«Non credo che il vento populista che soffia in tutto l’Occidente sia la semplice conseguenza dei processi di globalizzazione. C’è anche altro, dall’automazione che sottrae lavoro all’uomo alle riforme fiscali che hanno ridotto le tasse sul capitale, accentuando la pressione sui lavoratori. E non credo che i risorgenti nazionalismi siano causati da una reazione di tipo etnico alle ondate migratorie. Pesano molto di più le considerazioni economiche».
L’economista serbo-americano Branko Milanovic è celebre nel mondo per gli studi e le denunce sui gravi effetti delle diseguaglianze sui tessuti sociali delle nazioni. Ma l’accademico, ex capo della ricerca economica della Banca mondiale, è anche un osservatore pragmatico dei fenomeni politici e non si fa problemi ad andare controcorrente quando ha la sensazione che obiettivi da lui condivisi vengano perseguiti con strumenti inadeguati. Milanovic, nei prossimi giorni speaker alla Biennale della Democrazia di Torino, ha fatto arricciare il naso a parecchi democratici quando ha proposto di gestire i fenomeni migratori in Europa con meccanismi analoghi a quelli usati a Singapore o nei Paesi del Golfo. Davvero ritene che l’immigrato dovrebbe avere diritti limitati e un permesso di soggiorno, non rinnovabile, per soli cinque anni?
«Ovviamente la soluzione ideale nel mondo globalizzato sarebbe quella di avere frontiere aperte. Immigrati liberi di venire da noi, con pieni diritti. È realistico? Ovviamente no. L’Europa non vuole più accogliere i flussi dall’Africa. Dice basta, ma nemmeno questo è realistico. L’Africa è vicina all’Europa geograficamente e culturalmente, per lingue e passato coloniale. Nell’arco di due generazioni quella sub-sahariana avrà due miliardi e mezzo di abitanti. Impossibile bloccare la spinta verso il continente più ricco, si può solo cercare di regolarla. Con quote rigide».
Non è meglio aiutare l’Africa ad aumentare il suo tenore di vita?
«Vogliono vivere come noi. Vanno aiutati, ma ci vorrà un secolo: da questo punto di vista la Cina, tanto criticata per il suo espansionismo, va in questa direzione coi suoi massicci investimenti. Intanto, cosa facciamo? Non voglio essere allarmista ma, con la fine dell’era di Bouteflika, l’Algeria potrebbe diventare, per l’Europa, quella che negli anni scorsi è stata la Siria. Cinque milioni di algerini che cercano di raggiungere l’Europa: potrebbe succedere tra 18 mesi. Perché, allora, non guardare a Paesi che hanno creato meccanismi di migrazione circolare, con un avvicendamento periodico? Certo, chi dovrà andar via dopo cinque anni non sarà contento, ma è sempre meglio di niente. E, comunque, lascerà il posto ad altri con gli stessi bisogni».
Lei parla spesso di «citizen rent», cittadini europei che difendono la loro posizione privilegiata.
«È una constatazione oggettiva, non un giudizio morale. Chi nasce in un Paese ricco ha un reddito più alto, a parità di lavoro e professionalità. E vuole trasferire il privilegio alle future generazioni. È comprensibile, nessuna condanna. Ma dobbiamo capire che, finché esiste questo citizen premium, o rent, è anche comprensibile che gli esclusi facciano di tutto per venire in Europa: vogliono uno spicchio di questo privilegio».
Fa discutere anche la sua riflessione sui gilet gialli francesi in relazione alla pressione degli ambientalisti per una politica efficace contro il «global warming». Proteste innescate anche dall’aumento del prezzo dei carburanti: secondo lei indicano che certi obiettivi sono irrealistici, se non si dice con chiarezza quanto costa la lotta contro l’effetto-serra e chi la deve pagare?
«Non dico che chi scende in piazza non ha sensibilità ambientale. Semplicemente, dopo anni di crescenti difficoltà nel mondo del lavoro e di contrazione o stagnazione del reddito, non accetta di alimentare altre sperequazioni assumendosi anche il costo del risanamento ambientale. La tassa sui carburanti, infatti, colpisce soprattutto la Francia meno ricca: regioni agricole e pendolari. Tutelare l’ambiente è obiettivo lodevole. Ma, per raggiungerlo, molti dovranno dimezzare il loro tenore di vita».
Diseguaglianze ignorate fino a ieri che ora mettono in crisi tutto, dalla democrazia all’ambiente.
«Beh, non è un fenomeno degli ultimi due o tre anni: le diseguaglianze crescono da un trentennio. Ma, almeno in America, il ceto medio le aveva esorcizzate grazie al credito facile: denaro in prestito per compensare i minori guadagni. Un sistema andato in frantumi con la crisi finanziaria del 2008. Un brusco risveglio. Ricordo ancora quando, in precedenza, il Congresso chiese un rapporto a noi economisti della Banca mondiale. Quando presentai i dati sulle crescenti diseguaglianze, fui rimproverato: ma voi sprecate soldi dei contribuenti per studiare queste cose?».