi scegliere un aspetto che ha fatto veramente la differenza in positivo o in negativo in queste settimane, questo non è stato la stabilità dei collegamenti, la piattaforma scelta, il numero di ore di lezione a distanza o il modo in cui avete deciso di valutare gli studenti in questa congiuntura, tutte cose che sembrano starvi (legittimamente) molto a cuore, ma l’umanità con cui la scuola è andata (oppure non è andata affatto, o ci è andata malvolentieri) in soccorso dei propri alunni. Esserci, esserci con empatia, esserci sapendo di avere un compito che prescinde dalle materie e dai calendari, esserci anche se così è difficile e bisogna reinventarsi di giorno in giorno. Esserci al di là di ciò che la norma e il contratto di lavoro potevano immaginare.

Io credo che noi genitori in questa occasione abbiamo riscoperto proprio questo aspetto, ovvero il modo in cui la scuola integra e completa il nostro ruolo educativo, e si prende cura dei nostri figli. Ci ha commosso quando questa cura si è rivelata davanti ai nostri occhi, generosa e attenta, e ci ha fatto arrabbiare quando ne abbiamo avvertito l’assenza, con le giustificazioni tipiche di chi omette un soccorso.

La seconda sensazione è che la scuola può essere a distanza. Non è l’ideale, non è la prima scelta, ma può. E il discrimine non è affatto la tecnologia, ma l’insegnante. Gli insegnanti che erano già pronti, culturalmente e logisticamente, hanno reinventato forme di didattica piene e in grado di agganciare sia il singolo che il gruppo, prenderlo per mano e portarlo avanti in questo inaspettato e tortuoso sentiero che ci è capitato….Certo ci vuole talento, passione, preparazione e allenamento, tanto allenamento, ma si può fare. E bisogna volerlo fare. L’insegnamento si fonda sullo spingere ogni giorno i ragazzi un po’ al di là della loro zona di comfort, perché è lì che avviene la magia, è lì che si cresce. Il giorno in cui questo principio non varrà più anche per gli insegnanti e per i dirigenti, quel giorno la scuola comincerà a morire.

La terza e ultima sensazione riguarda il gruppo. Io sono convinto che la didattica a distanza di questi giorni avesse valore soprattutto in quanto forma di preservazione e di riscoperta del gruppo, a maggior ragione in una situazione così estrema e improvvisa. Ai singoli, al benessere dei singoli, idealmente provvedevamo già noi genitori. Ma una classe significa soprattutto comunità, relazioni, condivisione. Che cos’era più prezioso che la condivisione o il confronto con un adulto esterno alle dinamiche familiari per elaborare e digerire questa congiuntura, nel pieno dell’emergenza? Mi è sembrata invece una priorità molto sbiadita. La facilità con cui si è pensato e si pensa ancora di dimezzare o parcellizzare le classi per favorire la stabilità dei collegamenti o la qualità dell’insegnamento frontale o in futuro andare incontro alle prescrizioni sanitarie mi continua a stupire.

Una delle cose per cui più sono grato alla scuola, nel percorso dei miei figli, è proprio il modo in cui – attraverso le dinamiche di gruppo – la scuola ha saputo esporli alle differenze. Vivendo in comunità le situazioni in cui erano loro a eccellere, ma non si poteva procedere finché tutti gli altri non li avevano raggiunti. E quelle in cui invece erano loro a rimanere indietro, ed erano loro quelli che il gruppo si fermava ad aspettare. Sono convinto che molte cose i miei figli avrebbero comunque potuto impararle altrove, ma il confronto quotidiano con chi è più abile di te o diversamente abile, con chi è nato nel tuo stesso palazzo o molti confini più in là, con chi è molto più ricco o molto più povero, più curato dalla propria famiglia o meno curato, più talentuoso di te anche nella materia in cui pensi di eccellere, tutto questo è la vera essenza della scuola (pubblica, mi verrebbe da aggiungere, pur nel rispetto per chi fa altre scelte) e la vera grandezza del suo progetto educativo e di civiltà. Perché è qui che impari a mettere te stesso e le tue ambizioni in prospettiva, ed è qui che impari che non potrai mai procedere da solo, ma che è l’unione di tante differenze a fare di te qualunque cosa vorrai diventare un giorno.

Vi lascio qui, a uno snodo della storia, in cui alla scuola a quanto pare non bastano impiegati, ma servono eroi. Sogno una scuola a cui i cittadini mandino spontaneamente dolci o battano le mani dai balconi, come a medici e infermieri nei giorni scorsi. Voi dovrete essere sempre più maestri d’orchestra della complessità. Esperti in contemporaneità. Virtuosi del buon senso. Traghettatori tra il mondo che era (e difficilmente sarà ancora) e il mondo che sarà, e che per molti di noi (e tra questi buona parte dei vostri alunni) già è. Come nella leggenda di San Cristoforo, voi siete i giganti maestosi e terribili che possono aiutare il fanciullo mite e grazioso ad attraversare il fiume impetuoso, barcollando sotto il suo peso, perché quello a sua volta porta sulle spalle il peso del mondo intero. Se vi spaventate davanti alla corrente oppure eccepite che non sta scritto da nessuna parte che sia compito vostro attraversare quel fiume impetuoso, il fanciullo molto probabilmente sarà destinato a restare lì con voi. E il mondo con lui. A voi però, molto più che a tanti altri in questo momento, sta decidere come proseguirà la sua storia.

LA SCUOLA IMMAGINARIA (28/3/2020)
Il primo articolo “vero” l’ho rinvenuto sul Corsera il 28 marzo: “Io preside e i miei prof che non vogliono fare lezioni a distanza”, di Gianna Fregonara. Al Chiodi di Roma 3 proff su 5 non vogliono andare in video, mandano solo compiti e materiali. In mezzo ad articoli che danno per scontato quello che non lo è, l’attivazione generalizzata della dad (didattica a distanza), facendo immaginare una scuola italiana che non esiste, connessa, digitale, spunta qua e là la notizia di difficoltà, malumore dei docenti o dei genitori. La ministra è contro il sei politico, lascia che siano i docenti a decidere come dare i voti, ci tiene che gli esami di terza media e di maturità si svolgano, sia pure con modalità facilitate. Mi ritornano in mente gli anni settanta quando nelle scuole si era generalizzato lo slogan “ogni consiglio di classe è sovrano”. Ora, è evidente che nulla si improvvisa, già la sola modalità del registro elettronico non è ancora un fatto acquisito per tutti i docenti, figuriamoci quanti decenni dovranno passare perchè la dad diventi una pratica comune. Ma allora la domanda che continuo a farmi resta sempre la stessa, perchè ancora nel 2020 i media non rispecchiano la realtà e preferiscono presentare una scuola pubblica italiana che non esiste? La scuola italiana è a macchia di leopardo, poche scuole all’avanguardia convivono con la stragrande maggioranza di scuole che tirano a campare, usando la lezione frontale come unico strumento trasmissivo delle conoscenze. Al contrario, leggendo i giornali o vedendo la tv si potrebbe credere che i 57.831 istituti scolastici ( 44.896 sono statali mentre 12.935 paritari)  siano tutti moderni e “avanguardie educative”. La pandemia che sta cambiando le nostre vite ci mette in condizione, se lo vogliamo, di dire come il bambino della favola “il re è nudo”, guardando a scuole che sono spaccate al loro interno. Una spaccatura netta, drastica, del personale, due mondi incomunicabili: da un lato i proff impegnati, laboriosi, stanchi ma pronti ad imparare continuamente, ad aggiornarsi, a tenersi al passo con i tempi. Dall’altro lato i loro colleghi ignavi, menefreghisti, indolenti, abitudinari, quelli che spiegano la stessa lezione da una vita, assegnano i compiti per casa e mettono i voti a casaccio. Due mondi in contrapposizione, incomunicabili, ma legati da un minimo comune denominatore, tutti prendono lo stesso stipendio. Il merito, le differenze di impegno non sono nè rilevabili nè sancite. Tutto deve sembrare, apparire indistinto. Ed ecco perchè tutto viene raccontato e tramandato ai posteri dicendo bugie. Io non so quanti siano i bravi e gli scansafatiche. Non lo so e non mi interessa il numero, le grandi scuole sono quelle che nascono in Italia dal caso. Solo il caso mette assieme bravi dirigenti e bravi docenti, è un gravissimo errore politico oltre a non esser giusto che i docenti che oggi stanno facendo lezioni a distanza (spesso partendo da zero) siano pagati quanto quelli che sono semplicemente in vacanza. D’altra parte, mentre moltissimi lavoratori hanno perso il posto di lavoro e sono disperati, il destino (e la politica) vogliono che tanti lavativi con posto pubblico vivano tranquilli e sereni nelle loro case impegnandosi con il massimo dell’impegno nel bricolage.

Alcune note sulla didattica a distanza di Stefano Stefanel

         La Didattica a distanza è una Didattica digitale e dunque in questo momento (iniziato improvvisamente, ma destinato a durare a lungo) è l’unica possibile. Dopo una fase iniziale di entusiasmo, alimentato di chi si è esposto a sostenere che la Didattica a distanza poteva sostituire quella in presenza, si sta passando a una sorta di dubbio collettivo, alimentato da voci sempre più persistenti di studenti stremati, famiglie oberate e crisi di nervi in arrivo. Il Ministero fa bene a temporeggiare sulle così dette “promozioni di massa” che poco piacciono ai tifosi della selezione, ma una cosa è certa: sono gli studenti più deboli, svogliati, assenteisti che hanno maggior bisogno della Didattica in presenza, cioè della “vecchia scuola”. Già deboli dentro un sistema cooperativo e comunitario questi studenti sono dispersi nel web e nelle loro lacune, dentro uno sfondo che non li ha dotati di competenze sufficienti per reggere l’urto della scuola in presenza, immaginarsi cosa gli sta succedendo nella scuola a distanza. Se quindi era già terribile prendersela con i più deboli in periodo “di pace”, immaginiamo quanta violenza ci sarebbe nel prendersela con i più deboli “in tempo di guerra”. Ma di questo ci sono ancora due mesi di tempo per parlarne, cercando, comunque e giustamente, di non dare alibi a nessuno studente che intende limitarsi a sbadigliare invece che a studiare.

         Il punto cruciale da affrontare, però, oggi è quello di una Didattica a distanza e di una Didattica digitale (non sono la stessa cosa, ma in questo momento sono l’unica cosa) che sono utilizzate anche da molti docenti che nulla in precedenza avevano sperimentato in merito, molti dei quali erano addirittura strenui combattenti contro il digitale. Il trasferimento delle metodologie in presenza alle metodologie a distanza, delle metodologie cartacee a quelle digitali può permettere di coprire qualche vuoto, può aiutare gli studenti bravi o bravissimi, ma rischia di gravare il sistema di un nuovo errore, cioè quello di cercare di fare stare il vecchio nel nuovo. La strada da percorrere è quella che permette di ribaltare alcuni stereotipi, per posizionarsi nell’altrove in cui siamo precipitati. Per questo di seguito indico, in questo intervento, dieci “accorgimenti pedagogici” che potrebbero essere utili per aiutare a definire i confini di una Didattica a distanza che sia una vera Didattica digitale.

1. Dalle domande agli studenti alle domande degli studenti. L’attività didattica in chat o in videoconferenza permette un’interazione diretta con soggetti lontani, situati dentro ambienti spesso difformi e non tutti idonei all’apprendimento. La vecchia modalità dell’ “a domanda risponde”, propria ormai solo dei tribunali e delle aule scolastiche, non serve a niente, perché semplicemente mima una situazione in presenza dove prevalgono la memoria e non l’iniziativa. E’ necessario passare dalle domande fatte dall’insegnante allo studente alle domande fatte dallo studente all’insegnante. Da quelle domande si percepiranno la profondità, l’interesse, la competenza. Va ribaltato lo schema: l’interrogazione non parte dalla domanda dell’insegnante, ma da quella dello studente.

2. Dall’interrogazione al colloquio colto. I video incontri anche individuali possono permettere uno spostamento dal concetto di interrogazione a quello di “colloquio colto”. Che cos’è un colloquio colto? E’ un colloquio tra due persone che condividono punti di riferimento culturali di livello elevato (e connessi all’età del soggetto più giovane). Chi non ha mai sentito parlare dei Promessi sposi non è in grado di discutere i motivi per cui don Rodrigo non voleva che Renzo e Lucia si sposassero, né l’eventuale esistenza di punti di contatto tra la pesta milanese del ‘600 e questa nostra epidemia. Ma il concetto di colto si estende anche alla trigonometria e alla geografia, alla geometria e all’ecologia. Cioè a tutti quei settori in cui è possibile parlare solo con chi ne sa qualcosa. Ad esempio: per stabilire che cosa è un virus, come si trasmette, come si distrugge.

3. Dall’esperienza di classe all’esperienza personale. Ogni studente (dai 3 ai 19 anni) sta vivendo un’esperienza diversa. Queste esperienze con colonne musicali personali, dentro luoghi diversi (case grandi con giardini, case piccole piene di gente, case su più piani, case con grandi saloni, case con piccole camere, ecc.) e dentro stili di vita diversi possono diventare il centro della narrazione e il punto di origine della conoscenza. L’apprendimento per sviluppo prossimo di cui parlava Vygotskij è il punto di partenza dell’esperienza didattica e di quella dell’apprendimento. Poiché non ci sono più ambienti simili, perché mediati ormai da esperienze di convivenza non comuni, le esperienze personali di vita nell’emergenza devono essere proiettate attraverso il web dentro lo spazio comune. Con racconti, foto, musiche, filmati, selfie, cioè con tutto quello che in questo momento attraverso il web restituisce significato che ognuno di noi assegna a quello che sta accadendo.

4. Dai compiti per casa ai compiti di realtà. Questo è forse uno dei passaggi più difficili: passare, cioè, da un meccanismo didattico ripetitivo e connesso alla successiva verifica sul raccordo tra quello che sta insegnando e quello che si deve imparare, alla descrizione della realtà dentro cui si vive. Questo mutamento di prospettiva importante per gli studenti adulti diventa necessario per quelli più piccoli che non possono essere inseriti dentro un sistema di semplici apprendimenti teorici, avendo perso anche quella laborialità logica che si trova dentro qualunque classe del primo ciclo dell’istruzione. Dunque cercare di stimolare la realtà e di portarla nella teoria, non fare viceversa costringendo lo studente dentro una realtà in cui con i compiti per casa si cerca di coprire la mancanza della vita scolastica quotidiana.

5. Dalla verifica di quanto trasmesso alla ricerca della complessità: dal disciplinare al pluridisciplinare.  Se già la Didattica in presenza fatta di lunghe spiegazioni e di lunghissime conferenze mostrava il passo e veniva intaccata sempre più spesso da progetti, laboratori, incontri pubblici, viaggi, stage, ecc. la Didattica a distanza fatta attraverso lezioni frontali diventa insostenibile. Se è possibile apprendere attraverso filmati perché non lo si faceva anche prima? Lo studente debole che si annoiava in classe a sentire lunghe narrazioni solitarie davanti ad un filmato tende a fare altro (guardare il suo cellulare se non è connesso con quello, ad esempio). E’ necessario allora verificare il processo di apprendimento attraverso la complessità. Non chiedere nozioni o conoscenze secche, ma chiedere un ragionamento attraverso temi molto complessi e articolati, che non si possano risolvere copiando da internet, ma richiedano pensiero ed elaborazione per fare emergere le competenze reali. La complessità per sua natura esige competenze, quindi bisogna dare compiti difficili per cercare l’eccellenza, non per sanzionare i peggiori. Questa difficoltà deve valorizzare gli studenti migliori, che attraverso la loro competenza approfondita aiuteranno a migliorare la Didattica a distanza. La complessità disciplinare deve raccordarsi con quella pluridisciplinare di cui è ormai pregna la nostra società. Per questo è importante costruire contenuti pluridisciplinari che stimolino gli studenti dentro ragionamenti complessi e non ripetitivi.

6. Dal fare i compiti allo scrivere libri. La possibilità di condividere testi dentro cloud permette di passare dall’elaborazione di compiti alla scrittura di libri. Poiché questi libri saranno multimediali, possono essere di qualunque formato, contenuto, durata. L’insegnante è il soggetto ordinatore, la scuola è l’editore, i ragazzi sono gli scrittori. Il passare da una scrittura che trasmette quello che ha recepito a una scrittura che recepisce quello che trasmette permette di mettere allo scoperto la genialità o la pochezza del prodotto. Il lavoro collettivo diventa anche una traccia delle individualità e della loro capacità di adeguarsi o no alle attività di gruppo. In questo caso l’emergenza non produrrà compiti, ma permetterà di editare (sul web) un libro sull’emergenza, che sarà diverso per ogni classe, per ogni gruppo, per ogni elettività.

7. Dalla penna alla tastiera. La gestione della tastiera (sia quella di un PC, sia quella di uno smartphone, sia quella di un tablet) è diversa dalla gestione della penna. Il passaggio da penna a tastiera ribalta quello che è il normale senso del procedere. Per moltissimi studenti la tastiera ha già preceduto la penna: ora non si tratta solo di applicare una sostituzione, ma di comprendere che, dentro una Didattica a distanza che è una Didattica digitale, di nuovo “il mezzo è il messaggio”. Digitare non è mai scrivere con la penna, partendo anche dal semplice fatto che molto spesso ciò che manca al digitale è la pazienza della rilettura di quello che si è scritto. La scuola deve entrare in questo meccanismo e, in questo momento, deve ribaltare la sua priorità iniziale (la penna) per passare alla priorità digitale dei suoi studenti (la tastiera), avendo bene in mente che scrivere con la penna non produce gli stessi effetti che scrivere con la tastiera e pertanto anche su questo è necessario fare scuola (primaria: anche quando si frequenta il liceo).

8. Da segnalare libri (letture) a segnalare link. In questa fase è necessario che i docenti segnalino correttamente link dove individuare questo o quell’argomento sviluppati in modo corretto. Questo è un lavoro nuovo ed è un lavoro immane. E’ possibile credere ancora che lo studente studi volentieri sul manuale cartaceo, ma forse qualche dubbio in questa fase è necessario farselo venire. Bisogna imparare a linkare (parola pessima: ma ce n’è un’altra?) in forma approfondita, dopo aver girato ore e ore sul web per cercare qualcosa di veramente utile, interessante, ben scritto, ben organizzato. Qui entriamo nel settore delicato della ricerca didattica, che non può limitarsi a cambiare nomi o a cercare di portare il vecchio programma dentro un nuovo curricolo. L’emergenza chiede un aumento di profondità e quindi la possibilità di accedere in forma critica e intenzionale ai moltissimi contributi di altissimo livello che si trovano sul web. Diventa perciò necessario “saper linkare”: quando il docente parla agli studenti, deve segnalare riferimenti digitali facilmente reperibili, quando lo studente parla, deve indicare precisamente la fonte da cui ha tratto spunto per quello che sta dicendo. Va ripristinata la logica didattica di san Tommaso d’Aquino, che pretendeva, durante il quolibet, che i suoi studenti citassero sempre la fonte delle loro affermazioni. A quel tempo avevano solo la memoria, oggi abbiamo un web così enorme che ci sta asciugando la memoria, per cui dobbiamo dare riferimenti chiari, non generici richiami a testi che non sono oggettivamente alla portata fisica (perché cartacei) di nessuno.

9. Dalla lingua madre al plurilinguismo. Il plurilinguismo dovrebbe diventare la cifra della lontananza. A scuola non si può più parlare solo italiano, ma si deve iniziare a interagire in tutte le lingue con cui abbiamo familiarità, siano esse vive o morte. E’ un lavoro complesso non alla portata di tutti, ma credo sia necessario avviare degli incontri via chat o video con più insegnanti presenti contemporaneamente. Quelli di lingua straniera avrebbero così la possibilità di presidiare le competenze linguistiche degli studenti dentro importanti contenitori scientifici, umanistici o anche esperienziali. Sia nel primo ciclo sia nel secondo ciclo è importante dare allo spettro plurilinguistico possibilità di spaziare di farsi valere come veicolo. La didattica dentro il plurilinguismo è una didattica molto complicata e che per questo si sposa con la complessità virtuosa di cui parlavo sopra. Per questo è necessario affinare le competenze del lavoro in team, dentro spettri linguistici differenti su azioni pluridisciplinari complesse. Il senso dell’operazione diventa non solo quello di testare conoscenze, ma soprattutto quello di vedere in che modo si sono sviluppare le competenze, che solo dentro una dimensione plurilinguistica collocano lo studente (anche molto giovane) nella società che si evolve.

10. Dall’orario dei docenti all’orario degli apprendimenti. Pensare che Didattica a distanza possa rispettare gli orari della Didattica in presenza è una pericolosa perdita di tempo. Mimare da remoto, attraverso video incontri o lezioni frontali, i tempi della presenza significa stare dentro un medium senza averne capito nulla. I consigli di classe, i team docenti, i dipartimenti dovrebbero attivarsi per rivedere la propria progettazione curricolare slegandosi dall’idea (morta) di programma. I programmi non si potranno finire né quest’anno né mai, ma bisogna, invece, costruire curricoli anche temporalmente al passo con il processo di apprendimento degli studenti. Era una cosa che bisognava aver fatto prima, ma che adesso diventa imprescindibile e come tale deve essere attuata nell’emergenza. Passata la prima fase accompagnata dall’entusiasmo dei neofiti, degli avanguardisti, degli estremisti del web e di quelli della carta, si deve transitare alla mediazione processuale per capire qual è il tempo migliore per sviluppare apprendimenti e per cementate conoscenze. Inutile rimanere ancorati all’orario: il mattino si spiega il pomeriggio si studia. Il tempo non è più quello che conoscevamo, le giornate sono più brevi di prima perché la solitudine annulla i tempi e cambia i ritmi. E quindi anche la scuola deve essere diversa. Il tempo della Didattica a distanza e della Didattica digitale non può essere quello della Didattica in presenza, scandita oltre che dalle sveglie mattutine anche dagli autobus, dai treni, dagli scuolabus, dalle mense, dai rientri, dagli orari dei genitori, dallo sport, dalla dottrina, dai gruppi musicali e culturali, dalle feste, dagli incontri, ecc. Bisogna ripensare il tempo della scuola, collegandolo a quello dell’apprendimento in situazione di emergenza. Serve un tempo nuovo, magari un tempo senza tempo, in cui ci siamo perché apprendiamo, non perché siamo obbligati a esserci. ========================================================

SCUOLA/INVALSI E UN CONFRONTO CON L’ESTERO di FRANCESCO SCOPPETTA (16/2/2020) Tra i tanti divari tra Nord e Sud, c’è anche quello nei risultati scolastici, misurati dai test in matematica, scienze e lettura e comprensione di un testo, sottoposti agli studenti quindicenni nell’ambito del programma internazionale Ocse-Pisa. Nell’ultima rilevazione del 2018 la differenza nei test in lettura tra il Nord-Est e la ripartizione Sud-Isole (che comprende Basilicata, Calabria e le due Isole) è stata di 62 punti. Nella graduatoria internazionale il Nord-Est è ai primi posti, accanto a Danimarca e Norvegia; il Sud-Isole molto più in basso, accanto alla Serbia. Una differenza ancora maggiore si riscontra nei test di matematica. Secondo Tito Boeri e Alessandro Caiumi i risultati inferiori degli studenti meridionali dipendono dalla “scarsa attenzione di padri e madri per quello che i figli imparano al di là del titolo di studio”. Ora a me pare che solo rilevazioni nazionali attraverso prove oggettive possono mettere genitori studenti e insegnanti davanti alla realtà. Se lasciamo la valutazione soltanto ai voti discrezionali del singolo insegnante tutti giochiamo a mosca cieca.

Vorrei accostare la scuola italiana del Sud ad una immagine: un coltello che non taglia più. E’ chiaro che si continua a chiamare “coltello” anche un coltello non affilato e che è diventato inservibile. Magari è un oggetto di ornamento, lo possiamo lavare, pulire, abbellire, ma se non taglia più è un oggetto che ha perso la sua funzione. Sempre “coltello” è, non è che lo possiamo chiamare “sedia” o cucchiaio”, ma che ce ne facciamo? Possiamo disquisire sulla definizione astratta di “tagliare” ( separare la parte da un intero) ma è indispensabile fare la prova pratica, prendiamo  un panino e proviamo a tagliarlo con il coltello: taglia o non taglia? La scuola italiana meridionale non taglia più perchè non adempie più alla sua funzione, che è istruire, vale a dire costruire e aumentare gli apprendimenti formali degli alunni.  Ci siamo, forse colpevolmente, dimenticati di questo scopo primario dell’istituzione e abbiamo preferito sostituire “istruire” con altre finalità (a piacere), “educare”, “formare”, “divertire”, “socializzare, “ far star bene”. Lo Stato è responsabile della qualità dell’istruzione e dovrebbe quindi garantire che le scuole rispettino gli standard stabiliti. In Italia questi standard ( anche se sono stati descritti traguardi di apprendimento) non sono ben chiariti per cui  in pratica ogni prof si fissa i suoi personali. Ecco perchè le prove oggettive come l’Invalsi non piacciono ai docenti, tolgono la discrezionalità della valutazione e confrontano alunni di contesti, ordini e classi diverse. (In calce a questo articolo spiegherò come altri importanti Stati europei fanno la rilevazione degli apprendimenti). La certificazione che uno Stato rilascia allo studente alla fine dei suoi studi formali deve essere attendibile (accountability) e spendibile in tutti gli altri Stati del mondo. In una scuola inutile il paradosso è che, secondo qualcuno, sarebbero inutili le prove Invalsi: ci dobbiamo basare soltanto sui voti dati da ciascun insegnante. Come se non bastasse, nel Mezzogiorno nessuno di noi negli anni sessanta pensava entrando a scuola di potersi comportare come se fossimo a casa nostra, anche perchè il maestro aveva la bacchetta. Oggi invece si sta a scuola come si sta in famiglia, in un bar, un supermercato o una piazza. Per non farla lunga, faccio un unico esempio. In una scuola media un prof diceva alla mamma che il figliolo non sapeva ancora le tabelline e la mamma commentò: Embè? Non ci sono le calcolatrici? Quei pochi che si rendono conto della scuola che non istruisce più si dividono tra quelli che vorrebbero un impossibile ritorno al passato (la scuola severa che boccia) e quelli che intendono destrutturare i luoghi deputati all’insegnamento e l’attendibilità delle relative certificazioni (tutti i 100 e lode all’esame di Stato in alcune scuole cosa sono se non la morte di qualsiasi credibilità del titolo formale?). L’ostracismo alle prove Invalsi significa solo che si intende conservare la fabbrica dei voti finti. Ora, la scuola del passato è improponibile perchè non c’è più il tempo limitato dell’istruzione iniziale (13 anni) ma il lifelong learning, l’apprendimento che riguarda l’intera durata della vita. E’ questa una dimensione verticale ineliminabile, mentre nella dimensione orizzontale abbiamo tre forme di apprendimento. (1) la scuola resta il luogo per l’apprendimento formale: quell’apprendimento che avviene in un contesto organizzato e strutturato, esplicitamente pensato e progettato come apprendimento e che conduce ad una qualche forma di certificazione. (2) Poi c’è l’ Apprendimento non formale: quello che non è erogato da una istituzione formativa e non sfocia normalmente in una certificazione, ad esempio una giornata di approfondimento su un problema lavorativo nella propria professione; (3) infine c’è l’Apprendimento informale: le molteplici forme dell’apprendimento mediante l’esperienza risultante dalle attività della vita quotidiana legate al lavoro, alla famiglia, al tempo libero, quello non organizzato o strutturato e che non conduce alla certificazione (ad esempio l’esperienza scoutistica). Probabilmente ormai le scuole meridionali confondono tali tre aspetti che invece sono ben distinti. Il prof (da me detto “lo sfogatoio in cattedra“) che osteggia le prove oggettive e invece pensa di istruire facendo i suoi sproloqui sul mondo durante le lezioni  è chiaro che tale distinzione non sa proprio cosa sia. Caro sfogatoio, una porzione crescente ed impressionante di studenti non sono più in grado di leggere e comprendere testi di media difficoltà; non sanno scrivere correttamente e non sanno parlare decentemente, nei licei e ormai anche nelle università. Istruire significa proporsi questi traguardi.

LA RILEVAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI ALL’ESTERO In molti paesi europei da anni è in vigore un sistema di rilevamento degli apprendimenti su base nazionale o regionale : 18 tra i 25 paesi Ocse per i quali sono disponibili i dati hanno un sistema di rilevazione degli apprendimenti con prove standardizzate. Evidentemente, esiste un bisogno molto concreto di verificare se i ragazzi che frequentano un sistema scolastico, specialmente a frequenza obbligatoria, hanno risultati di apprendimento ragionevolmente comparabili tra scuola e scuola. È superfluo spiegare le ragioni di equità e di efficienza sottese a questo bisogno.
In Francia, ad esempio, la valutazione su scala nazionale del livello di apprendimento degli alunni è affidata a test standardizzati redatti dalla Direzione generale dell’istruzione scolastica (Dgesco) su direttive ministeriali, mentre la Depp (Direzione della valutazione, della prospettiva e della performance) elabora e mette a disposizione gli strumenti di supporto alla valutazione, alla misura della performance, al monitoraggio e alla decisione. I test vengono somministrati ad alunni di 7 e 10 anni di età, ovvero quelli che frequentano il secondo e l’ultimo anno della scuola elementare e le materie oggetto della valutazione sono il francese e la matematica. La somministrazione delle prove è affidata agli stessi insegnanti, durante una settimana predeterminata a livello nazionale; gli insegnanti stessi valutano le prove ma la correzione vera e propria viene effettuata per via informatica dalla Depp.
L’obiettivo di queste valutazioni è quello di verificare il percorso compiuto dagli studenti in rapporto ad obiettivi ben definiti dei programmi scolastici, così da consentire agli insegnanti di effettuare interventi personalizzati per gli alunni che hanno bisogno di un particolare supporto. I risultati del singolo sono comunicati alla famiglia dell’alunno.
Al tempo stesso il ministero effettua una comparazione dei risultati con quelli degli anni precedenti. Vengono inoltre effettuate delle “valutazioni bilancio” che tengono conto di un arco temporale di 6 anni.
Risultati globali e anonimi, invece, vengono resi pubblici sul sito del ministero, con una comparazione che tiene conto anche del sesso e della provenienza sociale degli alunni.

In Germania, nel 2003-2004, la Conferenza permanente dei ministri dell’istruzione dei Länder (Kultusministerkonferenz – Kmk) ha individuato degli standard educativi nazionali (Bildungsstandards) e, nel 2006, ha delineato una strategia globale per il monitoraggio del sistema educativo. Dal 2009 vengono annualmente somministrati dei test agli alunni del terzo e dell’ottavo anno dell’istruzione obbligatoria (Vera 3, che riguardano matematica, tedesco, e Vera 8, che riguardano matematica, tedesco e prima lingua straniera).
Gli standard educativi sono previsti per alunni del quarto e ultimo anno della scuola primaria (Grundschule), e per quelli del nono/decimo e ultimo anno, a seconda del Land, della scuola secondaria inferiore generale (Hauptschule/Realschule), in particolare per quelli che conseguono i certificati finali Hauptschulabschluss (e in questo caso vengono testate le competenze acquisite in tedesco, matematica, prima lingua straniera) e Mittlerer Schulabschluss (e in questo caso vengono testate le competenze acquisite in tedesco, matematica, prima lingua straniera, biologia, chimica e fisica).

In Inghilterra esistono prove obbligatorie al termine del Key Stage 1, ovvero per gli alunni di 7 anni e, sebbene sviluppate a livello nazionale, vengono erogare direttamente dagli insegnanti e possono essere svolte in qualsiasi momento dell’anno a partire dal mese di gennaio. Altri test sono previsti e al termine del Key Stage 2, ovvero per gli alunni di 11 anni, e che vengono somministrati nel mese di maggio.
Le prove riguardano inglese e matematica, mentre la materia scienze è valutata solo su un campione nazionale.
Esistono anche test facoltativi alla fine di ciascuno dei primi tre anni del Key stage 2 (ovvero a 8,9 e 10 anni di età) e alla fine di ciascuno dei tre anni del Key Stage 3 (cioè 12,13 e 14 anni di età). I risultati delle prove, assieme ai risultati della valutazione interna delle scuole e delle ispezioni, concorrono all’individuazione delle strategie da applicare per apportare miglioramenti sulla qualità delle scuole e sull’efficacia dell’insegnamento. I test facoltativi sono invece destinati a valutare le singole classi e i singoli alunni, individuandone punti di forza e di debolezza.

In Spagna esistono due tipi di valutazioni: una organizzata a livello nazionale dall’Istituto di Valutazione e realizzata a livello territoriale, ogni 3 anni, dalla singola Comunità Autonoma, e una valutazione diagnostica di livello territoriale, demandata alle singole CA e che avviene con cadenza annuale.
I test vengono somministrati a campione sugli alunni al termine del quarto anno della scuola primaria (10 anni di età) e al termine del secondo anno di scuola secondaria inferiore (14 anni di età). Le tematiche oggetto del test riguardano, a rotazione, le 8 competenze di base del curriculum. I risultati, vengono utilizzati per la valutazione dell’intero sistema educativo, ma rappresentano anche una fonte di informazione per le famiglie circa il sistema educativo territoriale. (Maria Cristina Tubaro, Sole24ore-Scuola, 4/5/2016)

NB= sulle prove PISA dell’Ocse (74 paesi) v. “L’Italia dell’ignoranza. Crisi della scuola e declino del Paese” di Graziella Priulla, FrancoAngeli ed., 2011

STEFANO STEFANEL /IL CURRICOLO DIGITALE (Edscuola, febbraio 2020) L’emergenza per il Coronavirus ha portato allo scoperto un temra (che presenta molti aspetti: didattica a distanza, comunità virtuale, scuola attraverso il cloud, smart schoolsmart working, ecc.), che stava prendendo una strada priva sbocco, cioè quella della contrapposizione tra libri e web. Le norme prodotte in funzione dell’emergenza per il Coronavirus mettono nero su bianco, in maniera anche un po’ confusa, metodologie e possibilità che già c’erano e che qualcuno stava già sfruttando. Sui social poi sono fiorite le testimonianze delle varie comunità scolastiche virtuali nate a seguito dell’emergenza o che già si stavano sviluppando. Così il dibattito su libri e web è tornato, ma sotto mentite spoglie, con il web che dimostra come possa essere utile e utilizzato, fermo restando che a casa e a scuola si possono continuare a leggere anche i libri. Io credo non sia possibile percorrere la china che ha preso, nel frangente dell’emergenza, una parte del dibattito sulla scuola italiana e vada riaffermato un principio cardine molto semplice: è necessario e fondamentale che le scuole si dotino di curricoli digitali che siano di supporto al curricolo d’istituto o che interpretino in forma autonoma il digitale. Non si possono improvvisare classi virtuali, chat didattiche, cloud più o meno operativi o lezioni su you tube senza prima aver predisposto un lavoro progettuale frutto di ricerca e innovazione e ricerca sull’innovazione. Il Miur ha finanziato nel 2016 per quasi due milioni di euro progetti nazionali per la redazione di Curricoli digitali: da quell’autunno del 2016 ci sono voluti tre anni per arrivare nel novembre del 2019 ad individuare i vincitori di quei progetti, che stanno aspettando (sempre da novembre) che vengano accreditati i fondi e autorizzate le spese per iniziare i progetti. Troppo tempo dunque e tutto troppo lento pur in presenza di soldi e di volontà. Però anche un monito: non si producono didattiche alternative in poco tempo e soprattutto non le si producono durante un’emergenza. Il processo progettuale deve essere graduale, ma non lento, innovativo ma non necessariamente rivoluzionario, attento alle esigenze degli studenti e dei docenti, collegato a device e a software facilmente utilizzabili, economici ed anche abbastanza sicuri da intrusioni. Se la contrapposizione tra libri e web mi sembra una contrapposizione sterile che mette in secondo piano quello che è l’elemento centrale della scuola e cioè lo sviluppo armonico dell’apprendimento dello studente, lanciarsi in improbabili esperimenti a seguito della chiusura per una settimana delle scuole (in alcune regioni di meno, perché tre giorni di chiusura erano già previsti per Carnevale) significa avere in spregio la pedagogia, non conoscere la multimedialità, sottostimare il processo di apprendimento. Esiste un passaggio eccezionale dell’Iliade che ci viene in aiuto. Achille si è ritirato sulle navi e i Mirmidoni non combattono più. Ettore fa uscite le truppe da Troia e incalza gli Achei che combattono con i piedi in acqua tanto avanti sono arrivati i troiani. Escono allora in battaglia i due Ajace che respingono i troiani combattendo appaiati e avanzando insieme, ma con metodologie diverse: Ajace Telamonio combatte e avanza da solo, poi si ferma a riposare e i suoi uomini tengono la posizione che ha conquistato; Ajace Oileo invece avanza mentre i suoi uomini da dietro tirano frecce sui troiani in sincronia con i suoi movimenti. Scrive Omero che i due eroi mitologici avanzano insieme come buoi in un campo da arare e i troiani indietreggiano. Diverse metodologie, un unico traguardo. Ma anche un’altra cosa: precisione millimetrica di tempi e spazi, sincronia, fiducia nel vicino: tutte cose necessarie per frenare l’avanzata di Ettore, ma anche per mettere a punto una didattica efficace e non solo efficiente.

         Per prepararsi a uscire in battaglia contro Ettore e in una situazione drammatica non si può improvvisare o sperimentare, bisogna mandare fuori i migliori perché loro sanno come si fa. E lo sanno perché le loro competenze vengono da molto lontano. Improvvisare, a causa di una emergenza, lezioni a distanza o condividere compiti on line se si è sempre agito di persona e su carta è il peggior modo di entrare in quella struttura didattica innovativa e digitale di cui l’Italia ha molto bisogno. E molto male fanno all’incedere corretto della didattica e dell’innovazione coloro che estremizzano la comunicazione, dando per scontato ciò che è processo, dando per trovato quello che è ancora ricerca. In situazione come queste e davanti a dibattiti surreali su argomenti discussi sul web prima che nei collegi docenti bisogna avere la capacità di pensare e costruire mappe di ricerca che producano una reale curricolarità. Il digitale ha bisogno di curricolo, anche perché non viene da lontano e non ha un programma, dunque si trova nella terra di nessuno, quella delle competenze nominate ma non declinate. Da ormai vent’anni la competenza digitale sta tra quelle chiave dell’area Ocse ed è stata assunta nei programmi di sviluppo per le scuole, di cui i PON sono solo l’esempio più eclatante. Da vent’anni c’è la competenza digitale inserita tra le otto competenze chiave, ma non c’è il curricolo, anzi si stanno sviluppando, quasi di pari passo, il BYOD (Bring You Our Device) e i tentativi di reprimere con mezzi artigianali un processo di sviluppo molto potente. Quello del web è un mondo complesso, dove si possono acquisire contemporaneamente dati, conoscenze, notizie, informazioni, fake news, bufale, stupidaggini e competenze che si intrecciano con confini spesso molto sfumati tra loro.

         Se dunque è corretta l’idea ministeriale che la curricolarità digitale abbisogni di una progettualità che nasca da sperimentazioni dal basso, pare molto confusa l’idea che le scuole hanno nel complesso delle competenze digitali, di come si certificano, di come si valutano, di dove si valutano e – soprattutto – di come possano convivere con la repressione sull’uso degli strumenti di proprietà. Tutto questo ha bisogno di solidi curricoli d’istituto, che traccino i confini e in cui il web sia al servizio dell’apprendimento, permetta di costruire repositori e cloud accessibili e scientificamente approfonditi, che integri il sapere dentro strutture di controllo analitico di quanto viene divulgato e sviluppato.

         Credo anche sia necessario che la curricolarità digitale parzialmente abbia un appiglio in alto (Università, Miur, Ricerca didattica) e parzialmente nasca da ricerche e azioni di istituto, esperienze che si consolidano strada facendo, formazione docenti e formazione studenti che vanno i pari passo. Sono le scuole che devono iniziare la ricerca e devono perseguire l’innovazione, perché lo ritengono necessario, non perché obbligate dal Ministero o dall’emergenza.  Personalmente ritengo molto obsoleta l’dea che il circuito “Spiegazione e assegnazione compiti – Interrogazione o compito sulla spiegazione – Misurazione che si trasforma in valutazione” possa essere considerato virtuoso nel rapporto tra insegnamento e apprendimento, anche perché tiene fuori il rapporto ormai necessario e paritario nel percorso di apprendimento tra formale, non formale e informale nella valutazione degli studenti. La spinta all’innovazione, all’uso di tecnologie informatiche, allo sviluppo del BYOD, che viene anche dalla società civile, non penso stupisca più nessuno (semmai produce inspiegabili reazioni contrarie a difesa della carta, che di fatto nessuno attacca). Anche per questo i riferimenti governativi in relazione alla didattica a distanza, all’uso delle piattaforme, al rapporto con gli studenti in forma diversa da quella tradizionale deve collegarsi a quanto contenuto nei PTOF, non a livello formale, ma proprio a livello sostanziale. In questo come in quasi tutti i settori del sapere e della conoscenza nulla si inventa dall’oggi al domani, ma tutto è sperimentalmente possibile. Penso non sia inutile ricordare quanto contenuto nel comma 10 dell’art. 21 della legge 59 del 15 marzo 1997 (la Bassanini Uno): “Le istituzioni scolastiche autonome hanno anche autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo nei limiti del proficuo esercizio dell’autonomia didattica e organizzativa.”

         E quindi ribadisco quello che ritengo un concetto chiave: si può ricercare, sperimentare, innovare e sviluppare tutto (didattiche, pedagogie, pratiche, verifiche, valutazioni, metodologie, contenuti, ecc.), ma non si “deve” fare nulla perché ci viene imposto dall’alto o dall’emergenza, ma solo perché ci viene imposto dalla necessità di fare il meglio possibile per migliorare l’apprendimento degli studenti. Sta in questo la libertà di insegnamento, nel collegarla alle necessità dello studente, allo sviluppo della professione, all’attenta analisi di quanto viene proposto dal mondo scientifico, culturale, pedagogico. Non ritengo che un’emergenza debba stravolgere il corso degli eventi: se la didattica integrata col web è un valore positivo lo è in tutte le giornate dell’anno, come in tutte le giornate dell’anno è utile e bello leggere un libro, consultare un manuale, scoprire o conoscere qualcosa. Certamente possiamo fare di più e di meglio e la mia speranza sarebbe di non vedere più docenti girare con obsoleti pacchi di fogli di carta da correggere (ma forse è una speranza un po’ vana), ma quella (in questo caso ben riposta e confermata nei fatti) di tanti docenti che sperimentano metodologie didattiche o modalità di valutazione alternative, mitigando così la passione per l’assegnazione di numeri alla ripetizione dell’identico (compiti e interrogazioni), Ma esternata questa speranza, in qualità di dirigente devo aiutare e favorire il processo di redazione curricolare, non farlo io con imposizioni o iniziative che minano la professionalità del lavoro dei docenti.

SALVATORE MODICA, TOMMASO MONACELLI “CHI SONO I RAGAZZI CHE NON SANNO LEGGERE E PERCHE’” (LA VOCE INFO 6/12/2019) Sono usciti in questi giorni i risultati dell’indagine Ocse-Pisa 2018, focalizzata in particolare sulle competenze dei quindicenni in “lettura” (misurata come capacità di analisi critica delle informazioni che ci circondano). I giornali hanno titolato più o meno “I ragazzi italiani non sanno più leggere” perché relativamente pochi raggiungono i due livelli più alti della scala 1-6 dei test. Se guardiamo ai livelli 4-6, le percentuali di ragazzi dei vari paesi che li raggiungono sono, per esempio, Usa 35 per cento, Germania 32,8, Giappone 32,1, Portogallo 28,3. Ma nei licei italiani siamo al 35,8 per cento, quindi almeno una parte dei nostri ragazzi sa leggere. Il problema è che nei licei c’è solo il 55 per cento degli iscritti totali e i risultati Pisa dell’altra metà fanno accapponare la pelle: negli istituti tecnici solo 12,7 per cento raggiunge i risultati migliori e nei professionali solo il 3,4 per cento. Non è facile trovare di peggio nelle tabelle: c’è la Georgia, col 2,6 per cento (Pil pro capite 3.500 euro l’anno). Questa zavorra fa scendere la media italiana al 22 per cento, che è molto bassa rispetto al 30-35 per cento dei nostri paesi concorrenti – su venti ragazzi noi abbiamo quattro potenziali innovatori, loro sette.

I risultati non devono sorprendere. In Italia ci sono ragazzini di tredici anni che all’uscita della scuola media si iscrivono al corso di “Tecnico dei servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera” opzione “Prodotti dolciari artigianali e industriali” e lì restano confinati per cinque anni. Di fatto a questi ragazzi il diritto allo studio è negato – e questo è un problema (c’è anche un problema Sud, di cui parleremo separatamente).

La scuola media fu creata nel 1923 con la riforma Gentile, che portò l’obbligo scolastico a 8 anni e per attuarlo allungò le elementari da 4 a 5 anni e creò il triennio a seguire. In realtà, il passo in avanti sostanziale fu solo l’anno in più di elementari perché alla scuola media c’erano due percorsi, uno col latino che permetteva l’accesso alle superiori e uno senza che portava in fabbrica o nei campi.

La “scuola media unificata e gratuita”, che rendeva effettivo il diritto allo studio di 8 anni per tutti, fu introdotta nel 1963 (ministro Luigi Gui, governo Dc-Psi). Poi, alla fine degli anni Novanta, Luigi Berlinguer portò l’obbligo formativo a 10 anni – ma, piccolo particolare, non modificò la struttura dell’offerta, che rimase quella del 5+3 pensata per l’obbligo di 8 anni. E nessuno lo fece mai più. A tutt’oggi, per assolvere l’obbligo di 10 anni, si dovrebbero frequentare i 2 anni iniziali delle scuole superiori – che ovviamente sono rivolti a chi è lì per completare il quinquennio.

Ma l’obbligo formativo, in una democrazia moderna, non può essere visto come un obbligo dello studente. Deve essere visto come l’obbligo della società di dare a tutti la possibilità di usufruire del diritto allo studio, che si assolve offrendo un adeguato programma formativo di base. Perciò, se crediamo che un tale programma debba durare 10 anni, questo programma – un ciclo 5+5 – è necessario crearlo, perché non esiste. È necessario crearlo perché per la metà dei nostri ragazzi l’istruzione “unificata e gratuita” si conclude a tredici anni, ed è troppo poco per loro e penalizzante per il sistema paese.

Oltre a trasformare il diritto allo studio da lettera morta a fatto concreto, una vera scuola dell’obbligo di dieci anni avrebbe a nostro avviso molteplici vantaggi. In primo luogo, il posticipo di due anni della scelta della scuola superiore ridurrebbe le asimmetrie informative che la caratterizzano: al termine di un percorso comune che definisce più organicamente cosa si “deve” sapere, la scelta di cosa si “vuole” imparare verrebbe attuata in modo più responsabile e informato.

In secondo luogo, un ciclo 5+5 aiuterebbe a ridurrebbe gli stereotipi di genere verso le materie scientifiche e matematiche. Perché nei licei classici il rapporto femmine-maschi (circa 70 a 30) è ribaltato rispetto ai licei scientifici (30 a 70)? Il problema nasce evidentemente alle scuole medie. Imporre la scelta della scuola superiore così presto tende a veicolare facilmente le ragazze al classico e i ragazzi allo scientifico. Spostarla più avanti aiuterebbe a non imporre precocemente come suo punto di riferimento (cioè come status quo) la segmentazione tra materie umanistiche e scientifiche, un male culturale profondo della scuola italiana. Una larga quota delle occupazioni del futuro richiederà competenze digitali (in senso lato). Incidere sugli stereotipi di genere in un paese in cui il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi dei paesi Ocse è una sfida cruciale per lo sviluppo e la cittadinanza.

In terzo luogo, i corsi di completamento dell’istruzione secondaria, di tre anziché cinque anni, potrebbero essere più focalizzati sugli obiettivi che intendono raggiungere. Vale per i licei, ma ancor più per la formazione tecnica e professionale. Questo settore fondamentale, in cui l’Italia è molto indietro, trarrebbe enorme giovamento dall’avere in ingresso ragazzi con una preparazione più solida. E una accresciuta competenza tecnica andrebbe a vantaggio ovviamente del sistema produttivo, ma anche dell’istruzione terziaria. Non dimentichiamo infatti che i ragazzi di “Prodotti dolciari artigianali e industriali” che non hanno di fatto un diritto allo studio degno di questo nome hanno “in compenso” il diritto di iscriversi all’università – un vero pasticcio.

E qui arriviamo al punto intorno al quale forse gira tutto: la valutazione e conseguente selezione degli studenti, che va (secondo noi) coraggiosamente riformata introducendo le classi per materia. In pratica: oggi uno studente passa dalla classe n alla classe n+1 in tutte le materie contemporaneamente (a meno di non essere bocciato); con le classi per materia si passerebbe da n a n+1 separatamente per materia. In tal modo si eviterebbe di mettere insieme alunni con livelli di preparazione troppo diversa. Le “bocciature” lungo il percorso sarebbero meno traumatiche (per esempio, se si è insufficiente nel secondo livello di italiano, lo si deve ripetere); e alla fine di un ciclo varrebbe l’ultimo voto ottenuto superiore alla sufficienza, di nuovo per materia. Per fare un esempio: se alla fine del percorso di istruzione secondaria sono previsti cinque livelli, uno studente può diplomarsi con 7/10 del quinto livello di scienze e 6/10 del terzo livello di inglese; e potrà essere ammesso ai corsi universitari o di altro tipo compatibili con quei livelli. L’essenziale è che le valutazioni siano “cieche” (come è per le prove Invalsi), perché sono le uniche eque e non manipolabili.

MATURITA’ 2020 di Maurizio Tiriticco (23/11/2019) Alla romana! Chepppalle co’ ‘sta maturità ballerina! Ariva ‘n’antro ministro e se cambia! Ma che ve cambiate! Ma lassate perde! Anche perché ‘st’esame de maturità nun c’è piùùù… e da ‘n sacco d’anni! Ma che ministri siete? Ma le leggete le leggi? Allora ve le ricordo io! Anche quella che tanti anni fa ha mannato a quel paese l’esame de maturità!!! Allora, andiamo con ordine! N 1) – La legge 5 aprile 1969 n.119 prevedeva che “l’esame di MATURITA’ ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato (art. 5)” e che “a conclusione dell’esame di maturità viene formulato, per ciascun candidato, un motivato giudizio, sulla base delle risultanze tratte dall’esito dell’esame, dal curriculum degli studi e da ogni altro elemento posto a disposizione della commissione”.

N. 2) – La legge 10 dicembre 1997 n. 425, all’articolo 6, dal titolo “Certificazioni”, così recita: “Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni al fine di dare trasparenza alle COMPETENZE, CONOSCENZE e CAPACITA’ acquisite, secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”. In effetti, nel giro di una trentina di anni, si è passati dal concetto di MATURITA’ a quello di COMPETENZA. Una vera e propria rivoluzione! Almeno sulla carta e nelle intenzioni dei governanti! Si è trattato di un passaggio non privo di significati – e di conseguenze – profondamente innovativi! Comunque, non saprei fino a che punto abbiano inciso! In altre parole, il discorso era – ed è tuttora – il seguente: A) – Secondo la “filosofia” del vecchio esame di maturità, un soggetto – nel nostro caso uno studente di 19 anni – può considerarsi “maturo”, anche se non possiede in modo compiuto conoscenze date. E questa era la “filosofia” del vecchio esame di maturità; B) Secondo la “filosofia” del nuovo esame conclusivo dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado, un soggetto – sempre il nostro diciannovenne – deve dimostrare di avere conseguito date CONOSCENZE, CAPACITA’/ABILITA’ e COMPETENZE. Le quali di fatto sono strumenti che, se concretamente posseduti, implicano la maturità di un soggetto. Nonché le sue attitudini ad operare date scelte. Ed è forse opportuno ricordare che ormai, anche a livello sovranazionale, “si parla” di competenze, che sono soprattutto utili e necessarie per l’esercizio della cosiddetta cittadinanza attiva! Si tratta delle otto competenze necessarie per l’apprendimento permanente, adottate dal Consiglio dell’Unione Europea il 22 maggio 2018. Eccole: 1. competenza alfabetica funzionale; 2. competenza multilinguistica; 3. competenza matematica e competenza in scienze, tecnologie e ingegneria;4. competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare; 5) competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare; 6. competenza in materia di cittadinanza;7. competenza imprenditoriale; 8. competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali.

Se questo è il contesto/scenario in cui un giovane OGGI affronta l’ultimo esame della sua carriera scolastica, discutere di storia sì o storia no, di buste e/o… bustarelle, non solo è inutile, ozioso, e improduttivo, ma dimostra l’incapacità operativa della nostra amministrazione scolastica. Il fatto è che un nostro concittadino qui ed oggi non può non possedere gli strumenti di base per orientarsi in un Paese e in mondo complessi! Anche perché si tratta di una complessitàche tende a crescere, anche per l’incremento di tecnologie sempre più avanzate e, per certi versi, anche meno fruibili e più pericolose! E ciò non riguarda solo il nostro Paese! Pertanto occorre chiedersi: quali sono le conoscenze minime e fondanti – nonché le competenze – di cui oggi un qualsiasi cittadino – e non solo italiano – deve disporre? A mio giudizio, essenzialmente tre: la padronanza linguistica, quella matematica e l’orientamento spazio/temporale. Ma, che cosa significa sapersi orientare nello SPAZIO e nel TEMPO, ovvero QUI ed ORA? Significa che è assolutamente doveroso conoscere e comprendere che cosa accade “qui ed ora” – e forse anche “un po’ prima” – nel nostro Paese, nella nostra Europa, nel nostro mondo, in questo faticoso e difficile inizio del Terzo Millennio. Anche e soprattutto per comprendere che cosa potrebbe succedere DOPO! Pertanto, è su questi terreni che la scuola oggi deve insistere e misurarsi. E sui quali i nostri diciannovenni devono essere “esaminati”! Insisto e concludo: sapere LEGGERE e SCRIVERE in modo corretto, compiuto e finalizzato, sapere DOVE e ORA si vive e si opera non sono soltanto i contenuti di QUATTRO MATERIE di studio – quindi di qualsiasi esame finale – ma le quattro conoscenze/abilità/competenze indispensabili per poterci misurare oggi in un mondo difficile che tutti dobbiamo cambiare! In meglio!

(14/11/2019) “Invalsi sì o no” di Maurizio Tiriticco (…) Per quanto mi riguarda, ho sempre segnalato il profondo scollamento che corre tra la “valutazione” degli alunni che si esercita da sempre e come sempre nelle nostre scuole, e la valutazione esercitata dall’Invalsi. I nostri insegnanti sanno tutto della loro personale “disciplina di insegnamento”, ma sanno poco di come si insegna – perché nessuno glielo ha insegnato – e non sanno nulla di come si valutano le prestazioni degli alunni, perché non sanno nulla di una disciplina che si chiama docimologia e che, invece, andrebbe studiata come si studia la matematica, il greco, l’inglese o qualunque altra disciplina. So che molti collegi docenti, chiamati all’inizio dell’anno, per norma (dpr 275/99, art. 4, c. 4), a decidere in materia di valutazione, si limitano a decidere di non assegnare mai un voto inferiore al 4 o al 3! E ciò è assolutamente extra legem. La norma prescrive una scala decimale che non può essere alterata! Mentre di fatto viene alterata non solo con la cancellazione di alcuni voti, ma anche con lo stesso uso che se ne fa! Come sappiamo, nella pratica scolastica abbondano i PIU’, i MENO; i MENO MENO (!!!), i mezzi voti, ecc. Tutti CENSURABILI! Perché la norma prevede solo VOTI INTERI, da uno a dieci! E, forse, sono anche troppi! In altri Paesi vigono scale valutative di cinque punti! Che manderebbero in tilt tutti i nostri insegnanti!!! Ribadisco: non esistono che VOTI INTERI! Un genitore che ricorresse contro un quattro e mezzo o contro un tre meno meno assegnati a suo figlio, avrebbe causa vinta. Ciò su cui i collegi dovrebbero decidere, in forza dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, sono le “modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale” (copio dal dpr 275/99, art. 4, c. 4). Quindi, non possono decidere di cassare voti a piacimento! Ma SOLO quali criteri adottare nell’uso che ne faranno. Una seconda questione riguarda le tipologie delle prove di verifica. La scelta adottata dall’Invalsi è quella di somministrare ai nostri alunni in un dato periodo dell’anno scolastico PROVE OGGETTIVE. Sono oggettive perché le risposte attese sono quelle e non altre. E non possono essere che oggettive, se si intende misurare e valutare correttamente ed oggettivamente, appunto, le risposte date. E compararle con altre! E per di più su scala nazionale. E’ una prova oggettiva chiedere ad un alunno di riferire sulle vicende della prima guerra punica o della seconda guerra mondiale. Le risposte sono “quelle e non altre”. Ma la prova è soggettiva se si chiede ad un alunno che cosa pensa della scelta di Napoleone a proposito della campagna di Russia o della scioà o della caduta del muro di Berlino. In effetti, si può riflettere – esprimere giudizi VALUTATIVI – opportunamente e con cognizione di causa solo su CIO’ CHE SI SONOSCE. Ma torniamo alle prove Invalsi. Tale istituto è stato creato con l’articolo 3 della legge 28 marzo 2003, n. 53, meglio nota come “legge Moratti”. Ed è stato istituito appunto perché attendesse – per la prima volta nella nostra scuola – alla “valutazione degli apprendimenti e della qualità del sistema educativo di istruzione e di formazione”. Un passo in avanti importantissimo per la nostra scuola. Perché non è importante solo insegnare, ma anche conoscere la sua ricaduta, quindi la qualità degli apprendimenti! Pertanto allora, all’Invalsi non abbiamo dato che un benvenuto! Finalmente gli insegnanti sarebbero stati aiutati nella loro difficile azione della valutazione! Però…questo atteso aiuto non si è verificato affatto! A mio vedere, l’’Invalsi avrebbe dovuto in primo luogo comunicare agli insegnanti quali criteri avrebbe utilizzato nelle sue operazioni! Nonché… insegnare agli insegnanti come si costruisce e come si valuta una prova! Ovviamente, se vogliamo restare nel campo delle prove oggettive! Ma voglio essere più preciso! Occorre conoscere quale differenza corre tra il MISURARE una prova e il VALUTARLA! Un esempio banale: voglio acquistare “quella camicia” che mi piace tantissimo – valutazione – ma non esiste la taglia che fa per me – misurazione. Ma oggi siamo andati oltre! Oggi siparla – e si pratica – di CERTIFICAZIONE delle competenze. Pertanto non occorre soltanto CONOSCERE correttamente, ma essere anche ABILI per saper utilizzare i dati e le informazioni apprese, ed infine anche COMPETENTI per saperle utilizzare con successo per affrontare e superare situazioni nuove. Un bambino è ABILE nel manovrare il volante di un’automobile da fermo, ma non è COMPETENTE se dovesse usarlo in un assetto completodi guida! Una competenza, infatti, richiede ed esige il concorso attivo, mirato e responsabile di operazioni pregresse: negli ambiti delle abilità e delle conoscenze. Da quanto scritto fin qui consegue che occorre: 1) ISTRUIRE l’ALUNNO in ordine a conoscenze mono- e pluri-disciplinari; e siamo nell’ambito della MISURAZIONE; 2) FORMARE la PERSONA in ordine a date abilità; e siamo nell’ambito della VALUTAZIONE; 3) infine EDUCARE il cittadino in ordine a date competenze (civiche e lavorative); e siamo nell’ambito della CERTIFICAZIONE. Pertanto, un insegnante che pensasse di limitarsi ad insegnare la sua materia e valutarne i relativi apprendimenti, sarebbe un insegnante della scuola che ho frequentata io! Nei lontanianni trenta del secolo scorso! Quale dovrebbe essere allora il compito primario dell’Invalsi? Non procedere anno dopo anno ad una vera e propria INVALSIONE delle nostre scuole, ma insegnare pazientemente ai nostri insegnanti – ed indirettamente ai loro alunni – come SI MISURA, come SI VALUTA, come si CERTIFICA!

(6/9/2019) Il mondo al contrario (di Stefano Stefanel) I ricchi con la carta. I poveri con lo smartphone”. “Bocciare i deboli per far migliorare i forti”. “Eliminiamo i progetti e torniamo allo studio serio”. Il delirante momento storico che stiamo vivendo visto dal versante della scuola potrebbe essere racchiuso nelle tre “orribili” frasi che ho sopra riportato e che possono riassumere, in forma comunque almeno per il momento parodistica, quello che si sente in giro, soprattutto quello che si legge sui giornali di carta stampata. La battaglia però è impari ed è stata “scatenata” da giornalisti, scrittori, psicologi, opinionisti, professori universitari, cioè personaggi noti e pubblici che parlano di scuola senza conoscerla e che – soprattutto – hanno un’idea della scuola che risale alla loro gioventù. Tutto questo sta avvelenando i pozzi perché porta il dibattito pubblico dentro il nulla delle prese di posizioni apodittiche ed assolute, che racchiudono la critica a quello che può essere etichettato come “il modernismo post sessantottino che ha distrutto la scuola”. La scuola non è ancora distrutta, ma è sulla buona strada e tutto questo insulso cicaleccio non documentato porta l’attenzione altrove, non sui problemi veri. Però allo spazio che le celebrità hanno corrisponde solo uno spazio di nicchia e per gli addetti ai lavori di chi prova a rispondere: nelle lotte impari di solito vince Golia. E qui siamo “di solito”. LIBRI E SMARTPHONE Chiunque viva nella scuola sa il peso che ancora ha la carta stampata: libri di testo, libri delle biblioteche, fotocopie, quaderni. Il passaggio al digitale è in troppi casi troppo lento e le poche competenze di molti docenti portano la questione solo sul piano disciplinare e punitivo. Credo però che – al di là del pensiero sul libro di carta e sullo smartphone – alcuni elementi dell’attuale società siano facilmente visibili. I figli dei ricchi, i figli delle famiglie benestanti o del ceto medio hanno un rapporto abbastanza ordinato sia con la carta, sia con lo smartphone. Vivono in contesti culturali buoni o accettabili che gli permettono la scelta quando questa deve essere fatta, che possono spaziare tra i libri e lo smartphone, che hanno tempi di attenzione adeguati o adeguabili. In questo momento storico i poveri e i figli dei poveri (soprattutto di quelli di spirito) e quasi tutti gli stranieri, hanno come unico riferimento culturale lo smartphone. La cultura popolare è “cultura del telefonino”, i ragazzi girano costantemente connessi e controllano tutto dentro lo smartphone. La scuola che si rifiuta di educare all’uso didattico e culturale di questo mezzo in virtù di un richiamo alla carta che ormai tutti usiamo in forma mista (un po’ di carta e un po’ di web) si rifiuta di occuparsi della cultura degli ultimi, di quelli cioè che hanno il riferimento solo nel web. Io invito chi vuol vietare l’uso dello smartphone in classe a entrare nella logica di chi ormai si affida solo allo smartphone e di verificare realmente se questo soggetto – soprattutto se giovane – è disponibile a spostarsi sul libro (uno solo, quello di testo) solo perché costretto. La battaglia è educare all’uso dello smartphone in senso formativo e culturale, far capire ai ragazzi la possibilità di essere connessi sempre ad una biblioteca universale, far comprendere gli spazi di cultura, come si trovano, come si leggono, come si usano. Invece vedo venire avanti ignobili crociate – tutte snob – per proibire, cercando di far credere che la scuola possa fermare il futuro semplicemente chiudendo gli occhi (e le connessioni). In questo modo di pensare c’è la violenza elitaria di chi comunque avrà sempre a disposizione le connessioni e deciderà di non usarle, incurante di chi ormai ha solo la connessione per collegarsi col resto del mondo e per sfiorare la cultura. Solo una reale pedagogia del BYOD (Bring You Our Device) allontanerà i poveri dall’abbruttimento del web.
Dirigendo da molti anni Istituti comprensivi vedo quotidianamente bambini connessi figli di persone giovani sempre connesse, sempre attive con foto e selfie, sempre attente a documentare tutto, soprattutto quello di cui non sanno cosa farsene. Proprio in queste famiglie e soprattutto se povere va inserita una pedagogia del BYOD attraverso i figli, così come si è introdotta la cultura della raccolta differenziata attraverso i bambini (grande vittoria della scuola che nessuno rivendica mai). L’incredibile snobismo di molti intellettuali gli fa scambiare il mondo per aule universitarie, per le biblioteche silenziose, per le librerie affollate e per i concerti di musica da camera. Ma c’è anche il mondo dei selfie e dei tatuaggi, di Istagram e di Facebook, di WhatsApp e della navigazione costante che deve trovare una nuova pedagogia se non vuole sprofondare nel baratro delle fake news diventate realtà (siamo purtroppo sulla buona strada). PROMOSSI E BOCCIATI L’altro atroce ritornello è quello che continua a battere sulle troppe promozioni. Il dato banale di partenza è quello che vede l’Italia molto in coda nella lotta alla dispersione scolastica e quindi un aumento delle bocciature la metterebbe ancora più in coda. La tesi criminale però non è questa: è quella che vede nelle bocciature una possibilità di migliorare il sistema. Nessuno spiega perché diventiamo migliori se bocciamo più studenti, ma nessuno spiega neppure perché gli studenti medi o bravi diventano migliori se bocciamo di più quelli più deboli. La spiegazione è molto banale: dato che ai più bravi non siamo in grado di dare nulla (paralizzati come siamo da una cultura del posto fisso cui si accede soprattutto per anzianità o per sanatoria) gli diamo lo “scalpo” (bocciatura) dei peggiori. E questo porta a far credere che un “9” vale di più se ci sono almeno dieci “4” per cui la battaglia non è quella di pretendere di più dai migliori, ma quella di pretendere di bocciare di più. Si dice “alzare” l’asticella: ma si dice sbagliato, perché siamo di fronte ad un “abbassare l’asticella”, quella della dispersione scolastica (così va in dispersione più gente possibile). Inoltre la scuola italiana non ha alcun piano per i suoi bocciati, se non la speranza che facciano meglio l’anno dopo. In questa incredibile discesa verso gli inferi nessuno ha prodotto un’analisi del percorso scolastico del milione di NEET (Neither in Employment nor in Education or Training: non studia e non lavora), cioè di quei ragazzi che non studiano e non lavorano e stanno per lo più seduti sul divano a chattare e a navigare su siti pieni di fake news. Se fosse possibile mettere pubblicamente in relazione la debolezza italiana nella lotta alla dispersione scolastica, la mancanza di un progetto di recupero reale per i bocciati, l’inesistenza di riconoscimenti reali a migliori, la debolezza dei percorso scolastici dei NEET forse il discorso pubblico uscirebbe dal nulla dei richiami degli intellettuali snob alla bocciatura di coloro che ormai vivono connessi agli smartphone senza sapere come usarli. PROGETTI E STUDIO SERIO Il sapere evoluto si evolve per progetti, i problemi si risolvono con i progetti, le soluzioni si sperimentano con i progetti, l’inclusione avviene per progetti (visto che la serialità ha prodotto esclusione), le personalizzazioni avvengono per progetti, la ricerca avviene per progetti. Dire “progetto” non vuole dire niente, se non si precisa progetto di cosa, ma anche in questo caso una parte intellettuale – sia interna sia esterna alla scuola – scambia la propria incapacità a lavorare per progetti nella battaglia ai “progettifici”. Questo lo si è visto molto bene nei PON, dove sia l’Autorità di gestione, sia il Miur, sia le Scuole non hanno saputo spiegare a docenti e studenti cosa si stava cercando di fare. Così si sta sviluppando l’idea che si fanno progetti se non si ha di meglio da fare e che i progetti tolgono tempo alla scuola seria. Senza progetto non c’è più cultura, c’è solo un affastellarsi di conoscenze, letture, metodologie, memorie, nostalgie. I progetti spingono allo studio serio e infatti gli studenti coinvolti nei progetti lavorano molto meglio che se coinvolti ad ascoltare lunghe lezioni frontali. Anche in questo caso noi abbiamo una parte della popolazione (quella ricca) che vive dentro progetti di vita (le scuole per il futuro, il lavoro come scelta, le vacanze come letture del mondo, le lingue come bagaglio necessario, ecc.) e un’altra parte che rimane sempre a casa ed è sempre connessa senza nessun progetto (in attesa forse di un reddito, non di una cittadinanza). La scuola non ha più bisogno di riforme, ma ha bisogno di progetti: solo con quello potrà analizzare bisogni e problemi e potrà dare risposte. Altrimenti si va avanti per sentito dire, lamentandosi che non c’è più l’ascensore sociale: per forza, è sempre occupato dagli intellettuali che ce l’hanno fatta (e dai ricchi che comunque hanno i soldi per costruirselo).

(agosto 2019) GALLI DELLA LOGGIA insiste sui mali della scuola:”Destra e Sinistra insieme, d’accordo nel riempirla di scartoffie e di burocrazia, di lavagne digitali, di famiglie saccenti, di democraticismi demagogici, di «successo formativo» obbligatorio, di circolari insulse in anglo-italiano. Per tenere lontano i «Barbari» forse sarebbe bastato a suo tempo lasciare nei programmi la storia e la geografia invece di ridurre entrambe ai minimi termini o di cancellarle del tutto. Forse sarebbe bastato insistere con qualche riassunto, con qualche mezzo canto della Divina Commedia mandato a memoria, con qualche ora di matematica in più e qualche gita scolastica a Barcellona in meno. E sarebbe bastato anche che qualcuno dei tanti intellettuali che oggi soltanto scoprono il disastro accaduto avessero impiegato un po’ di tempo a occuparsi della scuola del proprio Paese anche cinque o dieci anni fa, spingendosi magari, dio non voglia, fino a fare le bucce a qualche ministro dell’istruzione Pd. Peccato che agli Ottimati, ai Buoni per definizione, quel campo di battaglia però allora non interessasse, non si accorgessero di quanto lì stava accadendo.” Per della Loggia l’importante è dunque “cosa” si insegna a scuola. Per me le cause dei mali sono invece il “quanto” e il “come”. Innanzitutto il “tempo effettivo” di scuola, essendosi nel frattempo dimezzati i 200 giorni annui obbligatori di lezione. Il “tempo-scuola” annuale (cioè il tempo di ascolto delle lezioni in classe) di fatto è molto diminuito nei decenni. Essendo il prodotto finale della scuola la produzione di  “voti” (e non di competenze) , il tempo effettivo diminuisce negli anni progressivamente per l’interesse convergente di alunni e docenti.  Non c’è (così come avviene per l’evasione fiscale ) il “conflitto di interessi”. Un fenomeno analogo sta avvenendo da anni con i medici di famiglia, i quali, per far fronte ai sempre più numerosi ed invadenti pazienti, hanno cominciato a produrre cure basate su ricette cartacee ed elettroniche affidate a segretarie in mega-studi associati, diminuendo il tempo di “ascolto” ed “esame” del cliente. La differenza più importante tra uno studente della scuola di ieri e uno studente di quella di oggi è, secondo me, il tempo di ascolto concentrato di una lezione. Il rapporto è, per dire, dieci a uno. La didattica “breve” di oggi non consente di ottenere apprendimenti solidi e duraturi. Infatti gli istituti che promettono il recupero degli anni perduti (le bocciature), se ci fate caso, una sola cosa promettono: pagami e ti farò recuperare tempo. Tanto, quel che conta è un pezzo di carta.

D. CHECCHI, M. DE PAOLA: RIPARTIRE DAGLI INSEGNANTI (lavoce.info) Una parte importante della spiegazione potrebbe risiedere nel basso livello di coinvolgimento e motivazione degli insegnanti. Ma perché i docenti che lavorano nelle scuole del Sud fanno peggio dei loro colleghi (molti dei quali sono meridionali) che operano nelle scuole di altre regioni italiane? L’erraticità delle modalità di reclutamento degli insegnanti utilizzate nell’ultimo decennio (si pensi alla sanatoria che ha immesso in ruolo i diplomati magistrali) non ha certamente contribuito alla selezione dei candidati migliori in termini di competenze o maggiormente vocati alla trasmissione della conoscenza. Al Sud a ciò si aggiunge un contesto sociale poco attento al valore dell’istruzione. Indubbiamente esiste una parte di insegnanti efficaci, competenti e motivati. Il problema (di natura squisitamente politica) è come indurre questa parte a rivelarsi e come trasferire a essa potere decisionale sull’organizzazione della scuola. Attualmente molti docenti (anche tra quelli meno competenti) sono impegnati a proporre e poi a realizzare progetti di utilità molto incerta. Perché invece non concentrare le energie su quello che certamente serve (rafforzare le competenze di base) e offrire la possibilità a gruppi di insegnanti (per esempio quelli di una sezione) di candidarsi a proporre pratiche didattiche che siano efficaci nell’accrescere le competenze degli studenti e di procedere poi con sistemi rigorosi a accertarne l’efficacia? Si potrebbero individuare così docenti di comprovata efficacia ai quali andrebbe riconosciuto formalmente un ruolo di preminenza (eventualmente associato a un bonus retributivo più adeguato della attuale “valorizzazione del merito”), coinvolgendoli anche nella formazione dei propri colleghi e aprendo per loro una corsia preferenziale per la posizione dirigenziale nelle scuole. Tutto questo è impossibile da realizzare con l’attuale legislazione sul pubblico impiego e nel contesto delle relazioni sindacali di oggi. Ma l’emergenza evidenziata dai dati sugli esiti scolastici richiede l’adozione di strumenti emergenziali di contrasto, che facciano leva su risorse esistenti, rigorosamente selezionate. Temiamo invece i progetti speciali a pioggia – “(…) un progetto di intervento coordinato dal Miur (…) finalizzato al miglioramento dei risultati” ha promesso il ministro – per la loro limitata capacità di discriminazione e di valorizzazione delle buone pratiche non risulteranno minimamente incisivi nel ridurre i divari.

PIU’ TEMPO A SCUOLA PER LA CONVIVENZA CIVILE Corriere della sera 3/8/2019 , di  ATTILIO OLIVA, Fondazione Agnelli. Prima di tutto un dato significativo: da una indagine di TreeLLLe, è emerso che nei Paesi avanzati d’Europa l’attività scolastica si protrae sempre nel pomeriggio (almeno fino alle 15 e spesso alle 17). In Italia invece, la scuola, in generale, chiude alle 13 e poi… tutti a casa, studenti e insegnanti. Questo avviene in un Paese in cui, secondo l’indagine Ocse-Piaac, il livello di «analfabetismo funzionale» (cioè l’incapacità di tradurre in azioni efficaci quello che si è appreso) riguarda ben il 30% della popolazione adulta, mentre in Ue riguarda solo il 15%. Purtroppo sono di questi giorni gli sconcertanti dati Invalsi (istituzione indispensabile per rilevare gli apprendimenti in maniera oggettiva e confrontabile) che ci dicono che lo stesso 30% di analfabetismo funzionale vale purtroppo anche per la nostra popolazione in età scolastica. Sconcertano anche i dati di una indagine TreeLLLe-Makno (2016) sui giovani tra 19 e 23 anni, da cui risulta che tre su quattro dichiarano che «mai o quasi mai» i loro insegnanti hanno trattato temi di educazione civica (e che non hanno mai letto la Costituzione italiana). Ma, attenzione: oggi a 18 anni si vota. Emerge un grave ritardo socio culturale del nostro Paese rispetto ai Paesi avanzati, che ne ipoteca sia il progresso civile che economico. È realistico pensare che la scuola, così come è oggi, possa riuscire a recuperare questo grave ritardo storico? La risposta è no, se non si vuole continuare ad illudersi come si è fatto per decenni. Se, come si è visto sopra, la grande malata è la società civile, la scuola può sperare di avere successo come fattore correttivo solo se da un lato dispone di molto più tempo e dall’altro di un corpo di insegnanti diversamente formati. Di questo secondo punto, su questo quotidiano, abbiamo scritto qualche settimana fa. Oggi vogliamo insistere sul fattore tempo. Pare a noi che occorra affidare i bambini alla scuola il più precocemente possibile, nell’età in cui si forma il linguaggio e si strutturano i comportamenti sociali, almeno fin dai tre anni (scuola d’infanzia) così da ridurre al minimo i condizionamenti socio-culturali negativi (che poi sarà difficile recuperare) di tanta parte della nostra popolazione adulta che vive tuttora in situazioni culturalmente deprivate. Ma pensiamo anche che la scuola debba avere a disposizione un «tempo lungo» di durata quotidiana, necessario soprattutto per i più deboli ed emarginati (ma anche per curare le eccellenze). E poi, un altro problema di fondo: una scuola che è diventata «per tutti» non può più limitarsi a «istruire», ma deve fare proprio anche l’obiettivo di «educare a vivere con gli altri», nel rispetto reciproco e all’interno di un insieme di regole condivise. Invece gli studenti oggi si formano anche e molto fuori dalla scuola: di qui l’importanza di una scuola che si faccia carico di dare ragione, senza rinunciare allo spirito critico, dei valori di base della nostra civiltà. Come tutte le «educazioni», anche questa richiede tempi lunghi. TreeLLLe ha formulato una proposta forte (nel sito www.treellle.org vedi la pubblicazione «Il coraggio di ripensare la scuola»): una scuola con un ingresso precoce, cioè una scuola obbligatoria dai 3 ai 14 anni a curricolo unico, con un «tempo lungo» per tutti (5+mensa+3 ore). Per la scuola secondaria superiore (dai 14 ai 19 anni) TreeLLLe propone che le scuole offrano un tempo lungo «opzionale», ma attrattivo grazie all’offerta di un palinsesto di «attività» a largo spettro tra cui i giovani possano scegliere sulla base dei loro bisogni e interessi (arti, musica, sport, alternanza scuola-lavoro, volontariato sociale e ovviamente, dove necessarie, attività di sostegno allo studio). In sostanza, una scuola diversa, dove si alternino lezioni ad «attività» formative per sviluppare anche la dimensione personale e quella civica e sociale degli alunni. Di massima, le ore pomeridiane non dovrebbero essere dedicate a lezioni, ma ad attività che sviluppino l’intelligenza emotiva e puntino a far emergere i vantaggi della collaborazione e della solidarietà, senza lasciare spazio al bullismo e ai comportamenti asociali. Nelle secondarie, sarà necessario dare più spazio alle scelte individuali, così da invogliare i giovani a passare a scuola più tempo, sottraendoli alle sirene di un tempo vuoto (o peggio) che li potrebbe attendere fuori dalla scuola. Altre buone ragioni per il «tempo lungo»: offrire un importante servizio sociale alle famiglie; rendere possibile l’esercizio dell’autonomia delle scuole che potrebbero finalmente progettare un’offerta su misura della utenza, fuori dalla rigidità delle ore curricolari antimeridiane. Una scuola a tempo lungo, pensata per educare oltre che per istruire, potrebbe essere un buon antidoto ai rischi di familismo amorale, alla scarsità di spirito comunitario e di senso dello Stato che perdura in tante fasce sociali e in tante aree del nostro Paese (specie nel Sud). Come si vede il tempo-scuola può contare molto, ma è la qualità professionale degli educatori che conta anche di più: i bravi insegnanti saranno anche bravi maestri di vita se riusciranno a fare sì che i giovani lascino la scuola avendo interiorizzato tre fondamentali linee guida per stare al mondo in modo utile e gentile: il rispetto per gli altri, lo spirito collaborativo e la curiosità per continuare ad apprendere.

RISULTATI INVALSI. FAR FINTA DI NIENTE E’ UNA CONDANNA PER IL SUD di SALVATORE MODICA (lavoce.info) In Italia non siamo mai stati in grado di esprimere un governo centrale che abbia la lungimiranza necessaria per affrontare il problema delle competenze cognitive al Sud, con effetti pesanti sulle possibilità di competere come paese alla frontiera tecnologica. Chi altro potrebbe muoversi per farlo? Le regioni più avanzate, a questo punto, vogliono (comprensibilmente) andare per la loro strada. Al Sud, dei governi locali non ne parliamo. Gli insegnanti non sembra proprio che se ne occupino: a ogni livello scolastico si passa la palla al successivo. E le famiglie sono il primo problema: perché al Sud la variabilità fra scuole e classi è tre volte più alta che al Nord? Mi dispiace suonare così pessimista, ma vivo a Palermo da più di 60 anni. Al Sud non funziona la scuola dell’obbligo, ma serve ripeterlo? Dell’Invalsi fra una settimana non si sentirà più parlare, come ogni anno. Il nostro obbligo scolastico è di dieci anni, ma gli ultimi due, che dovrebbero costituire il completamento di un programma, sono invece i primi due passi della strada che conduce al diploma. Non ha alcun senso, ma chi vuole parlare di riforme della struttura (produttiva del servizio)? Di un 5+5 alla fine del quale soltanto in base a risultati valutati centralmente (come quelli dell’Invalsi) si possa essere ammessi ai due o tre anni di un diploma (possibilmente più flessibile di quello attuale), che a sua volta, con la stessa procedura, conduca agli studi universitari? Non saprei. Sembra che a tutti vada bene così. Ovviamente alla fine chi resta fregato sono i ragazzi, ma cosa potrebbero fare? Quando aprono gli occhi sono già così indietro che non gli resta che spingere per tener bassi i livelli dei corsi, che altrimenti non riuscirebbero a seguire. E più della metà arriva al diploma con competenze da scuola media. Bocciati? Nemmeno per sogno: “Non è colpa loro” (il che è vero). Tutti promossi, e chi può va all’università – pagando un quinto di quello che costa. Ma dobbiamo avere più laureati, quindi va bene così. Nel mio corso di laurea, in economia aziendale, fra due mesi si presenteranno 400 studenti, un successone. Faranno matematica e poi passeranno a economia politica con me. Cosa sanno? Qualche anno fa, in un appello poco frequentato, ho inserito nel compito un “quesito con la Susi” (dalla Settimana enigmistica, un problema che si risolve con un’equazione di primo grado); tutto documentato su lavoce.info. Hanno risposto in due su trenta. Ventotto bocciati? Non scherziamo. Se vanno fuori corso, il governo non paga, quindi “per cortesia non creiamo problemi”. Ma a tutto c’è un limite. Ricomincerò a fare esami veri promuovendo chi merita, perché questo è il mio dovere. La verità è che l’entità dei fondi pubblici destinati alle università al Sud (specialmente a dottorati e lauree specialistiche) non è giustificata dai risultati che producono in termini di occupazione e differenziali di reddito. Sarebbe bene trasferirli in gran parte alla scuola dell’obbligo (per italiano, inglese e matematica), dove servono molto più capitale umano e incentivi sostanziosi agli insegnanti e alle famiglie che sostengono i loro figli nello sforzo che un apprendimento serio comporta.

A.GAVOSTO e B.ROMANO “QUESTO INVALSI 2019 E’ LA DIAGNOSI DI UN MALATO GRAVE “ (la voce.info) La novità più rilevante è rappresentata dalle prove a computer (computer-based) nella secondaria di I e II grado, con correzione automatica. Il cheating si riduce perché le prove sono diverse per ogni studente, pur restando di difficoltà equivalente: non è facile per i docenti aiutare nelle risposte o manipolarle in fase di trasmissione, è impossibile copiare. Inoltre, così si possono “ancorare” alcune domande tra una rilevazione e l’altra per confrontare direttamente i risultati e vedere se, per quel grado, gli studenti siano migliorati o meno. In passato solo il campione sorvegliato (il 10 per cento del totale) era credibile – e infatti su quello si basano i rapporti e le presentazioni dei dati Invalsi, ora con le prove al computer risultati censuari e campionari dovrebbero convergere. Con le prove di quinta superiore si è raggiunta la copertura completa del corso di studi e la copertura curriculare è stata estesa all’inglese. I tassi di partecipazione sono stati molto elevati: dal 99 per cento nella primaria al 95 per cento in quinta superiore, dove la media è abbassata dagli istituti professionali. Per medie e superiori, infine, i risultati sono espressi non più solo con punteggi, ma per livelli descrittivi delle prestazioni cognitive: per l’italiano e la matematica sono stati definiti con una metodologia simile a Ocse-Pisa, per l’inglese grazie al quadro comune europeo di riferimento (Qcer). Ma il paziente è moribondo   I risultati delle prove confermano criticità e iniquità, in parte conosciute fin dalle prime rilevazioni del 2005-2006, con alcuni inediti. Le opportunità educative sono molto diverse a seconda dell’area del paese, della scuola e della classe che si frequentano, del genere e della famiglia di provenienza. In media, i divari tra Nord e Sud sono lievi all’inizio della primaria. Nel Meridione, però, già dalla seconda primaria si registra una variabilità elevata dei punteggi a livello di scuole e soprattutto di classi: sintomo di forti differenze, legate a docenti e dirigenti, che possono condannare gli studenti nelle classi peggiori a ritardi scolastici permanenti. Dalla scuola media le differenze territoriali si accentuano: gli allievi di Campania, Calabria, Sardegna e Sicilia hanno apprendimenti in italiano, matematica e inglese nettamente inferiori (di circa 40 punti a fronte di una media di 200) al resto del paese. Purtroppo lo sapevamo già, mentre forse si sa meno che anche il resto dell’Italia non sta affatto bene. In tutte le cinque macro-aree, almeno uno studente su tre è al di sotto del livello minimo di raggiungimento dei traguardi posti dalle Indicazioni nazionali per il curricolo (il testo di riferimento che ha sostituito i “programmi ministeriali”) in italiano e matematica. Con prevedibili forti eterogeneità: nel Mezzogiorno si sale al 40 per cento per l’italiano e oltre il 50 per cento per la matematica.

La scuola media rimane dunque l’anello debole, perché questi tre anni concludono il ciclo primario di base comune a tutti gli studenti, per tutti strutturato allo stesso modo e che a tutti dovrebbe garantire il raggiungimento di competenze minime che consentano di affrontare “in autonomia le situazioni di vita tipiche della propria età”. Invece, proprio qui si spezza irrimediabilmente l’equilibrio. E alle superiori recuperare diventa impossibile. Il divario tende ad allargarsi al crescere del livello scolastico, fino a esplodere in quinta superiore, com’è naturale in un processo cumulativo come l’istruzione. Perché quest’anno l’allarme ha tanta eco? Forse, perché non ci sono più alibi: tutto l’arco di studi è coperto, la partecipazione è molto elevata, il cheating è stato di fatto annullato. Peraltro, a parte i tecnicismi, come non allarmarsi se una quota rilevante di allievi in terza media ha competenze da quinta elementare?

SERVONO INSEGNANTI NON FACILITATORI (CARLO SINI LA LETTURA CORSERA 26/5/2019) (…) Per dire in fretta, è per esempio l’imporsi della logica del «facilitatore»: bestemmia pedagogica che offende lo spirito degli alunni e che priva i cittadini del diritto all’accesso all’alta cultura. È la logica del professore giovanilista e amicone che chiama in classe il cantautore, come se i ragazzi non fossero già sin troppo abili a procurarseli da sé, per la gioia degli interessi milionari delle case discografiche. Naturalmente le cose sono terribilmente complesse. Anche il cantautore può occasionalmente svolgere una preziosa funzione culturale: dipende dal modo. E poi c’è classe e classe, c’è professore e professore. Però non possiamo e non dobbiamo dimenticare che una porzione crescente e impressionante di studenti non sono più in grado di leggere e di comprendere testi di media difficoltà; non sanno scrivere correttamente e non sanno parlare decentemente, nei licei e ormai anche nelle università: negare questi fatti è impossibile. Ignorare che essi costituiscano anche un dramma per la vita democratica, ormai preda delle espressioni più volgari, ingannevoli e vuote di pensiero, è, politicamente, un delitto. Come porvi rimedio è la domanda di molti; di nessuno, credo, è la pretesa di possedere la soluzione.

EDUCARE SENZA SANZIONI DI LUCA RICOLFI
Chiunque abbia bambini che vanno alle scuole elementari sa perfettamente che, ormai da diversi decenni, non solo è praticamente impossibile bocciare un bambino, ma è anche rarissimo osservare sanzioni classiche, come l’ammonizione, la nota sul registro, la sospensione. Al loro posto è invece dato osservare una serie di comportamenti sostanzialmente omissivi o elusivi: far finta di niente, limitarsi a redarguire più o meno blandamente, cercare di spiegare perché un comportamento è sbagliato e non dovrebbe essere ripetuto. I risultati sono scarsissimi, per non dire negativi, visto che il bullismo, sia quello tradizionale sia quello via internet, sono in aumento e coinvolgono spesso bambini, più sovente bande di bambini, che frequentano le ultime classi delle scuole elementari. Ora non più. Ora si cambia. Ora quel che un maestro o una maestra potevano fare, ma nel 99.9% dei casi non facevano, ossia infliggere qualche piccola sanzione (ad esempio la nota sul registro, con convocazione della famiglia), sarà semplicemente vietato. Così ha deciso ieri la Camera, approvando un emendamento (a un disegno di legge sull’educazione civica nelle scuole elementari) che di fatto toglie a presidi e insegnanti non solo la possibilità di comminare le pene più severe (come l’espulsione dalla scuola), ma persino l’uso di strumenti sanzionatori davvero minimali, come l’ammonizione o la nota sul registro. Al loro posto si propone di estendere alla scuola elementare il farraginosissimo istituto del “Patto di corresponsabilità educativa”, che rafforza e incentiva uno dei più dannosi fenomeni culturali del nostro tempo, ovvero l’ingerenza dei genitori nel funzionamento della scuola, oltre a promuovere una sorta di Far West dei regolamenti, per cui ogni scuola si costruisce il suo patto, con tanti saluti a una delle idee più semplici della vita sociale, ossia che sia più efficace avere poche norme chiare e valide per tutti, piuttosto che lasciare a ogni comunità di darsi regole proprie (chi non avesse bambini a scuola, o non avesse idea di quanto avanti siano andate le cose rispetto a 20 o 30 anni fa, può leggere la pacata quanto agghiacciante  testimonianza dello scrittore Matteo Bussola: Sono puri i loro sogni, Einaudi Stile Libero 2017).La vicenda è politicamente interessante. Perché, a quanto si apprende, la soppressione del regio decreto del 1928 che prevedeva la possibilità di irrogare sanzioni agli alunni delle scuole elementari, è stata voluta da tutte le forze politiche. Una chiara testimonianza di quanto certe idee, che eravamo abituati ad attribuire alla mentalità progressista, siano ormai penetrate nello spirito pubblico, coinvolgendo anche quanti un tempo le combattevano.Ma quali idee? Fondamentalmente tre convinzioni. La prima è che, nel processo educativo, le sanzioni non debbano e non possano svolgere alcun ruolo. Chi sbaglia deve essere convinto a cambiare comportamento con la sola forza della persuasione. L’uso di punizioni, anche di lieve entità, non solo sarebbe controproducente, ma sarebbe la testimonianza del fallimento del processo educativo. La seconda è che, a dispetto della loro conclamata incapacità (o non volontà) di educare i figli, l’ultima parola spetti ai genitori, unici giudici dei loro pargoli, unici arbitri e custodi del destino delle loro creature. Di qui la tendenza a porsi verso ogni autorità, ma prima di tutto verso l’autorità scolastica, come sindacalisti dei propri figli. Ma la più pericolosa è la terza convinzione, che forse più che una convinzione vera e propria è una sorta di strabismo, di partito preso, o di riflesso pavloviano. Quando qualcuno viola le regole, il che quasi sempre comporta la sofferenza di qualcun altro (si pensi alla diffusione del bullismo, già alle elementari), stranamente la pietas, la compassione, quasi automaticamente si indirizzano verso i prepotenti, che andrebbero capiti, perdonati e rieducati, e ignorano le ragioni delle vittime. Curiosamente, chi fa proprio l’imperativo del perdono, non sente altrettanto forte il dovere di impedire che altre violenze e sopraffazioni si scatenino contro nuove vittime. Eppure è proprio questo il nodo della questione. C’è un’incredibile ingenuità pedagogica e sociologica nella credenza che, per la prevenzione di fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo nelle scuole, possano bastare corsi, lezioni, momenti di sensibilizzazione, ammonimenti, prediche, e che ogni punizione sia inutile o addirittura controproducente. Come se la consapevolezza di non rischiare alcuna vera sanzione non fosse un potente incentivo a perseverare nei comportamenti più aggressivi, violenti e anti-sociali. Come se, soprattutto, la rinuncia delle istituzioni a sanzionare i comportamenti più scorretti, più che una forma di umana comprensione per chi sbaglia, non fosse invece quello che è: una forma di disumana indifferenza verso le vittime.(Articolo pubblicato su Il Messaggero del 6 maggio 2019)

Addio al direttore Santo Sesto. Ci ha lasciati a 90 anni dopo una vita passata a scuola e a tramandare il nostro vernacolo. A me, che faccio ridere quando uso il dialetto, portava i suoi libri, con gentilezza, acume, arguzia. Mi ha fatto venir voglia di leggerli, di studiarli, erano così fatti bene che il duro lavoro di ricerca si evidenziava ad ogni pagina. Nacque così la nostra conoscenza e un affetto che oggi, per la scomparsa del direttore, diventa freddo vuoto. Che grande persona che è stato

ANDREA GAVOSTO- LA NUOVA MATURITA‘ (Il Sole 24 ore 22/3/2019) Nelle scuole superiori c’è agitazione. La nuova maturità farà il suo esordio il prossimo giugno e molti sono i timori, non solo fra gli studenti. Rispetto all’anno scorso, i cambiamenti sono numerosi e il tempo per digerire le novità è stato poco. Prima della conclusiva prova orale, da quest’anno gli scritti saranno soltanto due, invece di tre, con il poco amato “quizzone” che va in pensione. Il secondo scritto, però, potrà essere multidisciplinare (ad esempio, matematica e fisica allo scientifico): idea interessante, la cui validità sulla carta dovrà però essere verificata nella pratica, sperando nell’intelligenza di chi redigerà le prove. Condivisibile anche il maggior peso dato al percorso scolastico nel giudizio finale.La novità più apprezzabile riguarda, però, la prima prova – quella di italiano – che dovrebbe cambiare secondo le linee della commissione guidata dal linguista Luca Serianni: forse è la volta buona per archiviare (già si era cominciato timidamente a farlo) il tema, sovente ancora esercizio di retorica fine a se stesso, puntando su nuove prove fondate sul principio che leggere, scrivere, sapere ragionare e argomentare – elementi essenziali di qualsiasi processo conoscitivo – vanno sempre insieme. Nella nuova maturità non mancano anche scelte censurabili, prime fra tutte la cancellazione della prova Invalsi e delle ore di alternanza scuola-lavoro come requisiti di accesso all’esame: qui il Miur ha scelto di compiacere la parte dei docenti più ostile all’innovazione. Si può comunque concludere che nella nuova maturità le luci superano le ombre? Non è così: anche le novità più convincenti sono ben lontane da riscattare un esame che – così com’è concepito – da tempo non ha più senso. Il suo vero e irrisolto problema è la discrezionalità di giudizio di ciascuna commissione, che permane anche dopo quest’ultima riforma e non potrà essere significativamente attenuata dalle nuove griglie nazionali di valutazione, peraltro a quanto pare previste solo per le prove scritte. Discrezionalità che fa vedere i suoi effetti distorsivi più clamorosi sui risultati nelle diverse aree del Paese: nel 2018 la Puglia ha avuto un numero di 100 e lode superiore a quello di Piemonte, Lombardia e Veneto messi insieme. Ma le differenze si osservano anche nel singolo istituto, quando al lavoro vi sono più commissioni. Proprio perché non si fidano più dell’esame di Stato, che non dà loro esiti affidabili per comprendere e confrontare profili e competenze dei diplomati, le università hanno da tempo introdotto i propri test per selezionare gli studenti in ingresso. A loro volta, i datori di lavoro ormai quasi non tengono più conto del voto di maturità nella decisione di assunzione. C’è un’alternativa all’abolizione di un esame oggi sostanzialmente inutile e che anche come rito di passaggio ha perso fra i ragazzi di oggi molto dell’antico pathos che ha avuto per genitori e nonni? I suggerimenti che provengono dal resto d’Europa sono di due tipi: il primo riguarda le prove standardizzate – quindi immediatamente confrontabili su tutto il territorio nazionale – nelle materie di base, come italiano, matematica, inglese; non tutte le materie, però, si prestano (si pensi a quelle artistiche). La seconda possibilità è quella di esami le cui prove siano sottoposte a una correzione unificata a livello centrale, che garantisca omogeneità di criteri di giudizio: un esempio è in questo caso l’Olanda. Le verifiche possono avvenire ad opera di una commissione nazionale oppure scambiando le prove per la correzione fra diverse aree territoriali, come avviene per l’esame di Stato degli avvocati: il digitale renderebbe peraltro questa soluzione oggi meno costosa dello spostamento in massa dei commissari della maturità.

Un esame finale condotto secondo criteri di valutazione omogenei sarebbe una soluzione promettente per dare nuova linfa alla maturità, che a quel punto, con gli opportuni arricchimenti, potrebbe essere utilizzata dagli atenei come test d’ingresso e dai datori di lavoro come criterio di selezione dei giovani diplomati. a novità più apprezzabile riguarda, però, la prima prova – quella di italiano – che dovrebbe cambiare secondo le linee della commissione guidata dal linguista Luca Serianni: forse è la volta buona per archiviare (già si era cominciato timidamente a farlo) il tema, sovente ancora esercizio di retorica fine a se stesso, puntando su nuove prove fondate sul principio che leggere, scrivere, sapere ragionare e argomentare – elementi essenziali di qualsiasi processo conoscitivo – vanno sempre insieme. Nella nuova maturità non mancano anche scelte censurabili, prime fra tutte la cancellazione della prova Invalsi e delle ore di alternanza scuola-lavoro come requisiti di accesso all’esame: qui il Miur ha scelto di compiacere la parte dei docenti più ostile all’innovazione. Si può comunque concludere che nella nuova maturità le luci superano le ombre? Non è così: anche le novità più convincenti sono ben lontane da riscattare un esame che – così com’è concepito – da tempo non ha più senso.

Il suo vero e irrisolto problema è la discrezionalità di giudizio di ciascuna commissione, che permane anche dopo quest’ultima riforma e non potrà essere significativamente attenuata dalle nuove griglie nazionali di valutazione, peraltro a quanto pare previste solo per le prove scritte. Discrezionalità che fa vedere i suoi effetti distorsivi più clamorosi sui risultati nelle diverse aree del Paese: nel 2018 la Puglia ha avuto un numero di 100 e lode superiore a quello di Piemonte, Lombardia e Veneto messi insieme. Ma le differenze si osservano anche nel singolo istituto, quando al lavoro vi sono più commissioni. Proprio perché non si fidano più dell’esame di Stato, che non dà loro esiti affidabili per comprendere e confrontare profili e competenze dei diplomati, le università hanno da tempo introdotto i propri test per selezionare gli studenti in ingresso. A loro volta, i datori di lavoro ormai quasi non tengono più conto del voto di maturità nella decisione di assunzione. C’è un’alternativa all’abolizione di un esame oggi sostanzialmente inutile e che anche come rito di passaggio ha perso fra i ragazzi di oggi molto dell’antico pathos che ha avuto per genitori e nonni? I suggerimenti che provengono dal resto d’Europa sono di due tipi: il primo riguarda le prove standardizzate – quindi immediatamente confrontabili su tutto il territorio nazionale – nelle materie di base, come italiano, matematica, inglese; non tutte le materie, però, si prestano (si pensi a quelle artistiche). La seconda possibilità è quella di esami le cui prove siano sottoposte a una correzione unificata a livello centrale, che garantisca omogeneità di criteri di giudizio: un esempio è in questo caso l’Olanda. Le verifiche possono avvenire ad opera di una commissione nazionale oppure scambiando le prove per la correzione fra diverse aree territoriali, come avviene per l’esame di Stato degli avvocati: il digitale renderebbe peraltro questa soluzione oggi meno costosa dello spostamento in massa dei commissari della maturità. Un esame finale condotto secondo criteri di valutazione omogenei sarebbe una soluzione promettente per dare nuova linfa alla maturità, che a quel punto, con gli opportuni arricchimenti, potrebbe essere utilizzata dagli atenei come test d’ingresso e dai datori di lavoro come criterio di selezione dei giovani diplomati.

Riunioni collegiali a scuola. La questione per il ds è molto semplice. Se il CD gli approva il Piano delle Attività, lui non deve più fare conti di ore. I docenti è bene che controllino prima che le ore complessive annuali dedicate ai collegi docenti non superino le 40, così come quelle per i consigli di classe. Gli scrutini non si calcolano. Il Consiglio di istituto, presieduto da un genitore, dove ci sono tutte le componenti della scuola, invece stabilisce quante volte e come si svolgeranno gli incontri scuola-famiglia. Ammettiamo che il CdI stabilisca che si devono svolgere 4, 8, 10, 80 incontri all’anno. Le ore per questi incontri si tolgono dalle 40 ore previste per le riunioni del CD già approvate dal CD? Da qualche anno gli azzeccagarbugli, che in Italia non mancano sin dai tempi della peste, stanno tentando di ottenere questo. Solo che in questo caso c’è poco da ingarbugliare: basta saper leggere l’ italiano. Io non cito nè commi nè leggi, propongo di leggere questa proposizione, ne faccio una questione linguistica, non giuridica: soggetto e predicato.  «Per assicurare un rapporto efficace con le famiglie e gli studenti, in relazione alle diverse modalità organizzative del servizio, IL CONSIGLIO DI ISTITUTO sulla base delle proposte del collegio dei docenti definiscele modalità e i criteri per lo svolgimento dei rapporti con le famiglie e gli studenti, (….) ». Dunque (nozioni da 2^ primaria): Il consiglio d’istituto, in maiuscolo, è il soggetto; l’azione che svolge è data dal verbo in neretto (definisce). L’azione che compie il soggetto si chiama predicato. Dunque all’oggetto, gli odiosi incontri scuola-famiglia, il loro numero (pochi o tanti), le loro modalità (confusi o ordinati), la loro durata, provvede il CdI (su parere del CD). Il dirigente si fa approvare il PdA, il CdI, organo di indirizzo e organizzazione, stabilisce come e quando le famiglie possano incontrare collegialmente i proff. Nelle 40 ore di attività collegiali stabilite per i collegi docenti, che sono convocate dal dirigente, rientrano, invece, le ore dedicate all’informazione alle famiglie dopo gli scrutini.  E chi insegna in più scuole? Se si è letto sin qui,  dovrà comunque garantire la sua presenza ai colloqui a prescindere da calcoli di proporzionalità o delle 40 ore. Siccome gli incontri scuola-famiglia li definisce il CdI su proposta del CD, è utile che sia proprio il CD a proporre, per i docenti su più scuole, agevolazioni e flessibilità. Mentre i docenti con (per esempio) 9 ore in una scuola e 9 in un’altra, divideranno a metà le 40 ore per i collegi e le 40 per i consigli ( i dirigenti dovrebbero concordare 20 ore in una scuola e 20 in un’altra; se non lo fanno, lo proponga loro formalmente il docente). Per concludere torniamo alla domanda iniziale. Perchè gli azzeccarbugli intendono mettere dentro il limite delle 40 ore previste per i CD anche gli incontri scuola-famiglia, limitando il CdI? La risposta è: perchè sono azzeccagarbugli come quell’avvocato di Lecco. Spesso non sono neppure avvocati ma con la pratica e con un computer dicono ai clienti quello che essi vogliono sentirsi dire. All’avvocato bisogna contare le cose chiare, a lui poi tocca di imbrogliarle. Pensate forse che io abbia parlato della scuola italiana? No, questa è la società italiana, e da quasi due secoli.

Finisce oggi il periodo che le scuole dedicano all’orientamento in uscita. Le TERZE classi della scuola media, per esempio, vengono orientate per scegliere in quale istituto superiore proseguire. Una cosa che sarebbe semplicissima organizzare così: una delegazione di ciascuna scuola superiore fa visita ad una scuola media. Poi, ciascun alunno della terza media, se e quando vuole lui, partecipa all’open day che ogni scuola superiore organizza. Semplicissimo, vero? Comodo, trasparente, economico. Ma siamo in Italia e allora cosa succede? Prima ciascuna classe terza della scuola media riceve a scuola per un’ora ciascuna scuola superiore che ne faccia richiesta. Si “impegnano” 10 o più ore per ogni classe. Ma poi: ogni terza media si reca in visita, con pulmino, presso ciascuna scuola superiore. Solo che la visita presso gli alberghieri dura tutta la giornata perchè gli alunni delle medie devono assistere a come si prepara un pranzo e alla fine si trattengono a pranzo. Ma non è finita, perchè gli alunni delle scuole medie tornano di nuovo presso ogni scuola superiore che li invita ad un laboratorio, scientifico, teatrale, artistico… Insomma, per l’orientamento ogni alunno di terza media viene occupato dicembre e gennaio, tralasciando le lezioni normali. Tanto poi, a scegliere, ci pensano mamma e papà. Perchè le competenze fondamentali diminuiscono nei nostri alunni? Perchè diminuiscono le ore di lezione.

” Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza”, è il titolo del nuovo libro del fisico geniale Carlo Rovelli. Agli inizi degli anni novanta, assumendo la presidenza dell’ITC De Fazio di Lamezia, ho parlato e scritto di “Didattica gentile” come elemento caratterizzante della scuola che dirigevo. La scuola infatti è uno di quei luoghi dove le regole sono molto meno importanti della gentilezza. Ma dopo 25 anni penso che molti la considerino una stravaganza. Leggete Rovelli e capirete di più il concetto.

CONOSCI LE COSE FONDAMENTALI? Quali sono? Impara IL CURRICOLO VERTICALE di MAURIZIO TIRITICCO La Bibbia, ovvero ciò che tutti i docenti e i dirigenti dovrebbero conoscere, prima di metter piede a scuola. http://www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2018/12/curricolando.pdf

LE 3 COSE CHE NON PIACCIONO AI DOCENTICi sono tre cose che ai docenti italiani non piacciono, da sempre. 1) Non piace loro essere pagati, come tutti gli altri lavoratori dipendenti, per le ore effettive di lavoro settimanali (se gli alunni sono tutti assenti, loro vanno a spasso, ma se in un negozio non entrano clienti non è che il commesso se ne esce). 2) La seconda cosa la si capisce guardando ad una novità dell’Esame di Stato, dove per le due prove scritte nazionali è stata prevista adesso una griglia di valutazione nazionale. Un piccolo passo avanti, ma che non risolve il problema della discrezionalità della misurazione di ogni prova. Immaginate cosa sarebbe la scuola italiana se alla fine dell’anno ogni studente dovesse misurarsi (il verbo è scelto apposta) al computer con una batteria di quesiti previsti a livello nazionale per ciascuna materia. L’alunno Rossi di Bolzano e l’alunno Bianchi di Ragusa (per es. della prima dell’ITE) saprebbero che il voto dato a ciascuno è oggettivo, che in tutta Italia si sono studiati gli stessi argomenti per quella materia, e che i docenti in classe ci vanno per facilitare l’apprendimento. In parole povere, è quello che già succede per ottenere la patente di guida o il certificato Ecdl. Questa seconda cosa non la vedremo mai, e quindi accontentiamoci delle griglie nazionali di valutazione, ovvero dei parametri, che saranno fornite alle commissioni per una correzione più omogenea ed equa. Ma pur con la griglia comune, ogni prof poi farà come crede e sa. Perché ho detto che la valutazione non diventerà mai nazionale e oggettiva? Perché già le cd “prove parallele” che le scuole, di ogni ordine e grado, stanno da anni svolgendo per tentare (attenzione al verbo) di limitare la varianza tra le classi (per es., nella sez. A si studia italiano in modo superficiale, nella B in modo approfondito), sono osteggiate dai docenti, e in ciascuna scuola sono svolte solo sulla carta: i proff di una stessa materia non riescono neppure a mettersi d’accordo su cosa gli alunni di un determinato anno dovranno alla fine sapere e saper fare. Le prove da somministrare vengono stabilite attraverso estenuanti mediazioni al ribasso, vengono svolte consentendo di copiare, e dopo la correzione, non se ne parla più. Una cosa che si fa per dire che è stata fatta, senza crederci più di tanto. 3) Infine, i docenti non amano parlare con i genitori. I genitori possono essere i peggiori o i migliori del mondo, ma per i docenti sono il pane quotidiano. I genitori non si scelgono, arrivano e ti portano alunni, la materia prima per insegnare. Ora, insegnare senza voler parlare ai genitori, o parlandoci poco (è la stessa identica cosa) è come un medico che dicesse: io visito il paziente ma non parlo con i parenti. Come lo considerereste questo medico, sano di mente? E perché consideriamo sani i proff che pensano alla loro attività come quella che si svolge in aula con gli alunni e non capiscono l’essenzialità del rapporto con i genitori? Solo se scuola e famiglia collaborano e s’intendono e perdono tempo per parlarsi (non tramite whats app), migliorano le prestazioni degli studenti.  Si dice: le famiglie sono peggiorate. Perché, le scuole sono migliorate?  

MATURITA’ di ANDREA ICHINO (Corsera 28/11/2018) L’esame di maturità cambia ancora, purtroppo sempre in peggio. È un esame che dovrebbe consentire di confrontare tra loro gli studenti indipendentemente dalla scuola frequentata e separatamente per ciascuna delle materie. Così accade all’estero ma non in Italia. E non accadrà con la nuova maturità dalla quale il governo gialloverde ha rimosso, anche solo come requisito per l’ammissione, ogni prova Invalsi.Il motivo è chiaro: conquistare il supporto politico dei bacini d’utenza delle scuole italiane che, soprattutto al Sud, regalano i voti ai loro studenti. Non si capisce come mai non protestino gli elettori della Lega nel Nordest, i cui figli hanno i migliori risultati del Paese nelle prove standardizzate Invalsi e Pisa, ma voti di maturità mediamente inferiori a quelli dei ragazzi di altre regioni. La crescita, a cui il governo dice di essere interessato per risolvere il problema del debito, richiede anche una migliore allocazione del capitale umano tra i suoi diversi utilizzi. Un esame di maturità che non consenta di capire chi è veramente bravo e chi no in ciascuna materia non aiuta il Paese a crescere. Servirebbe invece un esame che, indipendentemente dal curriculum classico, scientifico o tecnico frequentato al Nord, al Centro o al Sud, assegni ad ogni studente un punteggio da 0 a 100 sulle sue competenze in matematica. Lo stesso per italiano, una lingua straniera e per ogni altra materia opzionale nella quale lo studente voglia dimostrare le sue capacità. Questo richiede che tutti gli studenti sostengano lo stesso esame, a seconda della materia, con domande a diverso contenuto di difficoltà. Quasi tutti risponderanno correttamente a quelle facili e solo alcuni a quelle difficili. Ma soprattutto è necessario che l’esame sia valutato con criteri uguali per tutti e non dagli insegnanti «interni». Un ulteriore vantaggio sarebbe di consentire alle università di usare questi risultati standardizzati per le ammissioni, invece di buttar via risorse per i test di ingresso. I corsi di laurea in matematica richiederebbero punteggi alti nelle materie scientifiche e meno alti in quelle umanistiche; viceversa i corsi dell’area umanistica. Se poi vogliamo aggiungere domande sulla Costituzione, nessuna obiezione: avremmo finalmente una misura attendibile di quanto sia davvero conosciuta nel Paese.

AGLI INCOMPETENTI POSSONO PIACERE LE COMPETENZE? Non c’è peggior sordo…Prendete un articolo apparso su La Tecnica della Scuola (Test e competenze sono i mali della scuola, di Lucio Ficara, 27/7/2018). Al Ficara consiglio la lettura di un pdf (vedi sotto) di Maurizio Tiriticco, del 2015. E’ facile, è in power point e ci sono pure le figurine. Lo capisce pure un bambino delle elementari. Siccome Ficara non è il solo che ancora nel 2018 contrappone “conoscenze” a “competenze” senza capire il significato dei 2 concetti, e siccome in Europa si insegna da decenni per competenze e noi italiani non siamo gli unici al mondo ad aver capito tutto della vita (Marchionne spiegava che siamo provinciali), prima di parlare e scrivere, studiate gente. E rendetevi conto che dal 2008 c’è l’EQF (Quadro europeo delle Qualifiche) dell’UE, approvato dal nostro paese nel 2012 (quando usciremo dall’UE ne faremo a meno). Leggete Tiriticco:

http://www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2015/03/FRASCATI.pdf

http://www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2018/11/La-Scuola-delle-Competenze.pdf


(INSEGNARE E APPRENDERE di stefano stefanel  9/11/2018)(…) Così si discute in maniera troppo superficiale e si individua nella “didattica per competenze”, che avrebbe soppiantato quella più “seria” di didattica di conoscenze e abilità, il capro espiatorio di un regresso della gioventù e della sua intellettualità. Publio Quintilio Varone nel 9 Dopo Cristo portò le armate romane di Ottaviano Augusto dentro la foresta di Teutenburg, nel nord della Germania. Entrò in quella foresta con ventimila uomini e un’enorme numero di carri ed animali. Pioveva, però, nella foresta e quando i germani di Harmin attaccarono i romani questi si trovarono impantanati e furono sterminati tutti. I carri non giravano e quindi ostruivano le vie di fuga, gli animali erano impauriti, i germani potevano attaccare un’armata sfiancata dentro un bosco e in mezzo alla pioggia, i soldati romani erano stanchi, bagnati, impauriti. Varo non era un grande generale, ma faceva parte di quella tradizione romana che nel 9 Dopo Cristo aveva le massime conoscenze e le massime abilità nell’arte della guerra. Perché allora Varo è andato ad infilarsi in quella foresta e dentro quel pantano? Perché i suoi generali non si sono ammutinati davanti all’inevitabile macello? In quella foresta non c’è stato il passaggio tra conoscenze e abilità e competenze: le conoscenze e le abilità sono rimaste nei campi di addestramento e nelle battaglie del passato in campo aperto e non si sono tramutate in quelle competenze che sarebbero servite per capire dove far confluire le conoscenze sulla guerra e le abilità per condurla. Sia la sconfitta dell’Invincibile Armada nella Manica, sia la disfatta di Kobarid (Caporetto per gli italiani, ma è da sempre un paesino sloveno) stanno sulla stessa linea di analisi: quando ci sono le conoscenze e le abilità e tutto si ferma lì, alla stanca teoria, che non fa il salto verso le competenze che ci fanno capaci di agire nelle situazioni più difficili, la catastrofe è a portata di mano. Io vivo nella paura di lavorare per studenti molto dotti che al momento di tramutare il sapere in competenze non lo sappiano fare e finiscano nella foresta di Teutenburg. Se invece si parlare tanto per parlare ci si provasse a interrogare su cosa sanno fare i nostri studenti durante e alla fine del ciclo degli studi e se si finisse finalmente di usare l’incredibile elogio dei nostri liceali per dimostrare che la scuola italiana funziona bene e quella dei Paesi Ocse che stanno sopra di noi nelle rilevazioni internazionali no, forse il dibattito sarebbe più equilibrato. I nostri liceali sono in genere tra i migliori studenti del mondo e i nostri laureati tengono alto il nome dell’Italia nel mondo (e infatti il nostro sistema non li sa trattenere e loro emigrano), ma la nostra scuola non è fatta solo di liceali, mentre la cultura di molti insegnanti è una cultura che vede liceo dappertutto, producendo solo dispersione. Il “disegno sadico” di cui parla Covacich sta qui: nell’uniformare quello che non si può uniformare, nel continuare a fare quello che don Milani ci ha detto, tanto tempo fa, di non fare: trattare i diversi da uguali. La nostra standardizzazione per classi e non per livelli, nemmeno nel triennio finale, ci porta ad essere l’unico sistema scolastico che porta le classi in quanto tali alla fine del percorso, lasciando a studenti e famiglie la scelta sul percorso, che monoliticamente è poi condizionato dalle classi di concorso. La tuttologia è una condizione dell’apprendimento primario, non di quello secondario, ma noi vogliamo tuttologi fino all’esame di stato: poi, a luglio, tutti specialisti. In questa follia pedagogica è entrata l’alternanza scuola lavoro, uno strumento di apertura che ha avuto luci e ombre nella sua attuazione, ma che ha introdotto un sistema formativo pratico e non solo teorico nell’ultimo triennio di studi liceali. L’attuale sgangherato dibatti sull’alternanza scuola lavoro invece di affrontare la questione con dati chiari la butta ancora una volta sull’ideologico, alterando il sistema durante il suo percorso processuale (una soluzione avvilente e assurda, perché ancora una volta scuole e studenti che hanno lavorato “secondo la legge” saranno penalizzati a favore di chi se ne è bellamente fregato). Ancora una volta ideologia, urla, striscioni di protesta, articolessepolitiche, ecc avranno il sopravvento su analisi, dati, verifica dei fattiL’alternanza scuola lavoro permette di verificare almeno un certo tipo di competenze, il disciplinarismo spinto invece riporta le lancette indietro e si scontra contro soggetti che non possono più essere tuttologi. La pedagogia e la cultura dovrebbero lavorare per ridurre lo spazio “oscuro” tra insegnamento e apprendimento, in modo che quello che viene insegnato venga anche appreso. I nostri buoni insegnanti spesso non sono interessati all’apprendimento, ma solo alla valutazione. La cosa sorprendente però è anche un’altra: oltre 600.000 insegnanti valutano i processi di apprendimento dei propri studenti, ma non hanno studiato come si valuta, perché nessun percorso prevede lo studio dei difficili meccanismi della valutazione. Gli insegnanti sono professionisti dell’insegnamento, se diventassero anche professionisti della valutazione forse lo spazio tra insegnamento e apprendimento diminuirebbe.


(SPRAY AL PEPERONCINO) 16/10/2018 Caos all’istituto Parentucelli-Arzelà di Sarzana dove sono stati evacuati 1500 studenti. Sul posto sono intervenuti il 118, i Vigili del Fuoco e i Carabinieri. Ventidue ragazzi sono stati portati al pronto soccorso. In base ai primi rilievi dei militari, pare che a causare i malesseri sia stato dello spray al peperoncino spruzzato in grande quantità all’interno di una quinta superiore. Nello scorso anno scolastico ci sono stati diversi casi simili in tutta Italia: solo nell’ultimo mese lo spray al peroncino – con conseguente evacuazione e intossicati –  è stato spruzzato in scuole di Palermo, Lodi e Mantova. Gli autori del gesto rischiano (ma quando mai!) una denuncia per interruzione di pubblico servizio e procurato allarme, oltreché per le eventuali lesioni che possono aver subito gli intossicati. Avevo segnalato la questione nel mio libro del 2014 “La fabbrica dei voti finti” . A pag. 123 parlavo della creolina, oggi sostituita da spray urticante.


(m. tiriticco: MISURAZIONE E VALUTAZIONE) Una sola osservazione: l’introduzione dei punteggi per la misurazione delle prove all’Esame di Stato, prevista dalla riforma del ‘97, aveva un significato preciso e intendeva operare un’innovazione profonda. Il docimologo sa che un punteggio è oggettivo e che una valutazione ha sempre un alto tasso di soggettività. Quando un insegnante consegna a un alunno un compito che ha valutato “quattro”, ma poi dice che non se lo sarebbe mai aspettato da uno studente bravo come lui, “lavora” su due livelli senza rendersene conto: ha misurato e ha valutato. La stessa cosa vale per un alunno che “ha preso otto” nel compito in classe, ma l’insegnante sospetta che abbia copiato: otto, esito di misurazione; copiatura, esito di valutazione.

Qualche annotazione docimologica

Introdurre allora il punteggio da uno a quindici per una prova scritta significava introdurre un puro criterio misurativo. Ma poi, quando nell’ordinanza ministeriale che regola ogni anno l’esame di Stato leggiamo che un punteggio di 10 su 15 equivale alla sufficienza, l’amministrazione crea una tremenda confusione, facendo “equivalere”, appunto, il punteggio al voto! Quando invece, nei fatti, un punteggio alto potrebbe essere valutato non sufficiente o viceversa, a seconda della tipologia del compito, dell’alunno e delle relazioni che sempre corrono con gli altri compiti e con gli altri alunni. In effetti ogni anno l’OM che regola gli esami di Stato puntualmente recita: “La commissione dispone di 15 punti massimi per la valutazione di ciascuna prova scritta per un totale di 45 punti; a ciascuna delle prove scritte giudicata sufficiente non può essere attribuito un punteggio inferiore a 10”. E la cosa non mi meraviglia più di tanto: in tutte le ordinanze che negli anni regolano la valutazione degli alunni non c’è mai un accenno al fatto che un conto è misurare una prova, altro conto è valutarla. Per non dire poi della valutazione dell’alunno, che è un altro conto ancora.

Ai nostri amici del Miur, che anno dopo anno scrivono di valutazione, suggerirei la lettura e lo studio di due testi, fondamentali per operare in materia. Sono testi di tanti anni fa, ma illuminanti fin dal titolo. Eccoli: Aldo Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo, Milano, Edizioni di Comunità, del 1955; Mario Gattullo, Didattica e docimologia, misurazione e valutazione nella scuola, Roma, Armando, del 1967.


(DAVICO BONINO) “Oggi gli insegnanti, ovvio con le dovute eccezioni, sono degli impiegati, non gliene frega niente di niente e gli alunni non vedono l’ora che finisca la lezione» (Guido Davico Bonino, 80 anni, critico letterario; intervista al Corriere della sera, 7/10/2018)
 
 (ANDREA MARCOLONGO “IL GRECO CI INSEGNA IL MESTIERE DI VIVERE”) 
Andrea Marcolongo parla del greco come fosse una storia d’amore. Una storia iniziata sui banchi del liceo quando era un’adolescente e mai finita.
Il suo libro d’esordio La lingua geniale è un fenomeno editoriale: da quando è stato pubblicato due anni fa con l’editore Laterza, ha venduto più di 100 mila copie ed è stato tradotto in nove lingue.
«Sono partita da una domanda, mi sono chiesta: ma esattamente della grammatica greca cosa ho capito?», dice Marcolongo.
La lingua geniale (sottotitolo: 9 ragioni per amare il greco) è un saggio allegro ed erudito scritto in prima persona, come fosse il diario di bordo appassionato di una giovane viaggiatrice nell’antichità. Tra notazioni grammaticali e citazioni dai classici, straripa di vita: il libeccio, Livorno, la primavera a Sarajevo, dove la trentunenne Marcolongo oggi ha scelto di vivere, e dove il libro è nato: «Quei tre mesi trascorsi lì a scrivere sono stati i più felici della mia vita. Scrivere questo libro mi ha costretto a prendermi sul serio».
Oggi ha scritto un nuovo libro La misura eroica (Mondadori) ed è impegnata in un tour transcontinentale, insegna alla Scuola Holden e in un liceo di Nancy, e tiene un laboratorio di greco nell’università messicana Unam.
Prevedeva che il libro sarebbe diventato un bestseller?
«No, ma è questo il bello. Ero lì a Sarajevo e non avevo niente da perdere. Nessuno credeva in me, ero completamente libera».
Quando è scattato in lei l’amore per il greco?
«Ero una ragazzina di quattordici anni, mi è bastato vedere la prima parola scritta in greco. Mi ha aperto immediatamente un occhio interno, uno sguardo particolare sulla vita».
Per un’adolescente non è scontato questo invaghimento per una materia ostica.
«Quell’età è la fase più complicata della vita, è vero. Ero una ragazzina solitaria, frequentavo il liceo classico a Crema, il greco era il mio rifugio, il mio piccolo mondo antico. È stato lo stesso quando mi sono trasferita a studiare lettere antiche all’università di Milano.
Avevo appena perso mia madre, non sapevo più chi ero, dovevo recuperare il rapporto con il tempo».
Il primo capitolo del libro è proprio sulla diversa concezione del tempo nei greci.
«Studiando il greco, mi si è spalancato il mondo. Ho scoperto che si poteva ragionare sul come e non sul quando, perché esisteva una temporalità interiore, intima, in cui veniva a cadere la distinzione tra presente, passato e futuro. Per i greci è dal dolore che si apprende ad essere felici».
Cosa vuol dire essere felici per lei?
«Adoro le etimologie. Felice viene da felix che significa “essere fecondi”, “mettersi a frutto”.
Detesto le lamentele. Non è che non veda i problemi, la mia non è la felicità dell’idiota, ma vedo intorno a noi un senso di resa che non mi piace. I problemi si possono risolvere».
Crede serva anche a questo lo studio del greco? A cercare
nei testi antichi consigli per vivere?
«Citando Cesare Pavese, il classico insegna il mestiere di vivere. Non sono una paladina del liceo classico ma del classico. Oggi l’ignoranza è diventata un valore e tutto si misura in “utile” o “inutile”. Ma il sistema educativo non può essere basato sull’utilità, non deve servire a qualcosa ma a qualcuno.
Leggere Platone insegna un metodo logico che puoi portare con te là fuori nel mondo. Omero parla al presente, non ha scritto per trasmetterci la grammatica.
Leggendolo lo riportiamo in vita, lo mettiamo in dialogo con Virgilio, Dante, Virginia Woolf, Marguerite Yourcenar…».
E qui veniamo al dunque, la grammatica. Lei ci va giù dura, scrive che i nostri sistemi scolastici sono “i più retrogradi e ottusi del mondo”.
«È l’unica parte del libro che cambierei. Quando l’ho scritto non entravo in un liceo da dodici anni, ricordavo la scuola dei miei tempi, ma gli insegnanti che ho poi incontrato mi hanno fatto cambiare idea. E i miei ragazzi, che incontro da Machu Picchu alla Puglia, sono la mia forza».
I ragazzi del classico sono davvero diversi dagli altri?
«Spesso scelgono il classico contro il parere dei genitori, che magari gli dicono di studiare il cinese perché è più utile. Ma oggi rivendicare le proprie passioni è la cosa più rivoluzionaria che c’è».
Lei racconta anche le figuracce. Come quando in una versione sul “Ratto delle Sabine” tradusse “raptum” con “topo”.
«Sto collezionando tante confessioni. Un mio lettore mi ha raccontato di aver tradotto aper (cinghiale) con ape (ride)».
Il linguaggio si è banalizzato?

«Siamo diventati pigri. Crediamo che per essere semplici bisogna abbassare il livello. C’è tanta sciatteria. Invece, come dice Kavafis, i pensieri devono essere alti». (Raffaella De Santis, Repubblica, 28 sett 2018)


(ANDREA GAVOSTO) Le prime mosse del nuovo governo in campo scolastico sono rivolte a cancellare alcuni pezzi della Buona scuola. Fra questi, la ( limitata) possibilità del dirigente scolastico di scegliere i docenti che più servono al proprio istituto, l’alternanza scuola- lavoro e l’obbligo di partecipare ai test Invalsi per accedere all’esame di maturità, come ha spiegato il ministro Bussetti a RepubblicaTv. Benissimo, si dirà: la riforma del governo Renzi è impopolare fra i docenti, mal disegnata in origine, preoccupata soprattutto di assumere schiere di precari senza verificarne le competenze (ma in questo caso l’attuale governo non sembra cambiare rotta).

Le misure già prese e altre annunciate in Parlamento – come la completa eliminazione dei test Invalsi – fanno intravedere, tuttavia, un disegno più ampio: come se la maggioranza giallo- verde volesse progressivamente minare il modello di autonomia che ha guidato la scuola negli ultimi 20 anni, senza che però traspaia un’alternativa chiara e credibile. La scuola dell’autonomia, voluta da Luigi Berlinguer, prevede che gli istituti abbiano ampi margini di manovra sui contenuti e gli orari degli insegnamenti, superando la rigidità dei vecchi programmi ministeriali; la gestione delle risorse umane e finanziarie, con un ruolo rafforzato dei presidi; il rinnovamento della didattica; la risposta agli specifici bisogni dei territori. Così è, anche in modo più spinto, in molti paesi europei. L’autonomia deve però andare di pari passo con una seria rendicontazione dei risultati delle scuole al ministero e alle famiglie, a partire dagli apprendimenti: di qui la necessità di un sistema di valutazione, ancora inviso a molti docenti. Di una valutazione che confronti le scuole per sapere di ognuna a che livello si colloca e aiutarne il miglioramento. Va detto che, pur con alcuni successi, l’autonomia non ha raggiunto i suoi obiettivi. Oggi la scuola non è così diversa da 20 anni fa. È mancato il coraggio di spingersi fino in fondo e, alla fine, chi di fatto ha lasciato languire l’autonomia è la stessa sinistra riformista che l’aveva creata. In parte per motivi nobili, come il timore che accentui i divari fra scuole, già eccessivi nel nostro Paese, con il rischio che le migliori attraggano gli insegnanti e gli studenti più bravi, lasciando le altre in un circolo vizioso; in parte per motivi meno nobili, come la paura di scontentare gli insegnanti ( è successo comunque!), storicamente orientati a sinistra, ma spesso conservatori per quel che riguarda criteri di assunzione, orari di lavoro, restii ad accettare di non essere tutti egualmente bravi e motivati. Ma se la stagione dell’autonomia scolastica si sta esaurendo, qual è il modello di scuola del ” governo del cambiamento”? Non è affatto chiaro. Il M5S asseconda le pulsioni egualitarie dei docenti, sacrificando ogni possibilità di distinzione e carriera in base al merito, depotenziando il ruolo di presidi e valutazione. C’è forse nostalgia del centralismo, quando tutto era deciso dal ministero attraverso circolari e graduatorie? Oggi, però, non è pensabile governare così un sistema di un milione di insegnanti, 8 milioni di studenti e 80.000 scuole, con bisogni complessi e diversificati. E, davvero, sappiamo che fra i docenti «uno vale uno» non funziona. Nel Dna della Lega vi è invece la scuola delle regioni, alle quali trasferire tutte le competenze sull’istruzione. Contando su ampie risorse, Lombardia e Veneto sarebbero in grado di garantire risultati scolastici eccellenti e disegnare i sistemi più adatti alle esigenze di sviluppo locale. Ma le regioni del Sud, già oggi nelle ultime posizioni in Europa? Il rischio è che, lasciate da sole, sprofondino ancora di più, accentuando la frattura fra le due Italie. La scuola italiana è forse a un passaggio importante: da un modello incompiuto e probabilmente già esaurito a un altro i cui contorni ancora non si vedono, ma potrebbero svelare un ircocervo di visioni incompatibili e perciò irrealizzabili. Limitarsi a distruggere, senza riflettere su dove si vuole andare, sarebbe un rimedio peggiore del male.

Andrea Gavosto è direttore della Fondazione Agnelli (Repubblica, 14/9/2018)


MARKETING (20/9/18) Le scuole italiane si danno molto da fare per comunicare all’esterno “Qualità”. A caccia di iscrizioni, pensano che moltiplicando progetti & indirizzi (si chiama accumulo) si faranno largo tra i clienti. Sfugge alle scuole un semplice concetto che ci ricordano gli esperti di comunicazione. All’esterno si comunica sempre e solo sè stessi. Se una scuola, per fare un esempio, non riesce a comunicare bene al suo interno (se al suo interno c’è confusione o ci sono contrasti), cosa volete che riesca a comunicare all’esterno? 


GENITORI IMBIANCHINI (11/9/2018) La situazione italiana la si capisce soltanto dai piccoli particolari. Sul Corriere oggi alcuni genitori dell’IC Buenos Aires di Roma affermano che -non è stato facile avere il permesso per lavorare nella scuola, molti presidi temono problemi-. I genitori si offrono di pitturare le aule, di fare manutenzione, e i presidi cattivoni ostacolano. Ora immaginate, siamo in Italia, se un genitore facendo queste cose si facesse male. Oppure immaginate cosa succederebbe se mentre i genitori sono al lavoro arrivassero ispettori dell’Inail o dell’Asl. Che ne sappiamo noi, chiedete al preside, direbbero i genitori imbianchini. In quel momento il preside cattivone torna a fare il suo mestiere, il parafulmine. Tutto ciò che di brutto avviene in una scuola ha un solo unico responsabile. Nelle scuole è semplice, quando cadono i ponti un solo responsabile invece non c’è.


PERCHE’ A SCUOLA I TEST NON PIACCIONO (5/9/2018) «Nooo! Le crocette nooo!» Ventuno anni dopo il varo della «nuova» maturità (che chiudeva 28 anni di «fase sperimentale») e l’annuncio della introduzione subito contestata d’una prova a quiz, l’esame per valutare il livello generale della scuola italiana resta tabù. Niente test Invalsi, neanche quest’anno. Rinviato. A quando? Boh…» scrive Gian Antonio Stella sul Corriere di oggi. Arrivati nel 2018, dopo anni di polemiche e di sperimentazioni, la scuola militante una cosa sola l’ha capita. Quale? Il test Invalsi, a condizione che sia fatto seriamente, riporta fedelmente i livelli degli studenti presenti nelle classi. Se in una classe hai un solo bravo, uno solo ti risulterà. « Ma possiamo far risultare che nella mia classe siano tutti asinelli? Poi se la prendono con i professori». Insomma, solo i proff italiani (e alcuni intellettuali) il termometro-test non lo vogliono (nell’80% dei paesi del mondo viene usato). E non lo vogliono mai, stracciano le prove Invalsi ma anche le cd prove tra classi parallele (tutte le seconde, o le prime nella scuola media). I proff ragionano così: se la maggioranza dei miei alunni sono asinelli, la prova parallela deve essere facilissima, così tutti possono raggiungere la sufficienza. La prova viene tarata sulla classe, invece di far esattamente il contrario. Succede così che in una scuola, stabilita una prova parallela facilissima, avrà classi dove tutti prenderanno il massimo. Questo avviene perchè  nelle scuole le classi, essendo formate sulla base dei desiderata dei genitori, sono molto diverse tra di loro. I proff, invece di accettare questo dato oggettivo che concerne i livelli iniziali , lo temono e il loro compito diventa quello di fare i prestigiatori (far risultare che non ci sono asinelli) . Insomma, la contestazione politica ed intellettuale verso le prove oggettive nella scuola italiana dimostra la nostra predilezione per una scuola finta, come se accertare le situazioni di partenza e quelle di arrivo degli allievi fosse una discriminazione sociale. La scuola finta fornisce titoli finti e appiattisce le abilità degli allievi in un finto egualitarismo (la lezione di don Milani viene capovolta). Alla fine, agli Esami si regalano cento come noccioline e i vari assessori all’Istruzione li difendono pure questi risultati fasulli: la nostra regione annovera solo geni, fatevene una ragione. La scuola italiana cambierà davvero solo se agli insegnanti verrà lasciato l’insegnamento, e la valutazione verrà delegata ad una agenzia esterna indipendente (modello inglese). L’insegnamento tornerà ad essere il mezzo per superare le prove finali ed i migliori insegnanti emergeranno. Come si vede, il siamo tutti uguali anche se non lo siamo, nella versione italiana produce solo incompetenti. Ma a noi va bene così, però piangiamo quando i ponti crollano e non durano mille anni. Chi esce da una scuola così poi va a lavorare, ve ne rendete conto? Diventano ingegneri, medici, dirigenti, fasulli come i voti che gli abbiamo regalato. 


CURARE LA VOCAZIONE NON LA PASSIONE Le leggi non cambieranno nulla, i discorsi degli esperti di comunicazione dell’Eliseo saranno di scarso aiuto di fronte a questo dato di fatto: la grandezza di una nazione è data dalla vocazione dei suoi cittadini. Possiamo riempirci la bocca con l’economia digitale, ma un Paese ha e avrà sempre bisogno di ristoratori, meccanici, idraulici, elettricisti. Artigiani addestrati come si deve, amanti di un lavoro ben fatto, fieri di lavorare anche fuori orario per portare a termine un’opera. Artigiani che pagano tasse e contributi, mentre i colossi del Web vi si sottraggono. In Turenna, è un meccanico che racconta come accoglie i suoi apprendisti. «Diresti di essere qui per passione o per vocazione?». La maggior parte risponde: per passione. «Allora hai sbagliato indirizzo», gli risponde lui. «Il mio medico ha la passione delle macchine cui dedica il suo tempo libero. Ma non è il suo mestiere. È la vocazione che vi spingerà a chiedervi dove sia il guasto e a ripararlo a ogni costo». La distinzione è sottile, ma essenziale. In una società che attribuisce valore al piacere individuale, ognuno vuole coltivare la sua passione. La vocazione gode di cattiva stampa. La realizzazione di sé in un’opera, in un mestiere che per la gran parte consiste nel mettersi al servizio di un cliente per offrirgli la qualità migliore possibile, sembra ormai qualcosa di stravagante.(Natasha Polony, Repubblica)


LA VOLPE E L’UVA DEGLI ASPIRANTI PRESIDI Il concorso per dirigente scolastico è partito lunedì 23 con la preselezione. Si trattava di mettersi davanti al pc e di rispondere a 100 quesiti in 100 minuti. I candidati, alla fine, sono stati 24.082 (10.500 iscritti non si sono presentati) e, quindi, a questo primo turno è passato un aspirante su tre (8736). Questi ottomila dovranno scendere , dopo altre cinque prove, a 2.425.
Sono 189 i candidati (il 2,3 per cento) che hanno preso il punteggio massimo: 100. Il punteggio minimo per passare la preselezione è stato 71,7 (su cento). A me questa selezione sembra il meglio che si possa fare in Italia. Tento di spiegarmi. Nessuno oggi, vedendo i nomi degli 8.700 sul sito del Miur, può dire: tra di essi ci sono i racccomandati o i furbi. Di sicuro ci sono soltanto persone che si sono esercitate sui 4000 quesiti tra i quali sono stati estratti i 100 della prova. Però siccome siamo il paese della favola “la volpe e l’uva” di Esopo, gli esclusi (e i giornalisti) se la prendono con la prova “straordinariamente mnemonica”, o con la presenza di argomenti che ad un preside non devono interessare. Fermo restando che noi umani ancora non abbiamo raggiunto la perfezione in nessuna cosa o attività che abbiamo realizzato dalla preistoria ad oggi (ma ancora ci sono umani che non hanno capito il concetto), di una cosa soltanto siamo sicuri: che per esempio, il più giovane degli aspiranti presidi, Danilo Gatto, 28 anni, (ha preso 90,9),per superare la prova ha dovuto studiare. Vi sembra poco? Così come i quattro trentenni, i tre candidati promossi con 64 anni di età e gli undici di 63 anni. Tutti quelli che hanno tentato senza prima studiarsi bene la batteria dei quiz, state tranquillli, non ce l’hanno fatta. Non è una prova che statisticamente si supera con la fortuna. Tra di essi ci saranno pozzi di scienza, e persone che alla scuola italiana hanno dato tantissimo. Ma se uno si iscrive per partecipare ai 100 mt, non può poi lamentarsi e dire che lui era fortissimo nel lancio del peso. Magari in Italia tutte le selezioni per accedere nel pubblico si facessero così. Magari riuscissimo a valutare gli stessi studenti  senza discrezionalità ma costringendoli a studiare (non sfogliare) 4000 quesiti. Ma riuscite ad immaginare un mondo in cui un genitore non può dir nulla dinanzi la bocciatura del figlio che non ha superato la prova al pc su 100 quesiti? I quiz con le modalità esaminate in Italia non piacciono, e sapete perchè? Perchè eliminerebbero la raccomandazione.


TIRITICCO- A QUANDO UNA SCUOLA CHE NON BOCCIA?  Da “la Repubblica” di oggi 24 giugno: “Brutte pagelle – Due classi e zero promossi, la scuola più severa d’Italia – Livorno, gli scrutini alle superiori diventano un caso. Non riusciamo a farli studiare”. Ormai non mi meraviglio più! Sono anni che penso, dico e scrivo che il nostro sistema di istruzione (che – non dimentichiamolo – è per norma anche di formazione ed educazione), nonostante le numerose riforme che si sono avvicendate nel tempo, non si è mai discostato nettamente dal sistema creato dopo l’”Unità” e parzialmente riformato da Gentile nel lontano 1923! Per non dire poi della “riforma Bottai”, del 1940, e di quelle del periodo repubblicano. Per quanto attiene all’organizzazione delle nostre scuole, sono anni che intervengo e che disserto in primo luogo sulle cosiddette tre C! La Classe, la Cattedra e la Campanella! Basta cliccare “titriticcheide” sul web!

Ecco la prima C! Com’è noto, esiste la CLASSE d’età, che è rigidamente determinata. Penso soprattutto al ciclo 11/19 anni. A proposito: quanto dovremo aspettare per non trattenere più su banchi di scuola cittadini maggiorenni? Si tratta di un’organizzazione per “classe d’età” che pertanto vincola alla promozione o alla bocciatura. Ma che cosa significa “ripetere un anno”? Nessun vivente, dall’ameba alle piante e agli animali, crescendo, sviluppandosi e apprendendo, ripete un anno! Semmai ripete una determinata azione finché non ne sia padrone! Il cucciolo di leone va con la leonessa per imparare a cacciare! E impara, in tempi più o meno lunghi! Ripete determinate azioni, finché non ne è perfettamente padrone! Però non ripete un anno! Non può tornare ad essere “più cucciolo”! L’olimpionico ripete mille volte la sua performance, in uno o più giorni! Ma non aspetta un anno per farlo! La ripetizione rafforza, è vero! Ma non la ripetenza!

Noto anche cha il sostantivo ripetenza il correttore ortografico me lo sottolinea in rosso! Non esiste nel suo vocabolario! Esiste solo nel vocabolario delle nostre scuole! In effetti, la ripetenza che conosciamo noi in Italia è solo un’invenzione della scuola! E di altre! Lo so! Però è una ripetenza che, come abbiamo visto, non esiste né in natura né nel sociale! Ciò detto, per  evitare le inutili, se non dannose, ripetenze, la classe dovrebbe essere sostituita da gruppi di lavoro, anche intercambiabili: Pierino ha bisogno di più matematica; Gianni di più italiano. In altre parole: nel gruppo si studia, individualmente ed insieme; da quel gruppo eventualmente si esce per entrare in un altro gruppo per partecipare a date “lezioni” o a dati “compiti”. Ovviamente le lezioni non dovranno essere cattedratiche, ma condotte secondo una didattica laboratoriale. In effetti, anche nel “sociale”, con alcuni amici andiamo al cinema, con altri in pizzeria, con altri a teatro! Le scelte e le preferenze non sono eguali per tutti!

La seconda C è la CATTEDRA. Questa aveva un senso nelle scuole gesuitiche! Là dove il “verbo” erogato e trasmesso non si discute! L’abolizione della cattedra (e non solo della predella, o meglio della pedana, come recentemente ha sostenuto qualcuno) implica un’operazione assolutamente nuova: non è l’insegnante che va in un’aula, ma è un gruppo di studenti che, in dati orari e in ordine a date operazioni e finalità (un incontro di studio e di lavoro può richiedere un’ora, un altro tempi diversi) si reca in quell’aula, in quell’ambiente di lavoro, quindi in un’aula attrezzata per quella disciplina, in un’aula/laboratorio dove “si amministra” quella disciplina e non un’altra. E dove opera un insegnante! E non è detto che operi sempre da solo! Anni fa discutemmo a lungo (seminari e convegni) sulla compresenza, e l’attuammo anche! E discutemmo anche sulla necessità della pluridisciplinarità e della interdisciplinarità! Il fatto è che sono “cose” che la rigida divisione in “materie di studio” e in relativi tempi orari, regolati un tempo dai “programmi ministeriali”, oggi da “indicazioni nazionali” e “linee guida”, vanifica approcci pluri- ed interdisciplinari. In effetti, la “materia di studio” (dal mater dei latini: la corteccia di un albero) è l’adattamento di una “disciplina di ricerca” alle esigenze scolastiche. Per non dire poi che i tempi di lavoro degli insegnanti sono rigidi: il che non favorisce scelte di tempi diversi da quelli dettati dalla norma. So bene che gli articoli 4 e 5 del dpr 275/99, in forza dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, invitano a scelte diversificate! Ma sono sempre molto difficili a realizzarsi.

La terza C è la CAMPANELLA. Chi mi può spiegare perché in un istituto scolastico di 300, 400 o più studenti, una famigerata campanella suona allo scadere di un tempo di studio (in genere un’ora) eguale per tutti? Come alunno e come insegnante, quante volte ho dovuto interrompere la “lezione” perché “suona la campanella”, o quante volte ho dovuto attendere perché ormai la “lezione” era di fatto terminata. Quella micidiale campanella, la pistola dello starter, che segna il tempo di partenza e il tempo di arrivo eguali per tutti! Insegnanti e studenti! Dell’intero istituto scolastico! Mille persone che entrano alle 8,30! Mille persone che escono alle 13,30! Poco più, poco meno!

Insomma, abbiamo una scuola organizzata come una fabbrica! E tayloristica, per di più! E a questo proposito mi sembra opportuno ricordare l’organizzazione rigida delle attività lavorative che il buon Taylor negli USA agli inizi del secolo scorso aveva pensato e progettato per le fabbriche di Ford! I principi ispiratori erano i seguenti: i comportamenti umani si fondano su basi di razionalità; è scarsa la capacità di agire in situazioni di gruppo e di responsabilità; vi è una propensione per i lavori semplici; occorre garantire l’efficienza produttiva; occorre anche un’incentivazione economica dei lavoratori; occorre puntare alla massimizzazione della produzione. Insomma, si delineava e si proponeva – e si realizzava – un’organizzazione del lavoro fondata su dei princìpi non a misura d’uomo, “alienanti”, per scomodare Marx! Princìpi che Gramsci analizza puntualmente e critica severamente in “Americanismo e fordismo”.

Ma non voglio tirarla troppo in lungo! Mi limito a ricordare che chi amministra e organizza le nostre scuole dovrebbe anche sapere che in altre fabbriche degli USA, in seguito ad una serie di ricerche che Elton Mayo condusse presso laWestern Electric Company di Hawthorne negli anni Venti, emerse che le operaie che lavoravano in condizioni migliori (sia come ambiente, sia dal punto di vista dei rapporti relazionali) producevano un rendimento nettamente maggiore. In altri termini, l’attenzione alle condizioni di vita e di lavoro degli operai consente anche un incremento delle loro potenzialità produttive! In seguito alle ricerche citate si giunse in seguito al superamento della tradizionale “catena di montaggio” ed alla istituzione delle cosiddette “isole di lavorazione”, nelle quali il lavoratore si vedeva maggiormente coinvolto, soprattutto in ordine alle sue competenze e responsabilità professionali. Si tratta di “cose” ormai datate, a fronte della rivoluzione che definirei permanente che le TIC (informatica, robotica ed altre diavolerie) sempre più rinnovate inducono nei processi lavorativi. Datate! Ma chi amministra le nostre scuole di organizzazione del lavoro ne mastica poco!

Termino qui, anche perché tematiche simili non sono di mia competenza! Mi preme soltanto sottolineare che, mentre nel mondo del lavoro si è giunti a modelli organizzativi finalizzati sia agli obiettivi di produzione che al rendimento degli operatori ed alla loro soddisfazione, nel mondo della nostra scuola nulla è cambiato in ordine all’organizzazione varata dalle leggi Coppino e Casati, ereditate per altro da quelle del Regno di Sardegna. Lo so! Ora abbiamo la 107! Ma quelle leggi di fatto sono ancora vigenti! E come!!! (da Edscuola.it)


LA SCUOLA DI GALLI DELLA LOGGIA (6/6/2018) E’ la seconda volta che il prof. Ernesto Galli della Loggia scrive sulla scuola italiana sul Corriere senza citare il mio libro “La fabbrica dei voti finti” (Armando editore) che gli regalai in occasione di una sua visita a Lamezia. Il 28 aprile 2017 scriveva “Le scuole italiane e il tabù della bocciatura” : “Quale affidamento possano dare in Italia i voti di diploma si capisce, del resto, considerando che nel 2016, per esempio, gli alunni promossi alla licenza in Puglia e Campania con il massimo dei voti sono stati più numerosi di quelli promossi con la stessa votazione in Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana ed Emilia messi insieme. In Italia, insomma, al momento degli scrutini, in una grande quantità di casi, probabilmente la maggioranza, non si valuta l’effettivo grado di apprendimento degli alunni. Si dà un voto che si può ben dire un voto politico. E si promuove.” (dati riportati a pag. 159 del mio libro ). Ieri poi ha scritto un articolo “Cattedre più alte per i docenti”, dove dice:  “Cancellazione di ogni misura legislativa o regolamentare che preveda un qualunque ruolo delle famiglie o di loro rappresentanze nell’istituzione scolastica. Dal momento che non ci sono rappresentanti dei pazienti nelle strutture ospedaliere, né degli automobilisti negli Uffici della motorizzazione, né dei contribuenti nell’Agenzia delle Entrate, non si vede perché debba fare eccezione la scuola. Si chiama demagogia: meglio farne a meno.” Lo stesso concetto è espresso a pag. 111 del mio libro, che scrissi nel 2014. Dal momento che quest’accenno alla governance di una scuola (consiglio di istituto) dove siedono i genitori, non è stato fatto in nessun altro libro pubblicato sulla scuola, il prof. Galli della Loggia non doveva citarmi, ci mancherebbe, ma almeno un bigliettino di apprezzamento…La gentilezza dopo l’euro l’abbiamo persa con la lira.


BONUS SCUOLA, MANCIA E MERITO (22/5/2018) La parola “merito” nella  scuola italiana è scandalosa e non può neppure essere pensata per applicarla poi a dirigenti, studenti e prof. Il fatto è che nella nostra scuola è stata da decenni realizzata l’unica forma di comunismo esistente al mondo (Marx non lo aveva previsto), per cui tutti sono uguali e pure liberi.  Lo confermano, da ultimi, i dati sul secondo anno di applicazione del bonus per gli insegnanti che Il Sole 24 ore ha  anticipato. In due anni l’importo totale è stato identico, 200 milioni, ma mentre il primo anno in media un prof premiato ha ricevuto 600 euro, nel secondo sono aumentati i prof premiati e l’importo medio è sceso a 207. Lordi. Con i grillini in vista, la “Buona Scuola” andrà in soffitta nel suo complesso. Niente più premi a nessuno, scuola sotto casa per tutti, precari assunti senza concorso, stipendi aumentati e direzione collegiale delle scuole. Il bonus dato a pioggia, 100 euro netti a tutti, è quanto il sindacato ha perseguito e realizzato. Il bonus- mancia è tipicamente italiano. Ai semafori e nelle scuole.

Adesso vediamo cos’è il merito. Dal 2008 un manager bresciano ma di origini calabrese, Vittorio Colao, ha diretto da Londra la Vodafone (quella dei cellulari) trasformandola in un colosso mondiale. Ad ottobre lascerà, dopo aver in dieci anni pagato agli azionisti qualcosa come 121 miliardi di euro di dividendi. Avete letto bene, 121 miliardi. Il suo successore lo ha già annunciato, sarà Nich Read, “l’unica persona che è riuscito a lavorare con me per dodici anni”. Non risulta che per succedere a Colao la Vodafone abbia consultato sindacati, comitati, lavoratori, utenti, nè di persona  nè online. Non hanno scelto il più anziano, o il più bello, o il più giovane. Lo ha scelto Colao per merito. Per individuare il suo successore Colao ha guardato la sua mitica agendina nera dove annota le cose più importanti che deve fare dalle 6 di mattina, orario in cui si alza. Si narra che prima di una riunione con dei manager abbia scritto sull’agendina “Ciao, come stai?”, per non dimenticare la prima cosa da fare appena entrato nella sala riunione. Il mondo reale (vi piaccia o no) è questo e funziona così. Ma la scuola italiana non fa parte di questo mondo. Avete presente quelli che sanno solo dire: non è un’azienda! Infatti non lo è, perchè un’azienda ha uno scopo da ottenere (altrimenti chiude e danneggia azionisti e lavoratori), mentre noi chiamiamo scuola una cosa che non produce nulla (apprendimenti) e come tutte le cose inutili si può solo guardare. Un pullover magari pagato poco che non usi te lo puoi solo guardare. Leggete “orizzontescuola” di ieri. Un esperto risponde alla domanda di una insegnante: devo venire a scuola sino a fine giugno? No, non devi, spiega l’esperto. Senza vergogna. Nel mondo di oggi, che è quello di Colao, un insegnante sta a casa tre mesi pagata. Il concetto, che sfugge all’esperto, concerne la cd “produttività del lavoro”. Dati Istat, a fine 2108: la produttività italiana crescerà dello 0,6%; Germania +1,3%; Francia + 1,2%. La scuola e tutta la PA abbassano la nostra produttività. Se non aumenti la produttività non puoi aumentare i salari, è chiaro.


LA SCUOLA APERTA: VENITE E FATE QUELLO CHE VOLETE (18/5/2018)  Con i primi caldi scoppia sui giornali (che non aspettano altro) la polemica su come ci si veste a scuola. La mia chiave di lettura è sempre la stessa. Se la scuola italiana fosse una cosa seria è chiaro a tutti che la scuola è la scuola, la spiaggia o il corso o la chiesa un’altra cosa. Ma la scuola italiana è altro rispetto a come viene descritta dagli struzzi, e quindi un preside serio che richiama tali concetti di buon senso viene sbeffeggiato dagli studenti. E ci sta. Ma poi ci sono gli adulti che in Italia vanno dietro agli studenti dandogli sempre e comunque ragione qualunque cosa facciano e dicano: i genitori, i politici, gli intellettuali, i giornalisti. Quindi, se fossi preside non porrei mai divieti di nessun tipo. Tana liberi tutti. Volete venire nudi alla meta? Prego, accomodatevi, il comune senso del pudore non esiste più. Una volta una mamma difendeva il figlio che in classe non si toglieva il berretto. Che male fa? mi chiese. Mi girai e la lasciai a darsi una risposta. Non si può fermare quello che sta arrivando (Cormac McCarty)

PS Nella scuola reale (non in quella immaginata dai giornali) le cose importanti da fare sono: impedire lo spaccio, escludere pusher, bulli, prepotenti, bocciare i non studenti. La scuola è fatta per gli studenti. Molti lo hanno dimenticato. Se in una chiesa durante una messa arrivano dieci persone che ruttano gridano e dicono parolacce, finanche Francesco sarebbe d’accordo prima nel cacciarli, poi nel parlargli. Quelli convenuti per pregare devono essere tutelati. Nella scuola italiana ci si occupa solo dei non studenti. La si chiama inclusione. Gli studenti stanno a guardare.


PAOLA MASTROCOLA: METTIAMOLI IN CASTIGO Scenetta n. 1 -Siamo in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande città. Le cinque del pomeriggio. Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni. Si siedono a un tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce, si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. I due giovani genitori non riescono proprio: pur tentando in ogni modo, tenero e violento, mettendocela tutta, impegnandosi, falliscono miseramente. Alla fine accettano. Subiscono. Sopportano. In una parola, perdono la battaglia.  Scenetta n. 2– Una ragazza rumena fa la babysitter presso una famiglia e deve badare a due bambini, 2 e 5 anni. Sta coi bimbi otto ore al giorno, i genitori non ci sono mai perché lavorano entrambi. Lei fa tutto in casa, stira, pulisce, fa da mangiare e sta con i piccoli, gioca, li mette a dormire, dà loro da mangiare. Un inferno. Le chiedo se ha informato della situazione i genitori. Mi dice che lo sanno come sono i loro figli e le chiedono di aver pazienza; se lei raccontasse loro cosa succede veramente ogni giorno in casa, potrebbero dire che non è in grado di tenerli, e magari la licenzierebbero.  Scenetta n. 3– In pizzeria una sera come tante. Tavolata di amici quarantenni con figli, dai due ai dieci anni più o meno. Figli che disturbano, urlano, si agitano, schiamazzano, si alzano, corrono fuori, tornano dentro, si aggrappano alle vesti per chiedere, per avere, per tormentare. Solita scena di una sera al ristorante. Poi, di colpo, tutti i genitori tacitamente e “naturalmente” concordi piazzano un tablet ai loro pargoli. E tutto miracolosamente tace e s’acquieta. Regna di colpo una grande pace. E un silenzio ristoratore regna finalmente sovrano intorno a noi. Scenetta n. 4 – Fine degli anni ’70. Avevo poco vent’anni, più o meno, e cominciavo a fare le prime supplenze, un po’ ovunque: scuole medie, licei, istituti tecnici, in centro, in periferia, in provincia. Arrivo in una scuola media e, prima di entrare in aula, mi avvicina una bidella avvertendomi, con gentilezza e spavento: Guardi che l’ultima supplente l’hanno picchiata. Non ci possono credere, e mi tremano le gambe.  Scenetta n. 5– Mi danno un’ora di supplenza. In una quarta liceo, una classe non mia. Qual è il problema? È che appena entri nessuno ti vede. O meglio, tutti fanno finta di niente, manco ti considerano. Così tu hai la sensazione di non essere entrato, anzi, di non essere. Ma qui è chiaro: chi fa supplenza non ha potere. Chi non ha potere non viene rispettato, perché dovrebbe? Il rispetto in sé, gratuito, non esiste. Io ti rispetto per paura, per convenienza. Ti rispetto se sei il mio insegnante titolare, che alla fine dell’anno mi dà il voto. Se no niente perché tu non sei niente.  Scenette n. 6, 7, 8, 9…….E veniamo all’oggi. Al caso ormai noto del professore di Lucca. A cui se ne aggiungono infiniti altri: studente che minaccia la prof di scioglierla nell’acido, banchi scaraventati per aria, insulti, genitori che prendono a calci e pugni l’insegnante del figlio. E altro, non mi dilungo.

Ho inanellato questa serie di scenette, così diverse e lontane tra di loro, perché credo che siano invece straordinariamente legate, e unite da un parola cruciale: autorità. È questo che non tolleriamo più, da una sessantina d’anni. Per ragioni ideologiche (l’autorità non è democratica, discrimina, colloca qualcuno in basso e qualcuno in alto). Ma anche per ragioni più esterne che attengono a quel che chiamiamo progresso: perché viviamo immersi nei social, in questo universo della rete che ci attrae in modo esorbitante e morboso.  Visto che abbiamo in odio qualsiasi forma di autorità, e anche la parola stessa, abbiamo smesso di educare. Educazione e autorità mi sembrano piuttosto legate. Abbiamo smesso di educare quando abbiamo rifiutato, consapevolmente e deliberatamente, il concetto di autorità. Abbiamo fermamente voluto, deciso, e perseguito con grande determinazione, questa dismissione dell’autorità. A partire dagli auctores in senso letterale: via gli autori grandi del passato, i classici e ogni ipse dixit, conta l’ultimo libro pubblicato, l’ultimo messaggino su twitter. Parità. Uguaglianza. Democrazia. Certo, nei casi di bullismo tra ragazzi emerge anche il non rispetto dell’altro, l’assenza di ogni limite, il narcisistico parossismo dell’apparire e dell’occupare la scena del mondo, ad ogni costo. Ma il bullismo verso gli insegnanti è altro. È oltraggio all’autorità.  Abbiamo permesso che i nostri figli non obbediscano. Che i nostri studenti non studino (anzi, abbiamo persino smesso di dare ordini e di imporre doveri, così non c’è problema). Non solo non educhiamo. Abbiamo anche permesso che i media e i social dominino le nostre vite. E tutto questo inizia dall’inizio, questo è il punto: inizia quando un bambino nasce. Il punto cruciale è la famiglia, siamo noi, che oggi siamo gli adulti. Siamo noi che permettiamo che i figli ci saltino in testa mentre ceniamo, parlino mentre stiamo parlando noi, urlino, distruggano oggetti, insultino la madre, il padre e la babysitter, non facciano i compiti, copino dai compagni, non aprano un libro, non si alzino per far sedere un anziano, non salutino il vicino di casa in ascensore. Siamo noi che li promuoviamo anche se non studiano, che permettiamo che facciano il chiasso più inverosimile in classe mentre stiamo facendo lezione. noi siamo i primi a non essere rispettosi di noi.  Perché abbiamo permesso tutto questo?  Credo che sia perché ci fa comodo. Per quieto vivere. Ma ancor di più per lieto vivere: goderci la vita, prenderci i nostri piaceri in santa pace. Edonismo. Troppa fatica educare, pretendere, rimproverare, punire. Le conseguenze di tutto ciò le abbiamo chiamate “bullismo”. Non dovremmo stupirci se uno studente prende a testate con tanto di casco da moto indosso un prof. Quel che sta succedendo è molto semplice: quei ragazzi non educati ora rivolgono la loro non-educazione contro di noi. Siamo noi le vittime. Ma siamo stai noi i carnefici, noi che li abbiamo privati di regole e valori, di divieti e limiti.  E ora non possiamo che tacere. Il professore di Lucca che non dice, non denuncia, occulta il fatto di cui è è vittima, la dice lunga. Silenzio. E non è nemmeno il silenzio degli innocenti, perché noi non siamo innocenti.

Siamo noi che abbiamo creato il “bullismo”. E ora ci inventiamo i modi per combatterlo. Geniale. Corsi. Convegni. Petizioni. Piattaforme dove lanciamo s.o.s. Petizioni. Centri anti-bullismo, associazioni, portali. Parliamo, discutiamo nei talk show. Auspichiamo leggi, provvedimenti ministeriali (da una ministra che sta rendendo obbligatorio l’uso dei telefonini in classe come strumento didattico?). E non basta, facciamo ancora di più: ne parliamo a iosa! Occupiamo i giornali e i telegiornali, i siti, twittiamo e condividiamo, moltiplicando così a dismisura la notizia, espandendola all’infinito.  Allora, già che tutto è video, vorrei vedere non solo il video dei ragazzi che oltraggiano un professore, ma anche il video in cui si prendono le loro responsabilità, rendono conto e chiedono scusa. E pagano per quel che hanno commesso. Pubblicamente, davanti a tutti. Se ogni cosa dev’essere mediatica, lo sia anche la sanzione, non solo l’ingiuria. Non occhio per occhio, dente per dente. Ma video per video. E poi, anche, vorrei questo: tacere. Fare un po’ di silenzio. Passare sotto silenzio, invece di amplificare. Se uno su cento oltraggia un prof, non facciamone il protagonista, l’eroe da imitare. Ci sono gli altri 99.

MIO COMMENTO –  L’articolo (da IlSole24ore 1/5/2018) era più lungo, l’ho ridotto ma conservandone, spero, l’immensa lucidità.

“…è un ragionamento lineare”; “Ad una certa età si diventa lineari” (dialogo tratto da Non è un paese per vecchi, film dei f.lli Coen)


DAVIGO SULLA SCUOLA (5/5/2018) Il magistrato di Cassazione Piercamillo Davigo ha raccontato a “Presa Diretta” (3/5/2018) la sua visita in una scuola di adolescenti in America. Gli spiegano che ad ogni studente davano il compito di scrivere a casa un saggio in soli cinque minuti e di portare a scuola ciò che erano riusciti a scrivere. Ogni studente si atteneva all’indicazione senza bleffare. Davigo si dimostrò piuttosto scettico sul racconto e allora gli spiegarono le 3 ragioni dei comportamenti virtuosi degli studenti. 1) Non c’era il valore legale del titolo di studio, per cui più apprendi a scuola meglio è per trovare un lavoro dopo; 2) La scuola era competitiva per cui nessun studente si sognava di far copiare un altro; 3) L’esame finale si svolgeva nella scuola del grado superiore dove ti volevi iscrivere, per cui gli insegnanti ti preparavano per superare quell’esame. Davigo ha aggiunto che questa terza ragione gli sembra la decisiva. ( le 3 ragioni sono argomentate sul mio LA FABBRICA DEI VOTI FINTI, Armando editore)


COME TI SMONTO IL BONUS PER IL MERITO (25 apr 2018) Leggendo il nuovo contratto dei prof, ci si fa un’idea di “come” debba funzionare il “sistema” attraverso procedure cervellotiche. L’Italia  è una società estrattiva, che favorisce la rendita e scoraggia il merito, il successo dei figli dipende da quello dei genitori (Emanuele Felice). Perciò non occorre consentire al dirigente scolastico (così come a chiunque) di attribuire un bonus ai docenti meritevoli. Incredibile ma vero, quelli che lamentano carte e riunioni e burocrazia, sono tutti indaffarati ad aumentarle. Dunque hanno inventato una complicata procedura che provo a riassumere. Per attribuire mettiamo 200 euro lordi (una miseria) all’ottimo prof. Rossi, nella scuola occorrono ben due (2) riunioni preliminari per stabilire i cd “criteri” ai quali il ds si deve attenere. I criteri sono due binari sui quali procedere. Il comitato di valutazione stabilisce i criteri per la valutazione (I riunione). Poi  (riunione n. 2) le Rsu con il ds stabiliscono i criteri per l’ammontare dei compensi, il quantum. Le Rsu (cioè i sindacati) vogliono che il bonus sia una semplice distribuzione di briciole di cui non si accorge nessuno. Pertanto, una semplice intesa sindacale tra componenti del comitato di valutazione e Rsu, può rendere l’attribuzione del bonus inutile e a pioggia, rendendo il diritto del dirigente di individuare i docenti meritevoli semplice tempo perso. Siccome infine nelle rsu può essere eletto finanche il dsga, quest’ultimo quelle piccole somme le paga quando vuole lui, magari prendendosela comoda. Pochi soldi, maledetti e tardi. In Italia diceva Flaiano che due punti non si congiungono con una linea retta, ma con un ghirigoro.


CATASTROFISTI CONTRO ILLUSIONISTI (22/4/2018) “Salviamo la scuola italiana. E salviamola anche dai (nostri) pregiudizi secondo cui la scuola fa schifo, i docenti sono pessimi e gli studenti (a parte i nostri figli) maleducati e violenti. Non è così. Basta andare a vedere. Seguire qualche lezione, parlare con gli insegnanti, entrare in una scuola elementare, in una media o in un liceo: conoscere, vedere e ascoltare. E non sto parlando delle cosiddette «eccellenze». Sto parlando delle scuole pubbliche delle periferie cittadine, del Nord, del Centro e del Sud. Per favore, salviamo la scuola dal nostro catastrofismo e dal sistematico tentativo di affossarla perpetrato dai vari governi, ciascuno con la propria riforma miracolosa“. (Paolo Di Stefano, Corsera). Ai tanti Di Stefano vorrei dire: giusto, andiamo a vedere scuola per scuola. L’istituto tecnico  finito sui giornali per quei suoi studenti terribili ora puniti con la bocciatura – ecco cosa non ha capito Michele Serra- era ed è considerato una delle migliori scuole di Lucca. Ma anche una buona scuola può avere pessimi studenti e pessimi docenti. Occorre essere realisti, valutare tutti e premiare i migliori, presidi, docenti, studenti. I peggiori così si daranno una mossa. Peccato che sia l’unica cosa che in Italia non si può fare davvero, fingendo di esser tutti uguali come se vivessimo in una società comunista.


PERCHE’ QUEL DOCENTE NON REAGISCE? (20 apr 2018) Aprile 2018, si discute sui media di violenza a scuola. Il fenomeno italiano in crescita lo avevo segnalato già quattro anni fa, guardando a quello che stava succedendo negli Usa, in Gran Bretagna, Francia o Slovacchia dove, per capirci, quasi il 50% dei docenti subisce violenze da studenti o genitori. Antonio Polito (sul Corriere) si chiede perchè quel prof così intimidito dallo studente non reagisce (v. video di Lucca). E giù parole e parole sull’emergenza educativa, regole, autorità, etica, smartphone e così via. La mia risposta a quella domanda è quella di un sempliciotto che però sa di cosa parla avendo osservato il fenomeno da vicino. La cosa più difficile per un qualsiasi professore è saper tenere la classe. Una cosa è il cattedratico universitario che fa lezione a clienti che poi devono sostenere l’esame con lui, un’altra il prof che tenta di farsi ascoltare da troppi studenti costretti a scuola controvoglia e sicuri di essere promossi a prescindere. Tu puoi essere un pozzo di scienza ma entrare nella gabbia per domare i leoni non è la stessa cosa che essere un bravo etologo. Tanto più che, fuor di metafora, davanti nella gabbia non ti trovi animali ma adolescenti che stanno costruendo il proprio ego. E il prof non sa nulla di adolescenti, di psicologia, magari di figli e in cuor suo avrebbe desiderato lavorare chiuso in una stanza da solo senza vedere mai nessuno. PS: in un altro articolo il prof. Rossi-Doria dice quello che io ho ripetuto per 42 anni di scuola: io sono per il ripristino del limite. Ogni cerchio si deve spezzare in un punto. Il problema principale in campo educativo sono i doveri non i diritti.


LA SCUOLA VERA E QUELLA DI FLORIS (18/4/2018) Tre notizie di scuola oggi sui giornali. (1) A Lucca in un istituto tecnico un prof è filmato mentre viene bullizzato da uno studente che pretende il 6, gridando “Chi è che comanda? Si inginocchi” (sulla Stampa e sul Giornale, o Dagospia); (2) a Milano  sospesi 12 liceali di primo liceo scientifico per aver diffuso un video di una tredicenne che si spoglia (sul Corsera: faranno nientepopodimenoche 10 giorni di lavori utili!); (3) infine ancora sul Corriere Ferruccio de Bortoli presenta il nuovo libro di Giovanni Floris (diMartedì), “Ultimo banco”. Trigliceridi  fuori controllo per tutto lo zucchero con il quale Floris descrive la scuola italiana (“gli esempi positivi sono straordinari”). Siamo alle solite. Le prime due notizie sono fatti che rappresentano la normalità quotidiana della scuola italiana. Ma i commentatori preferiscono pensare che siano eccezioni. Questa pia illusione è il vero dramma della società italiana. (Chi non mi crede guardi il video: https://www.orizzontescuola.it/minacce-a-professore-finite-su-youtube-tre-indagati-ecco-il-video/)


I DEPORTATI (14/4/2018) Vi è mai capitato che ad un concerto di musica classica i vostri vicini di posto chiacchierino tra di loro, oppure che in un teatro o al cinema altri spettatori annoiati disturbino? In questi casi uno si chiede: ma che sono venuti a fare? Tutto ciò mi torna in mente ogni volta che incontro “i deportati”, vale a dire scolaresche costrette ad assistere ad un convegno. Per quale ragione deportiamo gli studenti, facendo continuare la lezione frontale fuori dalla scuola? La leva obbligatoria dei convegni non finisce mai. Ci si illude, forse, oso sperare che sia così, che sostituendo il prof. Pincopallo con un premio Nobel, si possa ottenere ascolto dai ragazzi. Ma non è così, è la lezione frontale come strumento didattico che ha fatto il suo tempo, come se uno oggi in medicina invece dell’artroscopia intendesse continuare ad adoprare il tradizionale metodo chirurgico con il bisturi. Ascoltavo al Salone del Rosario lo storico dell’arte Stefano Zuffi illustrare quel prodigio del Codex Purpureus, manoscritto onciale greco del VI secolo, conservato nel Museo diocesano di Rossano, una meraviglia importante quanto i Bronzi di Riace. E pensavo a quanto inutile fosse il suo accorato appello alla “narrazione” degli spettatori: studenti e cittadini che siete qui, fatevi apostoli di cotanta bellezza, tramandatela e diffondetela per amare e far amare la nostra Calabria. La diffusione-trasmissione della cultura non passa più dalla convegnistica così come non passa più dalla scuola, e forse solo i programmi di Alberto Angela possono emozionare qualcuno. Ma non perché adopera il mezzo tv. No, semplicemente perché nessuno di noi è deportato, costretto, precettato, obbligato. Ciascuno di noi col telecomando in mano sceglie se vedere Angela oppure altro. Perché  non liberiamo finalmente gli studenti? Che studi soltanto chi vuole. La mia è una posizione correttamente “populista” a difesa degli studenti. Il populista rappresenta «il popolo» come virtuoso e fondamentalmente omogeneo; si presenta come difensore della sovranità popolare, in opposizione al potere delle élite; e si autodefinisce in opposizione all’establishment politico, che accusa di agire contro l’interesse del popolo.


LA LEGGE 104 NEGATA SOLO AI POVERI CRISTI (6/4/2018) La legge 104 è un privilegio regalato (?) da medici compiacenti meridionali. Una vergogna che va avanti da troppo tempo, perchè ne usufruiscono persone che non ne hanno diritto e viene negata a poveri cristi senza Santi. Grazie a tale privilegio c’è il prof che ogni mese si gioca il jolly (e nessuno può impedirglielo) dei suoi 3 giorni di permesso a ridosso di festività, ponti o eliminando i giorni di lavoro più pesanti. A casa grazie a Dio ha un vecchio genitore autosufficiente la cui unica malattia è la vecchiaia. Sulla carta risulta che con amore filiale lo accudisce. Sento ogni giorno parlare di lotta alla corruzione. Sacrosanto. Di lotta alla mafia. Sacrosanto. Ma il 79,5 di docenti spostati dal Nord al Sud grazie alla L. 104 mentre nel Nord Ovest è stata del 2,3% e nel Nord Est dell’1,8%, come lo consideriamo? Un dato normale, trascurabile. Oppure un dato che fa parte del familismo amorale della società italiana, esteso ad ogni livello sino al punto che non ci facciamo più caso? Se nel 2017/18 un maestro su 5 si è avvalso della precedenza per assistenza a familiari con disabilità; se i giorni di permesso per la L.104 nel pubblico sono 6 (media pro-capite) contro 1,5 nel privato, con un costo ombra stimabile in oltre un miliardo di euro, non vi pare che la lotta alla corruzione e alla mafia andrebbe accompagnata da un deciso contrasto a tali pratiche truffaldine? Dirò di più. Mentre fare la guerra ai mafiosi (basta guardare la tv) è impegnativo e costoso, anche in termini di vite umane sacrificate, fare la guerra ai furbi dovrebbe essere più semplice. Ammesso che i furbi siano considerati per quello che sono realmente: un pericolo per la comunità sociale. La diseguaglianza sociale di cui tanti in questo periodo parlano passa anche attraverso la differenza tra il truffatore e l’onesto. Il truffatore in Italia ha la precedenza. Se poi è anche cretino, nessuna carica gli è preclusa